L’ALCHIMISTA IN CITTÀ
La mia finestra svela nubi passeggere,
foglie spente, nuove stagioni, cieli
mutevoli, folle ristrette e disperse:
il mondo intero passa; io sto a guardare.
Uomini e mastri non sciupano le ore
loro assegnate, progettano costruiscono:
vedo il coronamento delle torri,
e felici promesse mantenute.
E io – se il mio proposito potesse
contare forse su un tempo
prediluviano, sosterrei fatiche
che avrebbero così il loro retaggio,
ma ora prima che il crogiolo possa
ardere con un oro mai scoperto,
il mantice avrà smesso di soffiare
e la fornace sarà raffreddata.
Adesso è troppo tardi per guarire
dalla vergogna che impacciata e inetta
quando tratto col prossimo mi rende
del cieco o dello zoppo più impotente.
No, la città dovrei amarla meno
anche di quest’ingrata mia dottrina;
ma ora io desidero il deserto
o gli spogli declivi della costa.
Passeggio sull’arioso belvedere
e osservo il sole declinare o alzarsi,
vedo le giravolte dei piccioni,
studio il rincorrersi delle rondini
dal sommo della torre al suolo
sottostante, nell’aria che le sostiene;
poi scopro nel cerchio dell’orizzonte
un punto e bramo d’esserci.
Così odio di più questa dottrina
che non reca promesse di successo;
dolcissima la spiaggia inabitata
mi sembra, familiare e gentile il deserto,
i tumuli antichi che ricoprono ossa,
le rocce dove trovano riparo
i piccioni marini, e terebinti
e pietre, il silenzio e un golfo d’aria.
Là sopra un’ampia altura pianeggiante
dopo il tramonto mi distenderei,
e trafitta la cerea luce gialla
di un lungo aperto sguardo, morirei.
Traduzione di Francesco Dalessandro
The Poems of Gerard Manley Hopkins, Oxford University Press, 1970