venerdì 29 gennaio 2021

Antonio Colinas

 FIESOLE


Sai bene che la sera è vinta.

La vedi come innalza le ultime colombe

dal cipresseto, come in un rantolo interminabile

ancora vibra in ogni pino.


Il suo ardore scivola per le colline

lasciando l'oro migliore fra le cupole dell'Arno.

Quale solenne tensione sotto i tuoi occhi

quando l'ombra arriva in onde profumate

e socchiudi le labbra, solamente

per tacere, per mortificare la Parola.


Per un istante ti chiedi

se ha età la notte su queste colline.

Poi non ci pensi più, tu che hai

come uccello una conchiglia fra le mani

e, docile, la fai suonare su Firenze.


Traduzione di Pietro Civitareale


da "ARSENALE", Numero Nove-Dieci, Anno Terzo, Gennaio-Giugno 1987 

mercoledì 27 gennaio 2021

Francisco Chica

 GIORNI LAVORATIVI


I

 

Ti riconosco, notte amica,

quando cadi silenziosa sugli oggetti

della sala da pranzo

che occultano la loro presenza

nello spazio propizio al gioco d’ombre

che tu con tanto amore

convochi giornalmente.

La luce artificiale bagna appena

la superficie del corpo felice

– unica resistenza opaca

all’ansia smisurata di trasparenza

che attraversa il riposo;

suddite dell’istante le pareti

ricalcano con precisione

il contorno capriccioso del gesto,

il freno della parola.

 

Il verde profondo della sera

si nega al cambiar posto.

 

 

II

 

Il vicino mare è la dimora permanente

sopra il fragile destino

dei corpi fluttuanti

eretti dalla bruma

di un sogno repentino.

                (Dall’insistenza procace della fiamma

                sorge la scrittura)

Il raso del mezzogiorno

inonda la terrazza

e i vapori dell’alcool

sciolgono il dubbio della tua vita ardente.

                Sulla tavola libri

                e una mela pronta da mordere.


 

 

III

 

Le prime piante oscure

insidiano l’inutile limite del silenzio

e un labirinto d’ombre

spia l’umidità della camera da letto.

 

La mano riscatta la parola che si ripiega sul corpo.

 

Lo scandalo aggira la successione del recinto

che riversa lacrime

in una marea di labbra che si affrontano

nella cornice coloniale del bacio,

materiale di sfondo.

 

Lo splendore della miseria

brilla impudico sulla tovaglia perfetta.

 

Il polso teso dell’estate

sparge il mercurio dell’attesa.

Proclamando la vittoria dell’incontro

la mareggiata macchia, al di là della finestra,

la calma trionfale del paesaggio.

 

 

IV

 

L'ultimo sole fugge ostinato

tra gironi salmastri d’azzurro e madreselva;

dall’umidità nuziale che distillano gli sguardi

anche il pudore fugge.

Nella memoria, il balsamo

della lettera riletta

si confonde con la densità del mare

che investe la soglia della gola.

Come fondale di scena il tuo corpo

– unico e nudo – officia

le nuove maschere dell’amore.

 

 

V

 

La prua della nave spunta nello specchio

di questo piccolo stabilimento modernista.

 

Qui si dà appuntamento

il fragile pudore del capriccio

che spande il suo rossore

tra vapori di gel

e lacrime di marmo.

 

Accarezzando la pelle

con emulsioni di luna

un silenzio si erge

e la schiuma dell’acqua

scivola sull’azzurro dei muri:

un fruscio di cellulosa

si sparge al suolo

verso l’alta marea

del bacio.

 

La mano annuncia la vittoria

dell’amor liquido.

 

Nel purpureo splendore

che l’acqua tiepida diluisce

soccombe la malinconia.

 

 

VI

 

La dolcezza sgranchisce il suo corpo di frutta

mentre una raffica di vento

ravviva il fuoco negro della siesta

popolato di rami e vetri.

Il coltello taglia cerchi di luce

e inchioda il suo stocco d’argento

nel cuore del giorno.

In cucina

la passione chiede vita

accanto al labbro che assapora il vino

e scruta compiaciuto

il fervore della parola.

Le arance scoppiano nel piatto.

Il sopore, da dietro,

                                rompe onde.


Traduzione di Francesco Dalessandro


da ARSENALE", numero Nove-Dieci, Anno Terzo, Gennaio-Giugno 1987



lunedì 25 gennaio 2021

David Pujante

 LE ETÀ

(omaggio a C.D. Friedrich)

 

 

 «Ospite dalla triste chioma unta

sotto un cappello a tre punte,

vecchio del soprassalto, Morte –

scendi fino alle rocce dove mi scorgi prostrato –

e sono solo uno che scruta il mare.

 

Prima di tutto puoi chiedermi,

Giudice che hai sempre l’ultima parola,

quale mistero ha strappato all’oceano

un uomo della mia età.

Puoi chiedere. Ti risponderà la mia bocca

intorpidita, col balbettìo dell’inesplicabile,

con la desolazione dell’ancora ignorato dopo anni

di stanco spiare, le palpebre di fuoco,

le nebulose della nausea annidate nelle pupille

d’aquila scrutatrice di spazi infiniti.

 

Un altro straccione sconosciuto e triste come me

mi lasciò un giorno su questa riva che imbrunisce senza posa.

Un vessillo di dolore piantò al mio fianco, sul poggio.

M’imbarcai senza pace né contratto.

Allora io non sapevo cosa fosse un galeone

né come i viaggi viziano le tenere spalle

indebolendole con desideri inaccessibili,

con orribili delusioni, con la sete infinita

in mezzo alle acque...

 

M’imbarcai – ti dicevo – non conoscendo il mare,

né sapendo il mistero delle navi che tornano

– dopo essere cresciuto con la magia del tempo

e la lontananza – lungo orizzonti di linee

che idealmente dividono il sole e giocano con la luna

nascondendola e offrendola rassegnata e lontana.

 

Sull’alto confine appresi

di navi naufragate che non tornano più

alla costa d’origine;

d’altre che appena uscite

s’incastrano tra le rocce di qualche scogliera.

E al ritorno, con stupore, ho anche saputo

d’uomini che non partono neppure, mangiati da colombe

carnivore della costa – che io non ho mai viste –

o rettili nottivaghi all'agguato nei loro antri

aspettando la notte del sacrificio.

 

Io, invece, triste vecchio dal bastone nodoso,

ho avuto fortuna, se penso a quanti vagano

dispersi sull’oceano, muoiono nei suoi gorghi

o in burrasche di verde riflesso da onde impietose.

Io, che ho viaggiato e sono ritornato,

che mi sono visto crescere, le braccia irrobustirsi,

strappare alla Natura la forza per difendermi

e alla Saggezza creatrice il nettare per la mia intelligenza,

posso dirmi davvero fortunato

se penso agli uccisi.

 

Ebbene, eccomi qui.

Il panorama è lo stesso di quell’umido giorno

in cui sentii la costa davanti alle mie gracili gambette

e una mano premurosa m’indicava il cammino

acquietando la mia turbata incertezza; il fru-fru della gonna

m’insegnava a tramutare il timore in decisione.

Discosto, preoccupato, di fronte a me anche un uomo

che aveva allora l’età mia di adesso

mi guardava con calma, silenzioso,

però con espressione emozionata, scuro in volto,

ma profondamente buono.

Tutto alla fine si ripete.

 

E c’erano barche nel vasto orizzonte

che da qui si vede azzurro. Era il crepuscolo.

O forse albeggiava, perché faceva freddo.

Vicina, appena rientrata, una gran nave attirò la mia attenzione.

Allora caddi nella piccola barca che prendeva il largo.

Per un momento s’incagliò nei relitti rigettati

presso la costa frastagliata; ma fu solo un momento.

Poi cominciò un piacevole scivolare tranquillo

sulla morbida pianura del mare.

Migliaia di colori ferivano l’incessante ondeggiare

dei flutti. Io non sapevo ancora niente del mio incerto futuro

né del mio apprendistato.

 

Adesso, Vecchio, tutto si ripete.

Adesso, Vecchio, capisco e ho più paura; sul mio volto

si rinnova quello sguardo bonario e preoccupato,

l’unica cosa che conobbi di mio padre.

Avverto nei muscoli freddi ridestarsi un calore premuroso

vedendo il mio povero figlio accudito da sua madre.

E al saperti già vicino intuisco che mi vuoi,

intuisco che mi cerchi e non tremo per me

– ché se morire è grave, è un naturale aggravio –,

tremo per i miei rampolli,

perché prossimo è il baratro e tu

ti dimostri implacabile. L'ho imparato dal mare.

So che non serve a niente partire per tornare.

Ma noi uomini amiamo questo dialogo salato

lungo tredici lustri,

il difficile e duro lottare contro i venti.

Lingue ardenti dai cieli sovente ci minacciano,

neri vortici salmastri fanno fermare i polsi,

ma al marinaio della vita è dolce

quell’umido colloquio quotidiano col mare.

Alla fine ama solo il poco che possiede: ciò che è.

E se questo è penoso e appena niente,

più triste un giorno è sporgersi sul mare, non navigare più ».

 

Senza parlare, il vecchio – forse non lo ascoltava –

appoggiò il suo bastone su una roccia

che là si ergeva, accanto al precipizio.

Qualche bambino a un tratto prese a correre.

Spaventati e piangenti, tutti gli altri gli gridavano dietro.

Il vecchio aprì le braccia. Il suo bastone risuonò tre volte.

La roccia si spezzò, il bambino cadde.

Grave è il morire, ma è un peso naturale.

 

Le barche, sulla riva, pronte a partire,

contemplavano un enorme bastimento che tornava.

Il vecchio lentamente si separò dal gruppo

che sulla costa, attonito,

posava inconsapevole per un quadro di Caspar David Friedrich.


Traduzione di Francesco Dalessandro


da "ARSENALE", numero Nove-Dieci, Anno Terzo, Gennaio-Giugno 1987

 

 

 

venerdì 22 gennaio 2021

Francesco Dalessandro

 L'ULTIMA LINEA


                                            per A. R.                        

 

A che t’induce il suono

dell’incerta ragione e che ti svela

il suo monito quando ti arrischi

a passi cauti verso

l’ultima linea la trincea del tempo?

 

(Non posso immaginarti mentre aspetti

che il granchio a passi storti ti raggiunga).

 

E come accoglieresti

le parole stentate che mi detta

la cattiva coscienza mentre scivolo

nel sonno: “dormi però resta vivo

e non mancare l’alba di domani”?


(inedita)

 

mercoledì 20 gennaio 2021

Yun Dong Ju

 ANNI SPAVENTOSI


Chi è che mi chiama?


Poiché l'ombra mantiene verdi le foglie cadute

il mio respiro è ancora qui,


io che non ho mai alzato la mano,

io che non ho un cielo verso cui sollevarla.


Quale cielo potrebbe mai accogliermi?

Perché mai mi chiami?


Quando ogni fatica sarà terminata, la mattina della mia morte,

le foglie cadranno senza rimpianti...


Non chiamarmi.


(7 febbraio 1941)

lunedì 18 gennaio 2021

Eloy Sánchez Rosillo

 DA CÉSAR FRANCK A AUGUSTA HOLMÈS  

(Quintetto per piano in Fa minore)

 

1

(Molto moderato quasi lento – Allegro)

 

Quando più non speravo che qualcosa turbasse

la quiete ordinata che scelsi per la vita,

tu apparisti, e d’un tratto tutta la pace che poco per volta

pazientemente avevo conquistata se ne fuggì da me:

una vivida fiamma mi abita adesso l’anima.

 

Tu forse non comprendi cosa vuol dire questo per un uomo

che è stato sempre, come me, davvero molto solo

a dispetto di pochi amici, della loro fedele compagnia,

e della lunga gioia coniugale che mi ha dato mia moglie.

 

È come se d’un tratto nella desolazione

di un albero ancorato nell’inverno cantasse

un usignolo e i rami nudi sotto l’influsso della musica

la grazia ricordassero del verde.

 

 

2

(Lento, con molto sentimento)

 

La vita per me è stata un cammino assai duro

di fallimenti ai quali non piegai mai lo spirito,

perché ho sempre saputo che l’artista che lavora

con onestà al servizio del Signore e dell’opera

rare volte riceve l’attenzione della gente

del suo tempo; attenzione stimolante,

ma in fin dei conti all’arte innecessaria.

 

Sotto queste alte volte della chiesa è trascorsa

la parte più feconda e bella dei miei giorni:

cera ed incenso con i loro odori, nelle cerimonie

sacre, i brusii devoti dei fedeli in preghiera,

sempre mi accompagnarono, mentre io cercavo,

seduto qui nel coro, alla tastiera docile

di quest’organo amico, d’esprimere nel modo

migliore l’inquietudine che mi serrava il petto.

 

Sono stato felice, in certo modo, perché accettai

con umiltà il fluire quasi anonimo

del destino, sebbene a volte scoramento e noia

mi venissero accanto.

 

3

(Allegro non troppo, ma con fuoco)

 

                                           Ma oggi so che la gioia

fu solo l’ignoranza del tuo arrivo in un giorno

qualunque, che è bastata la tua sola presenza

a distruggere la pace ottenuta con sforzo.

 

Come negarmi alla dolcezza con la quale mi guardi,

al riso così libero, al fulgore che t’avvolge,

alla luce che brilla sul tuo labbro quando mi chiami.

 

Io non so, non lo so, ma benedico questa follia

che mi scuote lo spirito e mi riempie di sole se ti vedo.

Ringrazio Dio per averti creata, per averti concesso

di venire ad un tratto a cambiarmi la vita;

perché ormai io non sono più lo stesso, benché agli occhi

di tutti sia quello di sempre e nessuno, nessuno sappia

che penso solo a te, che ti amo e che per te è la mia musica.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

 

venerdì 15 gennaio 2021

Basho

 SON VECCHIO ORMAI


Son vecchio ormai,

sento fra i denti

l'erba e la terra.


da Poesie, Acquaviva, 2003

mercoledì 13 gennaio 2021

Kenneth Patchen

ACCETTIAMO LA FOLLIA

 

Accettiamo apertamente la follia, O uomini

della mia generazione. Seguiamo

le tracce di questa età trucidata:

guardiamola trascinarsi attraverso la cupa terra del Tempo

fin dentro la chiusa casa dell’eternità

con lo strepito che fa il moribondo,

con il viso che le cose morte portano –

                                        e non dicono mai

 

volevamo di più; cercavamo di trovare

un uscio aperto, un completo atto d’amore,

che trasformasse la crudele oscurità del giorno;

                                        ma

trovammo inferno e nebbia diffusi ovunque

sulla terra, e dentro la testa

una putrida palude di enormi tombe sbilenche.

 

Traduzione di Franco De Poli

 

da Lo Stato della Nazione, Guanda, 1967

 

lunedì 11 gennaio 2021

Eloy Sánchez Rosillo

 MELVILLE, NELLA DOGANA

 

            Quanto più un uomo appartiene ai posteri, ovvero all’umanità intera, tanto più è sconosciuto ai suoi contemporanei... La gente riconosce più facilmente l’uomo utile nelle circostanze immediate o all’umore del momento al quale appartiene e nel quale vive e muore.

                                                                                                                              Schopenhauer

 

 

Per diciotto lunghi anni,

giorno per giorno ho atteso a quest’ufficio inesorabile,

ormai mi sono quasi rassegnato al mio strano destino:

il tempo placa tutto, e la voce che fino a poco prima

mi spingeva insistente a porre fine

una volta per sempre a tutto questo

ora l’ascolto appena, e se a volte la sento

non mi faccio ingannare e m’aggrappo con forza

ai braccioli assennati di questa vecchia seggiola

e così mi sottraggo al canto di sirene ormai improbabili.

Pesano troppo gli anni e le miserie dell’età

– questi occhi intorpiditi, e la sfida delle ossa per mantenermi in piedi –

impongono ai miei resti la loro orrida legge.

Benché io senta, in giorni come questo per esempio

– chissà perché, forse oggi è l’influenza

dell’autunno magnifico che spoglia i parchi

della città terribile –, l’accresciuta avversione

per l’impiego noioso e la tristezza dei suoi simboli

(gli oscuri arredi in legno dell’ufficio, la polvere

che ricopre le assurde carte archiviate,

e scolorite macchie d’inchiostro che negli anni

caddero sul paesaggio scomodo della mia vecchia cartella);

a lungo resto assorto e con invidia

penso alla silenziosa lucidità del povero Bartleby,

o agli indimenticabili giorni della lontana gioventù,

anni liberi – eppure disperati – di quando andai per mare

per trovare rimedio ai miei mali d’allora, idee confuse 

quando consideravo compiaciuto l’immagine

di me stesso suicida con una palla in testa.

Ora so che quegli anni furono forse i soli

che vissi veramente, con la pazzia e il coraggio

d’un essere divino e libero.

                                                 Poi il resto è stato morte,

o vita ricordata, forma diversa e triste

del lasciarsi morire, perché un ricordo di felicità

non è felicità, solo elegia

di uno spossessamento.

                                            E tutti i libri

che con dolore scrissi sono cenere

di quel fuoco intensissimo, relitti del naufragio

dell’insensata gioventù.

                                            Perciò, a volte mi chiedo:

valse la pena? Tutto l’impegno messo

nella carriera di scrittore, mestiere desolato

al quale consegnai il decennio più triste della vita,

più tardi abbandonato (non che lo consigliasse

il fallimento, perché scrissi sempre precisamente i libri

che la stupidità contemporanea con sufficienza ottusa destinava

al fallimento, ma perché l’oscuro territorio che un giorno mi proposi

d’esplorare era lì che finiva, ed è impossibile

una stessa avventura viverla per due volte).

È tanto che non pubblico e solo quando sento

bisogno di parlare con me stesso

prendo la penna e scrivo qualche verso

destinato a nessuno, ma che serve

a me per non star solo nei deserti gelidi

della vecchiaia.

                             In essi e in certi libri

che amo ed amai – soprattutto nelle opere

di William Shakespeare, solo comparabili

con la bellezza infinita dell’acqua azzurra

che navigai da giovane – trovo la compagnia

che prima non ebbi mai.

                                             E così serenamente

passano i giorni inarrestabili che mi avvicinano

al silenzio e alla pace dell’ombra tanto attesa.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

venerdì 8 gennaio 2021

Gianfranco Palmery

UN ALTRO È IO

 

Se mi svegliassi una mattina con un altro

corpo, un’altra faccia – non sarei un altro,

sarei quello lì e basta – come sono

questo qui che si osserva, sente il tono

della sua voce tutti i giorni e accetta

per abitudine la convenzione che fa

di un’abitudine la sua identità,

in se stesso misurandone la stretta;

avrei la personale cecità

della mia storia, il suo buio logorio:

come adesso l’ossessa in tedio e rabbia

lucidità che mi acceca. Ogni io

è una ferita una condanna una macchia:

questa è la sua universalità.

 

da L’io non esiste, Il Labirinto, 2003

mercoledì 6 gennaio 2021

Yun Dong Ju

 RAGAZZO


Cade l'autunno, triste come le foglie. Il cielo si espande sui rami, dopo aver preparato la primavera lì dove sono cadute le foglie.Se lui osservasse il cielo, gli occhi si tingerebbero di blu. Se con le due mani si accarezzasse le guance calde, anche le palme si macchierebbero di blu. Di nuovo si guarda le mani. Nelle linee delle mani scorre un fiume limpido, un fiume limpido scorre, un volto triste come l'amore appare nel fiume: il volto della bella Sun-yi. Il ragazzo estasiato chiude gli occhi. Anche così, nel fiume limpido che scorre, appare un volto triste come l'amore: il volto della bella Sun-yi.

1939


Traduzione di Eleonora Manzi


da Vento blu, Ensemble, 2020



lunedì 4 gennaio 2021

Eloy Sánchez Rosillo

ANCORA LA POESIA     

 

Era da tempo ormai che la mia mano

non scriveva più versi e mi dicevo

spesso:

               “Può darsi che non torni più

a scriverne; magari la poesia

non vuole appartenerti o accompagnarti,

né donarti il fervore che rendeva

bella la vita; a volte è immeritato

ardere in questo fuoco, pronunciare

le parole che i cieli concedono a chi è degno

di celebrare le cose del mondo

e averne sulle labbra il sentimento”.

                     Spesso m’accompagnava

questo pensiero nell’inquieto andare

solo come un proscritto nella notte

che non regge più il peso della colpa

né il dolore d’esser stato scagliato

nell’ombra da un mandato

giustiziero e implacabile.

 

E guardando quegli alberi che crescono

in una vecchia piazza della città in cui vivo,

il volo di un uccello ed i fulgori

misteriosi di un corpo che s’abbandona sento

che la parola non ha più il potere

di riversare sulla carta bianca

la grazia ed il tremore della vita.

 

Pure infine stasera, d’improvviso,

mentre il sole già stanco se ne andava

e non immaginavo d’esser chiamato ancora,

ho ascoltato una voce che diceva:

 

“Prendi la penna, scrivi”.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

venerdì 1 gennaio 2021

John Keats

 SULL'INDOLENZA


I

Tre figure un mattino si fecero avanti:

di profilo, a capo chino e mani giunte,

serene avanzavano; l’una dietro l’altra,

nei morbidi calzari e in bianche vesti

eleganti; sfilarono, figure sopra un’urna

di marmo che si gira per seguirne il lato;

poi tornarono; riapparvero, quelle ombre

già viste, quando l’urna ruotò ancora; 

mi sembrarono strane, come può accadere

davanti a un vaso a un esperto di Fidia.

 

II

Perché mai, ombre, non vi riconobbi?

Perché celarvi in quella muta allegoria?

Fu un oscuro complotto per andarvene furtive

e abbandonare senza scopo i miei giorni

oziosi? Era matura l’ora sonnolenta

e la beata nube dell’estiva indolenza

mi pesava sugli occhi, indeboliva il polso,

la pena non pungeva, era sfiorito il serto

del piacere. Oh, perché non svaniste

lasciando solo il nulla ad abitare i sensi?

 

III

Tornarono per la terza volta: ah, perché?

Confusi sogni avevano ricamato il mio sonno;

la mia anima era un prato coperto di fiori,

di fuggevoli ombre e di raggi ingannevoli;

il mattino era nuvolo ma senza pioggia:

sulle ciglia, le dolci lacrime di maggio;

le imposte aperte schiacciavano i tralci della vite

e il canto del tordo e il tepore dell’alba

lasciavano entrare. Era tempo di addii,

ombre. Non versai lacrime sulle vostre vesti.

 

IV

Una terza volta passarono, e passando

verso di me si volsero un istante  

prima di sparire, io che ardevo di seguirle

e bramavo le ali, perché infine le avevo

riconosciute. La prima, una fanciulla

bella di nome Amore; la seconda,

pallide gote e vigili occhi stanchi,

Ambizione; nell’ultima, che più amo

quanto più è biasimata, la più indocile,

riconobbi il mio dèmone: Poesia.

 

V

Svanirono, e davvero mi mancavano le ali.

Follia! Cos’è l’Amore? E dov’è mai?

Ah, la povera Ambizione, che sgorga

dal fervido, piccolo cuore di un uomo!

E la Poesia? No, per me non ha gioie

dolci come un meriggio sonnolento

o sere colme del miele dell’indolenza.

Oh, vorrei un tempo che fosse al riparo

dai fastidi e ignorasse le fasi della luna,

e non udisse voce d’operoso buon senso.

 

VI

Così, addio spettri! Non mi farete alzare

la testa dal fresco letto d’erba fiorita,

perché non voglio, come il tenero agnello

di una farsa leziosa, pascermi di lodi.

Svanite delicati dai miei occhi, tornate

figure in maschera sull’urna del sogno.

Addio! Altre visioni ho per la notte,

e per il giorno scorte di languide visioni.

Svanite, spettri, dal mio spirito indolente.

Svanite tra le nuvole e non tornate più.

 

Traduzione di Francesco Dalessandro


 da Sull'indolenza e altre odi, Il Labirinto, 2a edizione 2020