mercoledì 29 settembre 2021

John Keats

 

LA BELLE DAME SANS MERCI

Ballata

 

I

Cosa ti affligge, cavaliere in armi,

Che qui indugi, pallido e solo?

In riva al lago il giunco è secco

E non cantano uccelli in volo.

 

II

Cosa ti affligge, cavaliere in armi,

Così smunto, così sconvolto?

Lo scoiattolo ha pieno il granaio,

È già ammassato il raccolto.

 

III

Vedo un giglio sulla tua fronte

Da un’angoscia febbrile imperlata,

Sulle guance una rosa appassita

Troppo presto sfiorita.

 

IV

Incontrai sui prati una dama,

Di beltà piena, una figlia di fata,

Capelli lunghi, passo leggero,

E due occhi di sparviero.

 

V

Feci un serto per la sua fronte,

Bracciale e cinta profumata;

Con un gemito dolce lei

Mi guardò innamorata.     

 

VI

Sul destriero al passo la portai,

E nient’altro quel dì guardai,

Ché contro me reclina cantava

Una canzone fatata.

 

VII

Per me trovò dolci radici,

Miele selvatico e manna rugiada,

Con lingua strana certo mi disse –

«Sono davvero innamorata».

 

VIII

Mi condusse nella sua grotta,

Là sospirò e si sciolse nel pianto,

Là i ferini suoi occhi selvaggi

Sigillai con quattro baci.

 

IX

Là mi cullò finché non dormii

E – me misero! – sognai

Il mio ultimo sogno, sognato

Sul pendio del colle ghiacciato.

 

X

Là, re e principi vidi, e guerrieri

– E su tutti un pallore di morte –

Che mi gridavano «La belle dame

Sans merci ti stringe forte».

 

XI

Nella sera labbra orride e vuote

Vidi ammonirmi spalancate

E mi svegliai, mi trovai gettato

Sul pendio del colle ghiacciato.

 

XII

Ecco perché io qui dimoro

Ed indugio, pallido e solo:

In riva al lago il giunco è ormai secco

E non cantano uccelli in volo.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Fammi lezione, Musa, Contatti, 2021


Il libro verrà presentato, da me e da Massimo Morasso, domani 30 settembre, nell'ambito di PAROLE SPALANCATE, 27° Festival di Poesia di Genova, Palazzo Ducale, Sala del Munizioniere. 

lunedì 27 settembre 2021

Gianfranco Palmery

 CENTO ANIME IN UNA E MILLE VITE


Cento anime in una e mille vite

frammentarie, incompiute - e questo sapersi

imperfetti, confusi e destinati

a sparire...


                     Oh arte, virtù: un pugno

di materia ridicola che rotola

verso la sua scomparsa, ma di sé

vuole lasciare mirabile traccia.


da In quattro, Il Labirinto, 2006

venerdì 24 settembre 2021

Massimo Morasso

 MAESTRALE


Maestrale.

                  Dentro a una sera d'oro

fra i rapidi zig-zag dei balestrucci

detta il suo annuncio 

                                       d'aria

e lapislazzuli.


Ad ascoltarlo il mio giardino

                         e un bimbo, un arcipelago

in tempesta, e tutto intorno Genova,

scalena e verticale,

avvolta nel paltò delle colline.


da L'opera in rosso, Passigli, 2016

mercoledì 22 settembre 2021

Sauro Albisani

CORRENDO A SCUOLA


Rondinella che a gara con la bici

voli a zig-zag sopra l'asfalto molle;

poi, oltre il ciglio, rasenti le zolle:

che cosa indichi, cosa mi dici?


Sotto la pioggia mi fermo alle strisce:

Ho chiuso gli occhi: osservo il tuo volo.

In silenzio ti chiamo. Sento solo

la tua anima lieve che garrisce.


da Orografie, Passigli, 2014 

lunedì 20 settembre 2021

Domenico Adriano

 E ORA SE NE STA QUI SULLA SOGLIA

 

E ora se ne sta qui sulla soglia,

la bambina

del febbraio del '71.

                                 «Ti ho portato

una poesia!...»

                         È di Govoni,

vi volano farfalle. Il maestro

perché si tratta di un dono, la scolara

perché il testo è bello, la ripetono

agli altri alunni.

 

«Vedete quella casa là in fondo?»

io ai bambini, subito 

allegri alla finestra… «È lì che abitava

il poeta Govoni».

 

Sola e attonita

ora, lei: «Abitava… ma allora

era un uomo!»

 

 

da Dove Goethe seminò violette; Il Labirinto, 2015

venerdì 17 settembre 2021

Gianfranco Palmery

 COME TRA QUATTRO MURA O QUATTRO ASSI


Come tra quattro mura o quattro assi -

in una stanza o nella bara: la quartina

è la cella, il sepolcro, la guardina

- è la misura della chiusura.


da In quattro, Il Labirinto, 2006

mercoledì 15 settembre 2021

Massimo Morasso

 GENOVA NON HA POTUTO NULLA CONTRO


Genova non ha potuto nulla contro

l'incedere dell'autunno.

Il freddo è arrivato, le nuvole

circondano i castelli, i balestrucci

sorvolano i gazebo

in un ambaradan d'orchestrali impazziti.


E in basso, smottati giù nella medina multitutto,

i marocchini che s'imbucano nei bar,

intirizziti migratori che rimbalzano fra i vetri

nel mezzo del mistero del vivente -


e questo basta, e le volatili radici del reale.


da L'opera in rosso, Passigli, 2016

lunedì 13 settembre 2021

Attilio Bertolucci

DE INSOMNIA


Non è insonnia lo svegliarsi presto

alle quattro del mattino intenti fissare

la dolce notte che morendo sbianca.


E all'ultimo che rientra

cambiando marcia sulle rampe -

se travolge un gattino e l'uccide non sa

il disgraziato che l'amante giovane


lo tradirà - succede il primo

di quei fornitori alerti di giornali

e cartoni di latte con la data già

del giorno che verrà -


e ormai umetta - la mia pazienza

ha avuto ricompensa -

la serranda il sanguigno risveglio

di questa città che non rilascia visti

d'uscita che temporanei.


Ma forse è possibile che sul

limaccioso flutto s'innalzi

l'addio beffardo d'un treno che porta via?


Cielo celeste del convoglio

che fila al nord

stempera di petali di rosa i volti

dei fuggitivi intirizziti e felici...


Insonnia era non addormentarsi

col minaccioso nembutal

per cui morì la cara

la buona Marilyn in Los Angeles


Quel tempo non è più per me è tempo

di luce che cresce.


da Verso le sorgenti del Cinghio, Garzanti, 1993

venerdì 10 settembre 2021

John Keats

FAMMI LEZIONE, MUSA


Fammi lezione, Musa, ad alta voce, 

in vetta al Nevis, cieco nella nebbia! 

Scruto nei precipizi che un sudario 

di vapori nasconde: questo, penso, 

l’uomo sa dell’inferno; guardo in alto: 

cupa nebbia: così può dirsi del cielo; 

estesa al suolo, la nebbia è la terra 

sotto di me: così, vaga, è la vista 

che l’uomo ha di se stesso. Sotto i piedi 

pietre sconnesse; e io, povero elfo 

istupidito, che ci cammino sopra, 

questo capisco: ciò che l’occhio incontra 

è roccia e nebbia, non solo qui in alto, 

anche dove ha potere la mente, nel pensiero.


da Fammi lezione, Musa, Contatti, 2021


Domani, sabato 11, alle ore 16, alla Keats Shelley House, in piazza di Spagna, a Roma, si presenta la mia traduzione dei sonetti di Keats. Allego il link:

https://ksh.roma.it/events/francesco-dalessandro-alla-keats-shelley-house?lan=it



mercoledì 8 settembre 2021

Kenneth Rexroth

 SOLITUDINE


Pensando a te che trabocchi

di solitudine. Ascoltando la

tua voce dire dal registratore

“Solitudine”. La parola, la voce,

stracolma di essa, ed io, 

con te lontana, così perduto 

in essa – perduto in solitudine 

e pena. Nere e insopportabili,

pensandoti con ogni fibra 

della mia carne, in ogni istante 

del giorno e della notte.

Oh, amore, col tempo,

abbiamo dimenticato l’amore,

sedendo vicini, ma soli.

Abbiamo mangiato insieme,

ognuno solo dietro il proprio piatto, 

nascondendoci dietro i bambini,

e insieme abbiamo dormito  

in un letto solitario. Ora a te

il mio cuore si volge, finalmente 

sveglio, pentito, perduto 

nella solitudine finale. Parla

con me. Discuti con me. 

Rompi il nero silenzio. Parla 

di un albero pieno di foglie,

di un uccello che vola, della luna

nuova al tramonto, di una

poesia, un libro, una persona –

tutti i discorsi qualunque

coi quali la tua voce

sonora e tranquilla mi cura.

La parola libertà. La parola pace.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

lunedì 6 settembre 2021

Beppe Salvia

CHIUDE L'ALBA UNA NOTTE TROPPO FREDDA 


Chiude l’alba una notte troppo fredda,

apre le porte crette al nuovo giorno

che saprà d’autunno, l’inizio d’anno

nuovo, ottobre s’inghirlanda, s’infredda

un nuovo aire ch’è fratello all’

occaso di quel giorno inusato ch’ora

palesa un suo destino pretto, e l’altro

voglio misurar, d’una malvagia ora

il tocco, e s’aprono soffitti incerti

nel cielo, chiudon le corolle i fiori,

ora si misura il metro dei certi

intendimenti, s’apre il sipario goffo,

al boccascena appaiono mestizia

e il canto dolente d’un’arietta buffa.


da Inverno dello scrivere nemico

venerdì 3 settembre 2021

Alessandro Ricci

 LA PRIMAVERA DI MANAROLA

 

 Perché spettacolare e golosa

è la gioia, io pranzavo

da solo sul molo. Alla cameriera

avevo ordinato una razione

e mezzo d’ogni portata. Arrivare

a me dalla cucina era

più pesante e più lungo. Altri

clienti non c’erano, ma

c’erano stati, tutti al chiuso

della veranda. Invece il mio

tavolo un palco, con l’acqua

verde ai due lati, e il mare

aperto davanti.

                        Bevevo molto,

volevo la stazza e la barba

bianca di Hemingway, il suo

guardare in lontani luoghi

perfetti.

             Era un pomeriggio

bellissimo. Dal paese alle

spalle calavano, come gabbiani

ammodo, intermezzi in dialetto

che si posavano sulla pasqua.

Un gozzo quatto di un nero

caloroso scoppiettava in folle

tagliando alla deriva

una corrente più chiara,

pianissimo.

 

Io ero giovane, congedato

quella mattina, in divisa

primaverile, andando

al mio paese del nord.

Lo sapevo che il padre

non avrebbe resistito al suo male,

che Milva era persa e io

stanco e provato. E che da lì

forse da quel minuto,

sarebbe cominciato

il difficile.

                Ma due nuvole

del Piemonte, grasse come

chiocce, remavano lentamente

cupole senza chiesa, di un

bianco che s’allentava,

ivi sostando.

 

– Abbi pazienza, riposa

tu pure.

 

Chiudendo gli occhi

rivolti al sole, cangiavo

visioni cieche di rossi,

di aranci, di viola,

ma speravo nell’iniziata

ai Misteri, la bionda che

si pettina e guarda,

fissamente dentro

di te.

 

In quei mesi avevo appreso

l’angoscia e l’impossibilità

di esprimerla, atteso

la primavera sui tetti,

il ritorno delle rondini

e le parole alla bocca. Leggevo

molto, ma più il variare

della luce sulla tinta

ocra dei vecchi muri, lo

scaldarsi degli impiantiti

e delle dita che

li toccavano, giorno

dopo giorno.

Anche i versi di Eliot

e Pound parevano reticoli

galvanici sulle pagine,

perché in fine il libro

era caldo.

 

Tutto saliva, evaporava.

 

Perciò vivevo sui terrazzi,

sui poggi, sulle forre e,

quando non era possibile,

marciavo con la testa per

aria, a fiutare quell’intero

ascendere.

                Mai stagione m’era

cosi teneramente nata.

 

Ora lì, dove su un molo riamavo

il vinello giallo, le bottiglie

vuote, la donna mancante,

le solitudini del futuro, tracciavo

sulla tovaglia di carta, non

come Esenin col sangue

alla morte, ma col sugo

di vongole sussurri alla vita.

 

Sognavo intessiture di sguardi,

linee d’oro alle nuche,

spalle leggere;

e l’invenzione degli occhi

di un’altra, la nuova innamorata,

più spesso vaniva nel nulla,

parlava inglese, moriva greca

all’orizzonte su cui

il sole

aveva tempo di declinare.

 

Non so come la cameriera

reggesse a portar vino

e io a berlo. Di certo,

non mi ubriacai.

Ero una boa azzurra.

 

Parlavo solo, dicevo

frasi d’amore

che non ricordo. Vennero

due bambini, quasi gemelli,

sicuramente fratelli, che

restarono vicino il tempo

delle parole e quello

dell’eco.

             Riapparvero

più distanti, a far capolino

da una barca tirata in secco,

piena di funi attorte.

 

Poi più nient’altro

che la tregua,

un silenzio ammarato, una memoria

non colpevole di ginestre,

di attese, di sponde,

di velieri, di arrivi

e partenze, di odori

mescolati o distinti, che un

po’ erano lì, un po’ erano là,

o prima.


da Tutte le poesie, Europa Edizioni, 2020

mercoledì 1 settembre 2021

Michele Bordoni

 GYMNOPEDIE

  

Ha tutta la tua voce quest’assenza

di base e fondamento,

dolore confermato in un dolore

più grande, universale.

Lo avevi immaginato più feroce,

ma non dolce, più chiuso nel suo male

ma mai figura pari alla tua vita

abbarbicata stretta alle colline;

e adesso senti che quasi ti somiglia

che quasi ti promette la dizione

di sé, quindi di tutto.

 

*


E allora il suo silenzio, la sua attesa,

il non poter più dire niente

non è esercizio di dissipazione,

non è la morte, la morte veramente.

                                                                  È qui,

è qui che si fa urgente e necessaria

la parola, quand’è la sua impotenza

a farsi indispensabile

                                        ed il gesto.

 

*


Resistere ed avere un’eleganza

che sia preghiera e perimetro di voce,

la fioritura nell’apnea del canto.

Resistere com’è giusto

                                          rituale

del crepuscolo

com’è tutta Venezia nelle strette

se si apre una finestra, ne esce il sole

l’acqua ne ride un poco e lo sprofonda

nel fondale di pietra e non dimenticanza.

 

da Gymnopedie, Italic, 2018