venerdì 29 ottobre 2021

Dámaso Alonso

 

DONNE

 

   O bianchezza! Chi infuse nelle vite

nostre di bestie folli ed abissali,

questo raggio di luci siderali,

queste nevi, nel sogno invigorite?

   O dolci bestioline perseguite!

O tatto terso! O segni zenitali!

O musiche! O faville! O corpi frali!

O dal mare alte vele scaturite!

   Ahi, timidi fulgori, oriente puro,

chi v’indusse al mio cuore d’uomo duro,

a questo d’odio e oblio cupo fragore?

   Nuvole, dolci ombre, fiori vani…

Teneri spettri, vagamente umani,

misere donne, d’aria o di tremore!

 

Traduzione di Oreste Macrì

 

Da Poesia spagnola del Novecento, Grazanti, 1985

mercoledì 27 ottobre 2021

Rita Iacomino

 ECUBA


Sento lo schianto del vento sui rigidi

geometrici infissi.

Sento lo sbattere del cuore di mia madre.

Eri così antica Ecuba, così abbandonata

nella preistoria di sangue

in un'era di lacrime e violenza

che io, immolata, espunta dalla storia

non so trascrivere.

Ti vedo da qui madre

dal grumo incandescente di spade

dall'occhio deforme e innamorato

concludere quel patto orrendo

che mi ha resa così bianca,

invincibile preda.


da Cronache dalla sparizione del mondo, raccolta inedita



lunedì 25 ottobre 2021

Samuel Beckett

VORREI CHE IL MIO AMORE


vorrei che il mio amore morisse

che piovesse sul cimitero

e sui vicoli per cui vado

piangendo quella che credette di amarmi


1948


Traduzione di Rodolfo J. Wilcock

da Poesie in inglese, Einaudi 1964

venerdì 22 ottobre 2021

John Berryman

 

CANTI ONIRICI, 312

 

 

Sono venuto a Dublino per fare i conti con te,

Ombra maestosa, che lessi così bene

tanti anni fa,

ho appreso la tua lezione a dovere? ho letto tra

le frasi fino al reale? nel tuo cielo, il tuo inferno,

ho bene indagato?

 

T’ho poi scordato per anni, messo da parte,

l’ingratitudine è un male necessario

per rinnovar le cose:

ho portato la famiglia per cavarmi d’impaccio,

ho portato il mio fiacco rimorso e il mio omaggio,

solo un libro o due

 

ho portato, incluse alla fine le tue ultime

strane poesie composte sotto lo spettro della morte

Le tue alte figure volteggiano

ancora nella mente e tutto il tuo passato

colma il mio orto recinto d’un alito mielato

in cui, festuca, mi aggiro.

 

Traduzione di Sergio Perosa

 

Da Canti onirici e altre poesie, Einaudi 1978



mercoledì 20 ottobre 2021

John Berryman


CANTI ONIRICI, 226

 

Tuono fantastico, in alto, scosse la volta del cielo.

Le bestie si fissarono immobili faccia a faccia.

Enrico ebbe paura.

Con il suo amore, non proprio di fanciulla, lei non valse

a placarne i terribili timori, spintosi fuori

in un mondo siffatto.

 

Angoscia sorse dalle gole. Scomparsi, molti, nell’aria,

e molti al suolo, e molti in mare.

Non era luogo da amare.

Coi pollici negli occhi, immense esplosioni di ciò

che non sappiamo, finché la sobrietà divenne un vizio.

«I collassi sono garanzia», disse un amico.

 

La vidi in un sogno, dal mio sogno si ridestò,

piacevolezza, amore e cortesia

e tutta quella tiritera.

Aveva lunghi capelli, quasi sufficienti

a soffocare orrori. Ciò che con lei nel fumo

Enrico fece non rivela.


Traduzione di Sergio Perosa

da Canti onirici e altre poesie, Einaudi 1978


lunedì 18 ottobre 2021

John Berryman

 

CANTI ONIRICI, 190

 

I giovani condannati invidiano i vecchi, e i vecchi 

                                         / condannati i morti giovani.

È difficile e duro afferrare queste cose.

Keats guarda male Yeats

che morì con tutti gli onori e da vecchio cantò

col massimo vigore. Enrico apprezzò quell’odio,

ma che dire di Yeats nei riguardi di Keats

 

– una fortuna essersi liberato di Fanny –

lui che stregato da Maud Gonne ebbe sterili anni

e si vide abbandonato dagli amici,

scipite le ricompense, e poi stroncato al culmine,

promettente a settant’anni! tutte le paure

tranne quella non riusciron nell’inganno.

 

Scrocco per scelta violenti exempla.

In ciò che conta più, Enrico non sapeva. Mentiamo.

Tutti cadiamo e moriamo

dopo un decorso peggiore d’un attesto di voce

tanto terribile che non ho altro da dire:

meglio il giorno più corto.

 

Traduzione di Sergio Perosa

Da Centi onirici e altre poesie, Einaudi 1978

venerdì 15 ottobre 2021

Eloy Sánchez Rosillo

 

IL VIAGGIO

 

Sapere che sei lì, mentre lavoro,

nella camera accanto, mentre io

cerco da solo la poesia, mi stimola

mi dà illusione e forza e speranza.



Entro nei sogni e m’inoltro in ignote


regioni dove non sono mai stato.


Non vuole compagnia quest’avventura:

si trova stando soli ciò che conta.


Perdo occasioni ma a volte m’imbatto

in meraviglie da nessuno viste.


Non andartene, aspetta il mio ritorno


con te voglio dividerle, tornando.



Traduzione di Francesco Dalessandro

 

da Chiave del sogno, Contatti, 2019




 

mercoledì 13 ottobre 2021

Francesco Dalessandro

 

 LETTERA DA VELIA

 

Era là fra i cantori

in ascolto

fra il pubblico assiepato

nella cavea improvvisata

del cortile, l’ho rivista

nella sera d’autunno

mentre un femio senz’anima

cantava versi

sgraziati e senza forma

l’ho rivista ma senza

subirne la bellezza

il mio sguardo l’ha avvolta

l’ha accolta

in sé per un tempo

brevissimo prima

di perderla fra i tanti

che si stringevano al cantore

per complimenti e abbracci

 

 

Di questo ora ti scrivo

da un paese lontano

e antico da una spiaggia ad arco

leggero mentre un vento

cauto a tratti solleva

il foglio dove appunto questi

pensieri eleatici tradotti

in parole di poca

o nessuna intensità se non fatte

di carne viva o ignoranti

nel sentimento non dico

gli occhi ma la sua nuca

lo spazio liscio fra

l’orecchio e i capelli dove avrei

voluto baciarla

come un tempo

 

 

Durevoli giorni dal dolore

non possono sbocciare

e la vita cammina o corre avanti

a me che non potrò

mai raggiungerla e pago

con imperizia e indecisioni

i suoi passi impreparato

a viverla con la struggente

voglia di dirle addio

ma di non farlo mai

forse perché il pensiero

iperuranio che mi salva

è lei

l’essere univoco e sereno

increato ed eterno

che qui a Velia oggi cura

i miei giorni e saperla

infinita

ne riscatta il ricordo

che duole come apparenza

quando i sensi me ne danno 

ancora tenere prove e

se le cose non possono avvalersi

di nostre riflessioni

non senza stupore riconosco

il suo volto

nel sale e mi penso

a leggerle versi d’amore parole

così nuove così

sconosciute che non oso

ripeterle dette quando lei

non c’era ad ascoltarle,

quando erano falò

sulla spiaggia o solo il rossore

del suo viso o della brace

della mia sigaretta

che lentamente si spegneva

ardendo nelle sue

pupille chiare e se ora

non sto male

è perché – l’ho imparato

proprio qui

proprio da questi

greci in ritardo – anche il cervello

è cuore

 

 

Ma restano distanze

inattingibili

tra le parole anche tra quelle

che alimentano il rogo

dei sentimenti che se non

dànno la conoscenza o anche solo

il sapere dei limiti

la coscienza dell’anima, almeno

il possesso o l’illusione

consapevole del tatto

quando le sfioravo il cuore

con un soffio

con un respiro il pube

e se ora il mare è questo

riflesso del pensiero

che affiora nelle parole

scritte e i muri

specchi opachi di me

stesso la logica

dell’ombra che si ostina

a vegliare è perché

neppure il sonno

è facile

 

 

 

lunedì 11 ottobre 2021

Francesco Dalessandro

 

LETTERA DA VELIA

 

 

L’ho vista fra i cantori

in ascolto

fra i guerrieri assiepati

nella cavea improvvisata

del cortile

                    l’ho rivista

solo ieri dopo un lungo

inverno e un’estate troppo calda

dopo altri inverni e altre estati

e primavere

l’ho rivista nella sera d’autunno

fra i guerrieri innamorati

o forse solo accesi

di desiderio e di lussuria

mentre un femio senz’anima cantava

certi versi sgraziati

e senza forma

                           l’ho rivista

e mi sono accorto

di non subirne la presenza

il mio sguardo l’ha avvolta

l’ha accolta

in sé per un tempo

breve

certo intenso ma breve

poi l’ha persa fra i tanti

che si stringevano al cantore

fra complimenti e abbracci

forse insinceri ma 

opportuni

                    così

in uno sguardo l’ho persa

e solo allora solo in quella

mancanza ho capito quanto ancora

mi era cara e l’amavo

 

*

 

perciò ora ti scrivo da questo

paese lontano

e antico da una spiaggia ad arco

leggero mentre un vento

cauto a tratti solleva

il foglio dove appunto questi

pensieri eleatici tradotti

in parole di poca

o nessuna intensità se non fatte

di carne viva o ignoranti

nel sentimento non dico

gli occhi ma la sua nuca

lo spazio liscio fra l’orecchio

e i capelli dove avrei

voluto baciarla come la

prima volta anche lì

fra i cantori assiepati

fra i quali lei indugiava

compiaciuta 

 

*

 

durevoli giorni dal dolore

non possono sbocciare

e la vita cammina o corre avanti

a me che non potrò

mai raggiungerla e pago

con imperizia e indecisioni

i suoi passi impreparato

a viverla con la struggente

voglia di dirle addio

ma di non farlo mai

forse perché il pensiero

iperuranio che mi salva

è lei

l’essere univoco e sereno

increato ed eterno

che qui a Velia oggi cura

i miei giorni e saperla

infinita

ne riscatta il ricordo

che duole come apparenza

quando i sensi me ne danno 

ancora tenere prove  

e se le cose

non possono avvalersi

di nostre riflessioni

perché accadono sempre

a nostra insaputa non senza

stupore riconosco

il suo volto

nel sale e mi penso

a leggerle versi d’amore parole

così nuove così

sconosciute che non oso

ripeterle dette quando lei

non c’era ad ascoltarle,

quando erano falò

sulla spiaggia o solo il rossore

del suo viso o della brace

della mia sigaretta

che lentamente si spegneva

ardendo nelle sue

pupille chiare e se ora

non sto male

è perché – l’ho imparato

proprio qui

proprio da questi

greci in ritardo – anche il cervello

è cuore

 

*

 

ma restano distanze

inattingibili

tra le parole anche tra quelle

che alimentano il rogo

dei sentimenti che se non

dànno la conoscenza o anche solo

il sapere dei limiti

la coscienza dell’anima, almeno

il possesso o l’illusione

consapevole del tatto

quando le sfioro il cuore

con un soffio

con una piuma il pube

 

e se ora il mare è questo

riflesso del pensiero

che affiora nelle parole

scritte ed i muri

specchi opachi di me

stesso la logica

dell’ombra che si ostina

a vegliare è perché

neppure il sonno

è facile


(inedita)


piacerebbe, all'autore, che i lettori lasciassero un commento su questa poesia, scritta di getto sabato mattina, quasi i suoi versi, le sue parole avessero fretta di proporsi  

venerdì 8 ottobre 2021

Alberto Bertoni

 SALUTZ


Ogni giorno ricomincia

qualcosa di antichissimo

Enea che da Troia sbarca

dove il Tevere s'insala


Guardo tutto dal faro

i gradini scoscesi, la fila dei giorni

intanto che il mio saluto

e qualche bacio accogli


dall'isola dei topi


da L'isola dei topi, Einaudi, 2021


Questa poesia sarà letta da me, oggi alle ore 18, presso la Casa delle Letterature, nell'ambito di un omaggio a Bertoni organizzato da Silvia Bre e da Elisabetta Destasio Vettori

mercoledì 6 ottobre 2021

Gino Scartaghiande

 A NOTTE INOLTRATA

                      Pensando al mio amico giovane poeta Gabriele Galloni


      

Non c’è solo la tomba

e il vuoto della casa

se passo inosservato

nei grandi spazi aerei

dei simulacri.

I morti mi chiamano, cadono fronde

d'alloro, amaranti cornucopie

come d'un loro terremoto. Io

passo avanti, fingendo, e

non ho cura. Mi attardo a parlare

del più del meno con un distinto

signore, che risistemava qualcosa

su di un tumulo di terra, tomba nuova

o vecchia non ho pensato.

 

A sera, dopo il tramonto

già il giorno che verrà

benedirà i miei cari

mi attarderò ancora,

su quelli che ho salutato

solo col cuore.



lunedì 4 ottobre 2021

Nicola Bultrini

 Sonetto X


Dunque, è vero quel che hai suggerito,

che il ritmo del respiro nella gola

si fa com'è natura e definito

in questi esercizi per voce sola.


Io penso forte e piano m'abbandono

a realizzare un ambito di vero,

ponendo l'attenzione ancora al suono,

finché si fa di vetro e più sincero.


E' stata un'occasione fortunata,

legata, filo doppio, alla pazienza,

saperti attento a certi sentimenti.


Lacerti della vita frantumata

compiuti come luce in dissolvenza, 

sottratti alla furia degli eventi.


da 64 sonetti, fuorilinea, 2021

venerdì 1 ottobre 2021

Giambattista Vico

 

AFFETTI DI UN DISPERATO


 

Lasso, vi prego, acerbi miei martìri, 
a unirvi insiem ne la memoria oscura,
 
se cortesi mai sète in dar tormento;
 
poiché son tanti, che lo mio cor dura,
 
di mille vostre offese i vari giri,
 
ch’i’ non ben vi conosco e pur vi sento:
 
talché di rimembrar meco pavento
 
le mie sciagure. Or voi, sospiri accesi,
 
ite a seccarmi i pianti in mezzo al varco
 
del ciglio d’umor carco;
 
e voi, da miei sospir miei pianti offesi,
 
tornando in giù, di lor vi vendicate
 
con sommergerli adentro ’l mesto core,
 
a cui per le vostr’onte ornai si toglia
 
che possa la sua cruda amara doglia
 
sfogar, poiché così agio non fate
 
ch’uscendo fuor con voi il mio dolore,
 
lasci l’albergo d’ogni nostro affetto;
 
perch’io, finché m’ha morto, in mezzo al petto
 
serbarlo vo’, se mai quel che m’avviva
 
potrà menarmi del mio corso a riva.
Perché cadente ornai è ’l ferreo mondo
 
e son già instrutti a farci strazio i fati,
 
di pari con le colpe i nostri mali
 
crebber sugli altri delle prische etati
 
troppo altamente, poiché sotto il pondo
 
di novi morbi i gravi corpi e frali
 
gemono smorti, ed a la tomba l’ali
 
il viver nostro ha più preste e spedite,
 
e son sempre feconde le sventure
 
di sì fatte sciagure
non più per nova o antica fama udite,
 
e dal pensier uman tanto lontane
 
che crederle men sa chi più le prova:
 
talché sembra lo ciel che non più accenda
 
benigno lume, onde qua giù discenda
 
un’alma lieta. Or chi cotanto strane
 
guise di mali intende mai per prova,
 
se potesse mirar qual è lo scempio
 
che di me fa mio destin fèro ed empio,
 
al suo, ch’or chiama avaro ed or crudele,
 
grazie sol renderia, non che querele.
    Di qualunque animal, quando primiero
 
a l’ime soglie del suo viver giunge,
 
lo ’nfocato vigor onde ha la vita,
 
con dolci nodi amici e’ si congiunge
 
la sua salma; e un caso adverso e fèro,
 
pur sia stella avara in darmi aita,
 
o natura dal suo corso smarrita,
 
di duo adversari me, lasso! compose:
 
il mio mortale infermo, afflitto e stanco,
 
ch’omai par venir manco,
 
strazia l’alma con pene aspre, noiose;
 
e ’l mio miglior, che d’egre cure abonda,
 
affligge ’l corpo con crudeli pesti:
 
e mentre, oimè! con pensier molto e spesso
 
me ’nterno a sentir me contro me stesso,
 
membro non ho ch’a l’anima risponda,
 
poiché non ho vertù che i sensi désti,
 
se non se ’n quanto mi si fan sentire
 
gli acerbi effetti de’ lor sdegni ed ire.
 
In sì misero stato e sì doglioso
 
va’, spera, se tu puoi, qualche riposo.
Ma ’l piacer fèro di dolermi sempre
 
parmi ch’alleggi in parte ’l mio cordoglio,
 
se del mio stato a lamentar mi mena;
 
ond’io, ch’a più e a più dolor me ’nvoglio,
 
farò, cantando con suavi tempre,
 
che pel contrario suo poggi mia pena.
 
Vita sovra ’l mortai corso serena,
 
moderati piacer, delizie oneste,
 
tesori per valor vero acquistati,
 
onori meritati,
mente tranquilla in abito celeste;
 
e, perché più lo mio dolor s’avanzi,
 
talché null’altro mai fia che l’agguagli,
 
amor di cui è sol amor mercede,
 
e vicende gentil di fé con fede,
 
venite al tristo pensier mio dinanzi,
 
ch’e’ vi farà sembrar pene e travagli
 
a lo mio cor, perché di duol trabocchi,
 
sì come rossa gemma avanti gli occhi
 
posta talora, egli adivien che facci
 
rassembrar sangue il latte e fiamme i ghiacci.
Rinfacciatemi or voi, s’unqua potete,
 
qualche vostro favor, stelle crudeli!
 
Ite, e ven prego, a ritrovarlo ornai
 
entro quei moti de’ benigni cieli,
 
che ’nfluiscon qua giù gioie men liete.
 
Solo ben io da me so che non mai
 
bevvi respir, che non traessi guai.
 
Deh! perché da la vita altra beata,
 
stanco da tante alte sciagure e rotto,
 
misero, fui condotto
 
a la presente amara e disperata?
 
Poiché, se mai a’ giorni, a’ mesi, agli anni,
 
c’ho speso nel dolor, i’ son rivolto,
 
veggio esser nato per mia cruda sorte
 
solo a fiamme, sospir, lagrime e morte.
 
E così crudi scempi e acerbi affanni
 
non m’hanno in quel che i’ era ancor disciolto.
 
Ah, che daranno tempo al fato rio
 
che meglio studi ’l precipizio mio;
 
se non è forse che la morte avara
 
tema col mio morir farsi più amara!
Mi venne sol da luminosa parte
 
del cielo una vaghezza di destare
 
a pie de’ faggi e poi de’ lauri a l’ombra
 
la bella luce che fa l’alme chiare,
 
ch’a la povera mia si spense in parte
 
quando se ’ndossò ’l velo onde s’adombra:
 
talché, d’alto stupor finor ingombra,
 
parea a se stessa dir: – Lassa! chi sono? –
debbami dar il nome;
ma sempre ’l chiamerò pena e non dono,
 
se affligge più chi più conosce il male.
 
Oh inver beati voi, ninfe e pastori,
 
cui sa ignoranza cagionar contenti,
 
ch’obliati sudor, fatighe e stenti
 
acquetar vi sapete a un dono frale
 
o di poma o di latte over di fiori;
 
ed al caldo ed al gel diletto e gioco
 
vi reca l’ombra fresca e ’l sacro foco;
 
ne altra gioia a voi sembra che piaccia
 
che rozzo amore o faticosa caccia!
Ma qual piacere i’ seguo, afflitto e lasso,
 
fra tanti strazi abbandonato e solo,
 
ne la misera mia vita che meno?
 
che fatto son noioso incarco al suolo,
 
anco infecondo, dove ’l tronco e ’l sasso,
 
come in suo centro, han la lor quiete. Almeno
 
il mio piacer e’ fosse il venir meno;
 
ma ’l fato me ’l disdice. Or, se mi serbo
 
sempre a novi sospiri e a pianti novi,
 
piovi miserie, piovi
sovra ’l mio capo, empio destino acerbo;
 
e non voler meco mostrarti avaro
 
d’altri scempi più infesti e più nemici,
 
ch’i’ tua penuria e non pietà la stimo;
 
se non è forse invidia ch’i’ sia ’l primo
 
tra disperati e che mi renda chiaro
 
essempio di dolor agl’infelici.
 
Ma per le pene mie i’ giuro a queste
 
aspre selve, solinghe, orride e meste,
 
che non mai turberà, mentre respiro,
 
i lor alti silenzi un mio sospiro.
Canzon, sola rimanti a pianger meco
 
dove serbo ’l dolor, né fra la gente
 
d’ir chiedendo piotate abbi vaghezza;
 
che l’alto mio martìr conforti sprezza.
 
Ma, se doglia compianta e’ men si sente,
 
sdegna ch’ancor tu resti a pianger seco
 
l’afflitto cor, che disperato vòle
 
che l’aspre pene sue si sentan sole.