venerdì 18 ottobre 2024

Camillo Fonte

 QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE


Quarta lezione: Una canzone provenzale e Pound

  

I

 

«La nostra poesia, l’abbiamo visto, comincia…»

indugiò, si volse a guardare la classe,

chiedendole tacitamente di rispondere.

Proseguì: «Comincia con…»

«La “Scuola siciliana”», risposero tutti.

Sorrise contento. «Ma oggi, sebbene

non sia in programma, parliamo di una Poesia

che viene prima della Scuola siciliana.

Parliamo dei “trovatori”, quei poeti

che scrivevano in lingua d’oc,

parliamo dei poeti provenzali». Di nuovo

fece una breve pausa guardando negli occhi

le ragazze davanti alla cattedra, sedute

nel primo banco. «La Provenza, lo sapete,

è una regione nel sud della Francia.

I trovatori vissero e scrissero nel dodicesimo

e tredicesimo secolo, e furono modelli

per tutti i poeti che vennero dopo di loro.

La poesia che scrivevano… anzi, che

cantavano, era in prevalenza poesia d’amore

(fin’amor lo chiamavano), e aveva

un codice preciso di comportamenti –

sia del poeta sia della donna amata,

sposata o nubile che fosse, alla quale il poeta

si rivolgeva coi versi chiedendone l’amore.

Era spesso la moglie del signore

del castello dove il trovatore era ospitato…».

Qui tacque per un attimo, come aspettasse

una reazione. Ma ci furono solo sorrisini

maliziosi, con scambi di sguardi

fra ragazze e ragazzi. «Eppure quei poeti

parlavano anche di guerra, o in generale

di politica» riprese ignorando

quei minimi segnali. «Scrivevano a volte

compianti, “complants”, per la scomparsa

di qualcuno. E di questo voglio dirvi oggi

leggendovene uno dei più belli. Lo vedete

trascritto sulla lavagna.

Seguite la mia lettura e ascoltate attentamene –

anche se non capirete – 

perché quel che conta è il suono delle parole».

 

Si tuit li dol e’lh plor e’lh marrimen

e las dolors e’lh dan e’lh chaitivier 

qu’om anc auzis en est segle dolen…

 

Cominciò a leggere seguitando fino alla fine.

Lesse poi una traduzione improvvisata:

 

Se tutto il duolo e pianto e smarrimento

e i dolori e il danno e lo sconforto 

ch’uomo provò nel secolo dolente…

               

«Questo “compianto”, una delle più belle

canzoni scritte in lingua occitanica,

è dedicato alla morte prematura di Enrico

III Plantageneto, re d’Inghilterra.

Avete sentito l’ordito perfetto dei suoni?

Ognuno è finalizzato a suscitare in chi legge

o ascolta la stessa afflizione di chi scrive.

Avrete notato che il primo verso di ogni strofe

finisce con la parola marrimen

(che bastano tre lettere per trasformare in

smarrimento: afflizione, pena, sconforto)

e l’ultimo finisce con la parola ira,

che allo smarrimento, immaginiamo,

aggiunge rabbia per quella morte prematura.

Ma insieme allo sbigottimento di chi scrive,

quei suoni non sembrano rintocchi

di campane a morto? Impossibile sottrarsi

alla loro cadenza, al loro suono, al fascino.

Ne fu autore Bertran de Born,

“guerrafondaio e poeta” secondo la definizione

di un critico; seminatore di discordia

secondo Dante, che lo mise all’Inferno».

Qui tacque. Aspettava una reazione

da quei ragazzi. Ma prima che qualcuno

potesse parlare suonò la campanella:

la lezione era finita. Nessuno

osava alzarsi. Aspettavano che fosse

lui a dire di uscire. Benché deluso,

«Andate, andate! Su…» disse. «A domani».

Allora si alzarono tutti e uscirono in silenzio,

uno dietro l’altro, salutando.

“Arrivederci” dicevano uscendo.

E dopo qualche minuto, raccolte le sue carte,

lui stesso li seguì.

Scese in strada dove tutti – i suoi e gli altri –

indugiavano a gruppi, a chiacchierare

allegri ad alta voce.

                                    Un sole timido usciva,

fuggiva a momenti dalle nuvole, come

compiaciuto che l’accogliessero con gioia.

Solo lui non lo guardò.

S’avviò sorridendo verso casa senza più

voltarsi, ripensando alla lezione

e a come l’avrebbe conclusa, parlando

di un poeta del nostro tempo,

amato e tanto odiato, anche lui “seminatore

di discordia”, lo zio Ez… Così lo chiamavano.

 

 

II

                                                           

A distanza di secoli, quei versi – avrebbe detto –

toccheranno l’orecchio infallibile di Pound,

che se ne ricorda all’inizio del canto LXXXIV,

l’ultimo dei Pisani, dove esprime sconforto

e cordoglio per la morte di un amico poeta,

J. P. Angold… Qui, pensò, si sarebbe

interrotto per un attimo. Pound probabilmente

li cita a memoria, ne accentua (e ne migliora

forse) il suono battente usando allo scopo

anche il nome dell’amico e la parola in greco:

 

Si tuit li dolh el plor

Angold τέθνηκε

tuit lo pro, tuit lo bes

           Angold τέθνηκε

 

Ma il fascino che Bertran esercitò sul poeta

americano non finisce con questa citazione.

Pound fu molto sensibile alla personalità

del provenzale; solo basta a testimoniarlo

uno dei testi suoi più belli, la celebre Sestina:

Altaforte, nella quale egli lo fa parlare.

E non a caso utilizzò una delle più fortunate 

e difficili invenzioni della poesia occitanica,

la “sestina”, della quale siamo debitori al-

l’altro grande poeta del tempo, Arnaut Daniel…

 

Scosse la testa, sorrise fra sé, guardò in alto,

dove il sole era scomparso dietro un nembo.

Si disse che la retorica non gli era necessaria…