IL POMERIGGIO D’AMORE DI DUE TARTARUGHE
Che violenta, sorda, cozzante pazienza
quella della tartaruga maschio, dal
piccolo guscio verde e marrone, che
per tutto il pomeriggio ha stretto al muro
della cunetta nel giardino la
tartaruga femmina, compagna
ben più grande di lui, quieta, pacatamente
ritrosa.
Con la sua testa vischiosa, retrattile
avanzava e le mordeva le
zampe anteriori, poi
quelle posteriori – e chi può dire
la dolcezza del mordere d’amore
di una tartaruga – le sollevava
il guscio, le si infilava
sotto, veloce e determinato più di quanto
gli consentisse la sua natura.
Faticando, ma irriducibile, preciso
tra brevi, ripetuti cozzi, sordi come
di scaglie di pietra, di cavità che si
incontrano, la stringeva al muro e la
mordeva, e se lei provava a fuggire, la
seguiva con un suo breve scatto a
zig-zag.
Poi d’improvviso alzava le sue zampe
anteriori sul guscio di lei, cercava come
un suo equilibrio nello spingere,
brutale ma elastico e di una
sua impensabile tormenta leggerezza.
Lei emetteva un grido
di paura, mai sentito da tartarughe, tanto
che abbiamo creduto subito che fosse
quello di un uccello ferito
caduto o sotto l’abete o tra le
rose del giardino; e Baffo il cane
da caccia correva qua e là senza degnare
la scena di uno sguardo.
Così sino al tramonto hanno giocato
le tartarughe, animali buffi ma capaci
di questo inesauribile cercarsi, di fatiche
immani, di movimenti di avvicinamento
tortuosi e minerali.
Quei gusci, e il loro battere, rintoccare,
pietre impazzite, pietre d’amore, e
quel contatto caldo, invisibile, e per il quale
nessuna, neppure la più aggirante manovra
era superflua. Infine hanno raggiunto il
piacere.
Noi dobbiamo parlare per cercarci, diventare
sguardi, e se fuggiamo insieme forse è per
tentare di morire senza toccarci: carezzare
è difficile per chi
crede di avere un’anima, e baciare
è difficile, o di una tenerezza
troppo facile, troppo raggiungibile
forse.
30 luglio, 9 agosto 1977
da L’ultimo aprile bianco, Società di Poesia, 1979