venerdì 28 giugno 2019

Umberto Fiori

NOI, 48


"Sai..." provo  a dire, come
parlando con me stesso, "l'Uomo Nuovo,
il Grande Cominciamento
a venire, l'interminabile Avvento
del Mondo Giusto, della Verità,
di un più autentico Noi,
da un certo momento in poi
invece di riscaldarmi
cominciavano a farmi disperare.
Erano come un faro
puntato in faccia
per schiacciarmi contro
il non-ancora dove
passava la mia vita di quasi-umano,
gli anni monchi, la traballante preistoria
di un Domani che non avrei mai visto.

Pensavo: se soltanto in quel Futuro
tutto si compirà, che cos'è, allora,
questo minuto a cui sono inchiodato,
il tempo provvisorio
dove mi agito, esisto,
questo insipido prima che finirà
senza congiungersi al suo dopo?

Là, nel tempo perfetto - puro, immobile -
il grande Frutto, il maestoso Scopo.
Quaggiù, le schegge delle nostre opere,
le nostre ore mai compiute.

Queste giornate, e gli alberi, e questa gente,
e le sere d'estate, le case al sole,
i saluti, le voci giù nella piazza:
polvere, niente?

Morirò. Non vedrò la vita vera.

Ma ecco: un altro pensiero
fermentava da questa disperazione.
Anzi, non un pensiero: una visione.
Meglio: una vista.
Di colpo, ho visto il mondo.
E dentro il mondo, le figure:
un albero, un passante, un capannone.
Ho visto l'ora, il qui che mi teneva
con loro. Senza proclami, senza bandiere,
senza una verità da far valere,
senza un noi a vantarla e a custodirla.
Chiunque. Ognuno. Uno. Come tutti
da sempre, in ogni tempo.

Da allora, sono finalmente solo
- vedi? - di fronte al mondo, a pronunciarlo
come posso, con queste venti parole
che mi sono rimaste. Ora basta.
Di quel che faccio, soltanto io rispondo.
Se parlo, è a nome mio. La mia morte
nessuno può morirla".


da Il Conoscente, Marcos y Marcos, 2019




















mercoledì 26 giugno 2019

Onofrio Lopez


NEL SENSO DELLA PARABOLA
  

1.
L'origine della parabola
mio destino presunto
fu l'apparire d'un orizzonte astratto
al sole d'un intermezzo d'estate
nella piazza pretenziosa
dei loggiati ocra, dei lecci
e dei tigli di contorno
a un Arco trionfale
a una Porta cupa.

2.
La soglia sconnessa
che marcò il distacco del prima
dal dopo l'elessi a varco
abituale verso passioni
per molto tempo e oltre ignote
aggrumate in un fuoco geometrico,
il mio effe-zero.

3.
Una luce apatica
rendeva grigie le sagome
di noi adepti, blu le sere
consumate mescolando opinioni
risolute, nere di proclami bui
le azioni a venire, tinte
comunque labili per esuli
cresciuti a pane
e utopie incompiute.

4.
Certezze ardite
vergini di premonizioni
e inganni salivano
e scendevano scale in cerca
di verità tra vinti presunti,
scaldavano di giorno desideri
di visi di sguardi di odori,
di notte di amplessi pensati,
sonando brani di parole
andanti allegri.

5.
Fluttuavano leggere
pulsioni ataviche
su continenti galleggianti,
non so se modelli disumani
o miti o colpi di vento glaciale
da piattaforme lontane
dove bagliori imprevisti
beffavano i tracciatori di rotte
verso approdi perduti.

6.
Sulla mappa apocrifa
delle città ideali
riaffiorata da torri
di carte invecchiate
la direttrice del tempo
ha lasciato insolute le incognite
della linea curva
che ancora mi appartiene,
concava in basso
a raccogliere i riverberi
d'impegni d'amore bruciati
e d'idee di rivalsa.                 

7.
Ora, la velocità dei sogni
non accelera più improvvisa
e residua non muta i resti
dell'ultimo paradigma.
L'opera del caso ingravida
il senso della parabola
che fluisce, eco quasi muta
di esordi ed epiloghi,
tramestìo di messaggi postumi,
ripasso d'illusioni
diafane ribelli.
  
Firenze, 2018-2019



(inedita)

lunedì 24 giugno 2019

Eugenio De Signoribus

(IL PASSAGGIO DEL DECENNIO)


mai del tutto tranquilli e mai
del tutto sazi
siedono sulle ore spinose della sera
con punte di piombo nello stomaco
in cerca d’una disperatamente
erotica visione
e una dialettica che non azzeri
il basso livello d’ossigeno

la comodità della sedia non annulla
il disagio della posizione
comunque si dispongano
il fumo staziona intorno al cervello
e copre sugli alti muri
crepe altrimenti visibili

frullano le parole
piumicole in libertà vigilata
a colpi di saliva si compongono contrasti
per autodifesa, percezione
di distanze remote
e mutazioni presenti
lungo tutta la linea terra-cielo
dove s’accumulano reperti per lo più disumani…

in questo spazio fondo come una vagina
batte la cicatrice del desiderio

e prima di rismarrirsi nella nebbia
ancora del non nato si dolgono

da case perdute, marka, 1986

venerdì 21 giugno 2019

Francesco Petrarca


SONETTO CLXXXIX

Passa la nave mia colma d’oblio
per aspro mare, a mezza notte, il verno,
enfra Scilla e Caribdi; et al governo
siede ’l signore, anzi ’l nimico mio;

a ciascun remo un penser pronto e rio
che la tempesta e ’l fin par ch’abbi a scherno;
la vela rompe un vento umido, eterno
di sospir, di speranze e di desio;

pioggia di lagrimar, nebbia di sdegni
bagna e rallenta le già stanche sarte,
che son d’error con ignoranzia attorto.

Celansi i duo mei dolci usati segni;
morta fra l’onde è la ragion e l’arte:
tal ch’i’ ’ncomincio a desperar del porto.

mercoledì 19 giugno 2019

Juan Ruiz

L’ISOLA NEL TEMPO


                                            A lei – che sa come, che sa perché



1.                                  

Fu in quell’ora in quell’isola nel tempo,
fu sentendo la tua vita
affidarsi alle mie mani e il tuo corpo
abbandonarsi contro il mio;
fu quando scostai dalla tua fronte
una ciocca di capelli e sorpresi
le dita a meravigliarsi di quel gesto;
fu tenendo il tuo viso contro il mio
e toccando con la fronte la tua fronte,
respirando il tuo respiro;
fu sentendo le tue mani cercarmi
e toccare il mio corpo con strana
imbarazzata confidenza; fu quando
i nostri volti s’incontrarono
e cercandosi – oh ma timide impaurite – 
le bocche si trovarono; fu allora
che ti riconobbi, che ti seppi mia,
a dispetto del tempo e di te stessa.  


2.                      

La mia mano salì, mentre il tuo sguardo
ne seguiva il lento volo, fino
all’ombra dei capelli, al silenzio
delle labbra, poi discesa nell’ansia
del seno più lenta si aprì la strada
per golfi e pianure, per l’umida palude
dove scese in suo aiuto la lingua
e il desiderio si sciolse in affanno.
Fosti cieca e pronta, ti apristi
al morso e all’assalto, ti piegasti
all’oscuro riverbero del fuoco
nel tuo sangue, fosti ansimo e febbre.
Così t’abbandonasti, né pudore
né ricordo, all’intimo spasimo che
appaga e cancella, esiliandolo, il dolore.


3.                     

Quando le dita tracciarono la linea
aguzza dei tuoi fianchi, quando,
brune tortore tremanti, le punte
dei seni al tocco delle labbra
si alzarono in volo, quando il fuoco
pallido del tuo ventre si accese
e arse le morte foglie del pudore,
quando l’ansia fu spasimo, grido
muto, quando dal desiderio
generasti il piacere e le labbra
si schiusero per dirlo, quando l’esangue
fiore del tuo corpo finalmente si aprì
fra petali di febbre io ape assetata
mi posi saziandomi lasciandomi morire…


da Isola del tempo, raccolta inedita di prossima pubblicazione



lunedì 17 giugno 2019

Hermann Hesse

LA LETTERA

Tira un vento dall'ovest,
i tigli gemono tanto,
la luna fa capolino fra i rami
e guarda nella mia stanza.

Ho scritto una lunga lettera
al mio amore
che mi ha lasciato,
la luna riluceva sul foglio.

Sotto il suo silenzioso chiarore
che passa da riga a riga,
il mio cuore si dimentica piangendo
del sonno, delle preghiere e della luna.

Traduzione di Bruna Maria Dal Lago Veneri

da Poesie d'amore, Newton Compton

venerdì 14 giugno 2019

Vito Riviello

QUALITÀ DI MORTE

Ci scappa il morto!
Ci sta scappando
il morto ci è scappato.
È fuggito in una morte seria
                          d’occhi compiti
e vasi etruschi
fuggendo dalla morte nemica
di bossoli nutrita.
Morti perfettamente uguali
                  pur nelle distinzioni
                                                      ipocrite
dell’orride devastazioni.
Come faranno le religioni
a riconoscere gli accoliti.
Solo chi li vede non li distingue
in cadaveri rossi o azzurri.
Da un morto all’altro stiamo fuggendo
sotto il manto delle stelle.
Se dal torbido sogno
              mi svegliassi antilope
apprenderei la virtù dei forti.


da Assurdo e familiare, Piero Manni, 1997

Parole per Vito

A sei o sette anni, mi trovai per la prima volta in mezzo ai preparativi di un funerale. Gli urli e i pianti intorno a me mi spaventavano molto, perciò mi tenevo aggrappato, tremante, alle gonne di mia nonna: capivo d’avere a che fare con qualcosa di terribile e ne avevo paura. Allora, mia nonna, che si accorse del mio spavento, si chinò su di me, mi sorrise e disse, in dialetto: «Se rii la ècchia scappa». Se ridi, o sorridi, la vecchia scappa. Chi fosse la vecchia non chiesi. Non aveva importanza. Ma compresi quel che aveva inteso dirmi: le diedi retta, sorrisi anch’io e tutta quell’agitazione cominciò ad apparirmi in una luce un po’ ridicola; non ebbi più paura. Insomma, il riso (l’umorismo, il ridicolo) vince anche la morte.
Non avevo più pensato alle parole di mia nonna, fino alla sera in cui lessi la poesia di Vito Riviello riportata qui sopra. Il doppio uso del modo di dire dei primi versi mi divertì e mi sorprese e risvegliò quel lontano ricordo. La poesia è tratta dalla raccolta intitolata Dagherrotipo del 1978. 
Proprio in quegli anni conobbi Vito e quel libro fu il primo suo che lessi. Da allora, leggere la poesia di Riviello mi ha sempre ricordato quella frase. La sua ironia, la sua vena comica e surreale, sono il riso che scaccia la “vecchia”, un esercizio di esorcismo contro… Contro quel che volete, appunto: la paura, la morte, o solo la fatica quotidiana, l’ansia della vita. Non che questo fosse l’intento di Vito, forse, ma io la sua poesia la leggo così. E gliene sarò sempre grato, ricordandolo con particolare affetto nell'imminenza dell'anniversario della sua scomparsa, avvenuta il 18 giugno del 2009, ormai dieci anni fa.

mercoledì 12 giugno 2019

Franco Fortini

CON UN UNICO GESTO

«La certezza che ogni scoria
ogni malinconia
ogni male di vivere
si sono ridotti alla loro cenere».
Questo esigono e anch’io
«dalla disciplina della parola». Ma non è
e lo dimostro qui, solo questa la verità.

Dico di me e del male di vivere.
Frugo tra ceneri. Ma anche volto la testa
e le urla le sento
degli straziati da uomini cani
che vogliono anche me
una di queste notti uccidere.
                                                     Indico
con un unico gesto della mano
sia passione sia vanità
la celeste forma della morte
la forma sporca della malinconia.


da Tulle le poesie, Oscar Mondadori 2014



lunedì 10 giugno 2019

Emily Dickinson

GUARDA AL TEMPO PASSATO, CON OCCHI BENEVOLI


Guarda al tempo passato, con occhi benevoli - 
senza dubbio ha fatto del suo meglio -
Con che dolcezza affonda quel sole tremolante
nell'occidente della natura umana -

Traduzione di Silvia Bre

da Questa parola fidata, Einaudi 2019

venerdì 7 giugno 2019

Fernando Pessoa


SONETTO XV

Come un cattivo adulatore disperato e tremante
Per la stridente sensazione di amare non riamato,
Con impaurita brama male comprende, confondendo
Il desiderio e quello che egli teme di provare
Col mio occhio interno osservo timoroso di osservare,
E anche incerto nell’osservare, il valore che
Questo verso possa avere vagheggiando i pensieri
Che il mio libro farà nascere nei cuori altrui.
Ma, così come colui che ama e, amando, spera,
Però, sperando, teme di aggiungere prova alla prova,
E nella sua mente va in cerca di possibili prove,
Rifiutando le vere, per timore della realtà,
     Io vivo quotidianamente i sogni di gloria
     Solo pensando quello che gli altri pensano di me.

Traduzione (dall'inglese) di Ugo Serani

da I trentacinque sonetti, Passigli

mercoledì 5 giugno 2019

Umberto Fiori


PROLOGO, 1.


È vero: ci sono giorni
che le vostre parole più care e buone
mi suonano come insulti,
giorni che dal mattino alla sera il sole
splende contro di me
come contro un ritaglio di lamiera:
non mi si parla senza avere
diritto in faccia
il suo abbaglio tremendo. Ci sono volte
che mi trovate là,
fermo, freddo
come l'avanzo nel piatto.
Non vi ascolto, non alzo nemmeno gli occhi.

È che ho la testa piena
di una scena che ho visto
tanti anni fa.


da Il Conoscente, Marcos y Marcos, 2019


lunedì 3 giugno 2019

Francesco Dalessandro


SII NATURALE
(da Robert Creeley)

A Laura, per i suoi nove anni - 
e per quest'altro compleanno

Sii naturale come sai
essere, figlia mia.
Fa’ che il mio nome
sia nella carne che ti diedi
quando amai tua madre;
sii naturale e saggia, come lei
è la donna ch’è in te, educata
da una sensuale
moderazione. Ma non
più saggia, non più naturale
dei suoi capelli, degli occhi
che t’ha dato.
Nessuna donna mai
sarà come sarai.
Ricordaci, tua madre
e me; ricorda come sei venuta,
come t’abbiamo attesa.
Sii naturale e saggia, figlia mia,
come sai. Lascia a me,
tuo padre, la retorica; e lascia
che sia io a parlarne e ti risparmi
quella sciocca ostentazione.
Non smettere di amare,
figlia, non stancarti
di cercare l’amore in ogni piccola
cosa di questo mondo.
Lascia a me, tuo padre,
la dimenticanza;
a me cui l’amore sembra ora
una lontana ricompensa
per un merito dimenticato.
Figlia, sii naturale
e saggia, come sai,
come voglio che tu sia.