lunedì 29 novembre 2021

Francesco Dalessandro

 RAPIDO FUGGE IL TEMPO



Rapido fugge il tempo… così canta

il poeta e si tormenta,

furtiva giunge l’alba 

e ferisce la notte «dalle labbra

l’anima mia si sporge nel respiro

ma la tua non ritrova…»

 

«Ah, poesia, ti dilegui

nel vento che sussurra alla finestra

di questa casa nuova,

poesia, perché non segui

più i miei passi? mi metti

forse alla prova? oppure qui ti presti

agli inganni ai misteri

dell’amore che assalta

ai suoi furtivi sortilegi e affanni?

 

Tu non sei dolce non sei remissiva,

poesia, ma sei la luce

che scende fra le torri e sulle prime

tenere foglie, l’ombra

nutrita di silenzio;

sei la coppia di rondini che zirla

allegrezza a primalba

e l’ombra del gabbiano

che nel giovane vento ne minaccia

il volo; se, poesia, tu non sei dolce

e non sei remissiva

ma riflessiva e attenta

alla mia pena perché ora vacilli

o minacci o mi assilli?»

 

Hai detto: «la poesia mi sta lasciando

solo, come un amore

troppo timido, un tiepido

slancio di giorni giovani» e se ora

le parole che graffiano

il buio e diffidenti si smarriscono

provando a dire quelle verità

che vogliono silenzio

o le tristi bugie che più non sono

luce alla notte che ti insegue,

taci


(inedita)

venerdì 26 novembre 2021

Paolo Morelli

 CANTO POPOLARE DEL CIGNO DI VILLA BORGHESE 

 

 

Zuppe zuppe ta

si mme voi ammazzà

io me ne frego

 

Zuppe zuppe ta

tanto nun me poi magnà

manco pe sbieco

 

Ohi, si me voi finì

io, t’aspetto qua

nun me ne vado

che sguazz’ar lago

che sguazz’ar lago

 

Ohi, si me tiri er collo

si te sembro ’n pollo

vor dì vor dì vor dì

che te sei scemo

 

gnappe gnappe eeehh

ce n’hai da emarginà

si nun me fai magnà

io dimagrisco

 

Seeeh, hai voglia a bastonà

ride e cojonà

ce provo gusto

 

Sibbene che sei forte

allora andrai alla morte

mentre m’avveleni

io dò ’n córpo de reni

si la barca affonna

io moro insieme a tte

io moro insieme a tte

a tte a tte a tteee

 

alle alle ha

io te guardo in faccia

in tutta questa caccia

mentre che me spari

io manco nun lo so

io manco nun lo so

moro e nun lo so

io non finisco

 

Ma si proprio lo voi fà

la chiami libbertà

io dall’Ardilà

si pure che ce sta

quest’aria d’Ardilà

te porto male

                       

Zuppe zuppe ta

zuppe zuppe ta

zuppe zuppe ta

ohi ohi ohi


da Romanesca - voci e visioni di Roma, Il Labirinto, 2011

mercoledì 24 novembre 2021

Tommaso Lisi

 AD OGNI GIORNO BASTA LA SUA PENA


Ad ogni giorno basta la sua pena

o di sole o di pioggia, ma al mio cuore

la pena si rinnova in tutte l'ore.

M'acceca il sole della tua bellezza

lontana, ed alla pioggia del tuo addio

marcisco come foglia nella mota.

A me fu vita il giorno che ti vidi,

e da quel giorno è vita il ricordarti.

Vivo perché t'amai, perché non t'ebbi

ti ricordo piangendo. Ho già vissuto

la non-vita, fanciulla, se nemmeno

il dolce del tuo bacio ho conosciuto.


da Corrispondenza, L'Officina Libri, 1981

lunedì 22 novembre 2021

Rodolfo Di Biasio

Venerdì scorso è mancato alla nostra amicizia, al nostro affetto e soprattutto alla poesia italiana Rodolfo Di Biasio: poeta schivo e appartato, come in fondo sono tutti i grandi poeti, ovvero coloro che vogliono e usano parlare solo attraverso i propri versi, senza mondanità e senza invadenze. 

Con questa piccola poesia, tratta da un suo ultimo libriccino (ma tale solo per lo scarso numero di pagine) pubblicato in vita - prima del riepilogativo Tutte le poesie - voglio ricordarlo ai lettori di questo blog e segnalarlo - come possibile - a chi ama la poesia italiana e che, per noncuranza di molta critica, non lo avesse mai letto e non conoscesse la sua poesia.


DI VOI E DI NOI

 

Di voi e di noi

che in cammino tentiamo

l’approdo che ci preservi

l’oasi di quiete albe

di sicuri tramonti

Si faccia smemorato

il nostro sonno

 

Ci addormenti in pace

il respiro dei figli

dalla stanza accanto

 

da Mute voci mute, Ghenomena, 2017

venerdì 19 novembre 2021

Robert Frost

 

UNA CAPANNA NELLA RADURA

 

Nebbia

Non credo che chi dorme in quella casa

sappia dove si trova.

 

Fumo

                                  Sono stati

qui abbastanza da respingere il bosco

ai margini della radura e tracciarvi un sentiero.

 

Nebbia

Ma dubito che sappiano dove vivono.

E, comincio a temere, non lo sapranno mai.

Il sentiero è un conforto: possono visitare

altra gente smarrita alla quale sentirsi vicini,

non nello spazio ma nelle difficoltà.

 

Fumo

Io sono lo spettro vigile del fumo

che uscendo dal camino si piega in un verso

o nell’altro alla luce delle stelle.

Non voglio che si disperi della loro felicità.

 

Nebbia

Nessuno – non io, certo – li darebbe per persi

solo perché non sanno dove sono.

Io sono la copia più umida del fumo;

la notte esalo dal terreno del giardino,

ma non salgo più in alto delle piante.

Ovatto il loro paesaggio. Ecco chi sono.

Né più estranea di te sono al loro destino.

 

Fumo

Avranno ormai imparato la lingua del luogo.

Perché non chiedono ai nativi dove sono?

 

Nebbia

Lo fanno spesso, ma nessuno

ne sa più di loro. Lo chiedono perfino

ai filosofi che li osservano dal pulpito.

Domandano a chiunque si possa domandare –

con la profonda fede che l’esperienza fatta

prenderà fuoco a illuminare il mondo.

Apprendere fu parte della loro religione.

 

Fumo

Il giorno in cui sapranno chi sono

capiranno anche meglio dove sono.

Ma chi sono è difficile da credere –

per loro e per il mondo che li guarda.

Sono troppo imprevisti per essere credibili.

 

Nebbia

Ascolta! Ora bisbigliano nel buio, parlando di domani.

Hanno spento la luce, non i loro pensieri.

Fingiamo che quelle gocce di rugiada

stillanti dalla gronda siamo noi che origliamo

la loro insonnia inquieta – nebbia e fumo

origlianti una bruma –. Chissà se riusciremo

a distinguere il basso dal soprano.

 

Meglio di fumo e nebbia chi potrebbe apprezzare

lo spirito affine di una bruma interiore?


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

mercoledì 17 novembre 2021

Attilio Bertolucci

 Domani ricorre l'anniversario della nascita di Attilio (18 novembre 1911). Voglio ricordarlo e segnalarlo a chi ha dimenticato.

 

DISCENDENDO IL COLLE

 

 

I

 

A quest’ora al tramonto se a occidente

il cielo nuvoloso si piagava e diveniva celeste

a oriente il campo mietuto e saccheggiato

ardeva di tanti fuochi: era la città di Roma

 

nel tardo autunno e qui il Tasso a occidente

del mio cammino in Sant’Onofrio e a oriente Gramsci

in Regina Coeli patirono la bellezza di cieli

similmente piagati un tale ardere di fuochi

 

poi che un altro anno finiva assai

amaramente della loro vita entrambi

da reclusione e castità sorrisi mentre

più giù più giù nell’ombra che infittisce

 

e palpita di corpi abbracciati un commercio

prospera per cui non moriranno i borghi

da queste alture ancora ocra e rosa

prima della notte e di un lume di luna

 

tiepido come latte e portatore d’insonnia.

 

 

II

 

Splendi ottone risuona legno poi che

dicembre ha disperso la nuvolaglia e viene

Natale tutto il cielo è celeste

chiara la città come una rosa.

 

O pomeriggio trasmutato in sera o baci

nell’illuminarsi e perdurare scuro

di vicoli e piazzette, petali

umidi di una polluzione notturna:

 

questa notte sveglia, la rosa

e le cornamuse dolcemente nasali

che seguirono il sereno e i suoi

lempi, lontane. E fu

 

il marasma o la sua prova

generale: doveva accadere qui in un

inverno corruttore e languido

così che il sudore improvviso sembrasse naturale.

 

 

III

 

Lo stesso amaro profumo del sempreverde

e sapore di fumo in bocca per

sarmenti bruciati – è il lavoro d’ogni giorno

da metà gennaio per questi

giardinieri avventizi, uomini

di grandi vizi e d’una media miseria,

adulteri stempiati per cui

i minorenni s’equivalgono, amati

più della vita.

Qui dove ormai, e sempre,

la bellezza soltanto dà suono

sincero, metallo che corrusca

non si consuma alla saliva dei baci.

Ne riceve ferite discendendo

il colle inebbriante di sereni lontani –

l’orizzonte aperto perché le giornate s’allungano –

chi si credette temprato dai rigori

d’un’infanzia ostinata

nell’Italia e nell’Europa che ancora

avvolge notte e nebbia e stringe gelo delirante d’inverno.

Ma lascia che al braccio piegato

(piagato) d’una curva sbianchi

la facciata d’un ospedale

dove soffrono bambini, senti

gemere il sempreverde nel piccolo

falò terminale: non disperare.

 

Da Viaggio d’inverno, Garzanti, 1971

lunedì 15 novembre 2021

Lucio Piccolo

 

GUIDA PER SALIRE AL MONTE

 

Così prendi il cammino del monte: quando non

sia giornata che tiri tramontana ai naviganti,

ma dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola

e sono venendo il tempo le pasque di granato e d’argento

– al cantico d’ogni anno s’avvolge di bianco la crescenza,

trabocca dai recinti, l’acquata nuova ravviva

la conca, l’orizzonte respira – da lì

alito non soverchio di vento di mezzogiorno,

e allato ti sarà e ti farà leggero

compagno che non vedi, presente

per una foglia che rotola o un ramo che oscilla,

e sono i sandali il curvarsi dell’erbe innanzi . . . canna

non avrai né fiasca di zucca per la sete come

al tempo delle figure, dal vento nascono i sogni. Ancora

un indugio tiene l’estate, di dalie, di gravi

campanule troppo accese ai giardini bagnati,

guai se l’aria l’agiti un poco!

e vengono afflati di vane danze – ma

la risacca indolente nelle insenature

cullò già rottami sperduti di mesi,

è questo il tempo, prendi il cammino del monte

e non discordi il passo nella salita al soffio

tacito – se i rami svolta agli arbusti

rassembrano pendenti piume di tortore di beccacce.

Spiazzo dinnanzi e un fonte, e questo è l’imbocco

della salita, scalea montana che poggia

su arcate giganti in muraglia coeva

alla rupe e stipano i vani siepaglie

densissime di sterpi serpigni, rifugio

nell’ore della luce di quanto la notte

ronfa, erra, sfiora – l’acciottolato rurale

fa scivoloso il piede, ché ogni pietra circonda

il muschio ora verde ora arsiccio,

ai margini il muretto a secco sgretola

e sul pietrisco punge il cardo violetto . . . ma guarda

sopra l’altura, è vicina, non la tocchi con mano?

Pure se vi affiorano nuvole a ricci a corimbi

– spume che nel celeste muovono i venti dell'alto –

subito si discosta la vetta, t’incombono sopra le nubi.

Silvestri le prime rampe, quando svolti alla terza

intorno t’è l’aria del monte come non altrove:

un liquore di fiori rupestri, d’antiche piogge e segreti,

e vedi calcare che un giorno immemoriale una stecca

segnò come creta a incavi sottili, a mensole, a nicchie,

e incontri già la capanna dell’eremita:

edicola o cella? senza copertura o riparo

squallida d’inverni, agli schianti

quì che il monte s’interna, di levante o scirocco,

lontano pareva di vimini, di carta –

pesta dipinta – s’asconde o vien fuori secondo

ch’è nuvolo o secco il solitario? L’eremita

chi lo vide mai? E noi pensiamo mattini

boschivi, anime di cortecce, veglie . . . ma così non è.

Forse erano suoi enigmi di schioppo e lanterna,

forse era lui a cercare nella forra angusta

il bulbo che alimenta la notte?

– Solitudine trasparenza d’abisso? –

E le notti, le notti hanno un tarlo rovente

né giova scongiuro, le pietre della capanna

serbano ancora le losanghe scure che lascia

fuggendo il rosso devastatore dal manto . . . e questo

avvenne una volta: nell’ora

che su la città è una coltre in caligini,

e scende, né la ferma spranga o chiavistello,

e posa a ognuno la sabbia del sonno su le palpebre,

da un’intacca della rupe sprizzò la scintilla:

saio barba cappuccio, il fagotto d’orbace e stoppa

fu tutto ruote di fuoco sbocchi di fumo . . . l’ombre

dell’energumeno su le pareti di roccia

come di notturni avvoltoi in turbinio d’ali!

Più delle fiamme paurose. . . tardi dal mucchio

si partirono in volo dintorno maligne

pirauste, lampiri – e dalla pianura

di giù se alcuno vide il bagliore

pensò forse: accende il capraio a conforto

la fiammata, ora che autunno avanza . . .

 

 

Da Plumelia, All’insegna del pesce d’oro, 1979

venerdì 12 novembre 2021

Francesco Dalessandro

 SUL POETA

                       a Carlo Bordini

 

Un poeta, mi hai chiesto, come vive?

rinchiuso in una torre o segregato

in una stanza al riparo dal mondo

che lo assedia? o in un caucaso

oscuro in una fossa senza fondo

dove luce non penetra? o s’immerge

nel fluire della vita fra la gente?

 

Vive ognuno a suo modo, in armonia

col mondo o disarmonico piagato

dal silenzio che nega la parola,

vive com’è concesso alla sua smania

e alla sua solitudine, in perenne

affanno…


(inedita)


Domenica mattina, a Villa Torlonia, verrà ricordato il poeta Carlo Bordini. All'evento parteciperanno molti suoi amici, i quali leggeranno un suo testo. Lo farò anch'io, ma prima, qui voglio ricordare Carlo con una poesia inedita a lui dedicata. Lo spunto di questa poesia è legato all'ultima volta che vidi Carlo, nella primavera del 2020, prima del lock down. Gli avevo portato una copia del libro di Alessandro Ricci, Tutte le poesieda me curato. In quell'occasione parlammo delle sue condizioni di salute e del suo isolamento casalingo, di poesia e di poeti.  


 

 

mercoledì 10 novembre 2021

Osip Mandel’štam

 TRADUZIONE DA PETRARCA


                                        Valle che de' lamenti miei se' piena


Fiume, gonfio di lacrime salate,

gli uccelli di bosco potrebbero narrarlo,

le fiere dai sensi acuti e i pesci muti,

stretti tra due verdi rive;


valle di giuramenti piena e di sussurri roventi,

sentieri sinuosi rigogliosi d'erba,

massi, a forza d'amore noti a menadito,

e terra crepata su ardui pendii.


L'incrollabile vacilla sul posto,

e vacillo io. Come nel granito, cristallizza

il dolore nel nido della passata gaiezza,


dove io cerco tracce di bellezza e onore,

svanito, come il falco dopo la muta,

lasciata la spoglia sul giaciglio terrestre.


Dicembre 1933 - gennaio 1934


Traduzione di Pina Napolitano


da Quaderni di Mosca, Einaudi, 2021

lunedì 8 novembre 2021

Matteo Munaretto

 RIPOSA INQUIETAMENTE IL DOLCE VENTO


Riposa inquietamente il dolce vento

della vita nell'ombroso

oro delle parole,


nel loro

alveare si coccola

il mare


da Preparativi per l'arca, Moretti e Vitali, 2021 

venerdì 5 novembre 2021

Rossano Pestarino

 IL TUONO HA INGOIATO LE VOCI


Il tuono ha ingoiato le voci

di fuori, rispuntano croci

nel fresco dell'erba un mattino


dove la luce arava

cumuli dolci e neri che la talpa

ancora scava, eterna come ieri.


Guarda, guarda! Formiche:

lungo i nervi del bosso

che via vai, sopra il rosso

dei mattoni; dal bricco vicino

sentila, la cicala!


                            Ma il silenzio

era intero nel bianco

fra le culle più antiche dove stanca

rifranava la terra:


in quel posto del mondo rotondo

cominciava tranquilla la terra.


da Lune d'Honan, Manni, 2012

mercoledì 3 novembre 2021

Francesco Dalessandro

 NEL GIORNO DEI MORTI

2 novembre 1991

 



Nel mese più stanco, nel giorno

dei morti – è già un mese

che manchi – giorno freddo

e assolato arrembante come allora

oltre il crinale dei monti

su strade e campagna sul rame

del bosco e sopra ai tetti

a sciogliere la brina

notturna («è il fiato dei morti»

una voce inconoscibile bisbiglia

«è il fiato perso dei nostri

cari morti: hanno freddo

e il loro fiato gela» una vecchia

in nero che non riconosco

per età o per stanchezza

arrancando curva sulla strada

del cimitero fra sé e sé sussurra).



Forse è quella voce flebile

più del vento fra le piante

a chiarirmi quanta vita e

quanta morte sono state necessarie

ai sentimenti e che fuoco

può perderci tutti o affinare

i nostri sensi nel lento

maturare dei giorni, ma a te

la coscienza (o forse l’anima, se solo

potessimo crederlo) a te parla

scegliendo le parole –

come il corvo il frutto dolce

da beccare fra quelli avvelenati

dalle lunghe piogge acide

d’autunno – le parole spente

dal silenzio che ci divise.



«Se fu solo per il saluto

che si dà a chi parte

per un viaggio in paesi

lontani, se fu solo per questo

che tutti, tutti ci unimmo

in quel mattino assolato

e sereno di ottobre, se il nostro

pianto era giusto e dovuto

per amore, io perché ne sentivo

la colpa come fosse

una cattiva azione ora lasciarti?

perché, padre? dove avevo

sbagliato con te e perso

la confidenza bambina?

il tuo riserbo d’uomo nato

al dovere nell’avara

solitudine di questa terra

senza abbandoni, la mia cupa

adolescenza di protervia

e illusioni: eccoli forse

i motivi che il tempo confuse

ma che sempre un riverbero

lumeggiò nel profondo

della tua silenziosa vicinanza

del tuo sostegno e amore».



Ora i pensieri

sono il metronomo dei passi

lungo la strada polverosa

dove altri camminano

con noi a coppie a gruppi

di tre confabulando sotto il

sole già alto o all’ombra

nel giorno della visita

ai morti a chi ora dorme sonni

insensati e perfetti

e non ricorda più affanni o sogni.


(Inedita)

lunedì 1 novembre 2021

José García Nieto

 POVERA MIA PAROLA


Povera mia parola,

anello circoscritto,

dove - tristissimo! -

giornalmente trascorro.

Di', quando mi racchiudi,

son qualcosa nella tua rete?

L'uomo che ti affido

resiste ai tuoi naufragi?

Acque raccolte, gelide,

e in alto la mia passione.


Traduzione di Oreste Macrì

da Poesia spagnola del Novecento, Garzanti, 1985