GUIDA PER
SALIRE AL MONTE
Così
prendi il cammino del monte: quando non
sia
giornata che tiri tramontana ai naviganti,
ma
dall’opposta banda dove i monti s’oscurano in gola
e sono
venendo il tempo le pasque di granato e d’argento
– al
cantico d’ogni anno s’avvolge di bianco la crescenza,
trabocca
dai recinti, l’acquata nuova ravviva
la conca,
l’orizzonte respira – da lì
alito non
soverchio di vento di mezzogiorno,
e allato ti
sarà e ti farà leggero
compagno
che non vedi, presente
per una
foglia che rotola o un ramo che oscilla,
e sono i
sandali il curvarsi dell’erbe innanzi . . . canna
non avrai
né fiasca di zucca per la sete come
al tempo
delle figure, dal vento nascono i sogni. Ancora
un indugio
tiene l’estate, di dalie, di gravi
campanule
troppo accese ai giardini bagnati,
guai se
l’aria l’agiti un poco!
e vengono
afflati di vane danze – ma
la risacca
indolente nelle insenature
cullò già
rottami sperduti di mesi,
è questo
il tempo, prendi il cammino del monte
e non
discordi il passo nella salita al soffio
tacito –
se i rami svolta agli arbusti
rassembrano
pendenti piume di tortore di beccacce.
Spiazzo
dinnanzi e un fonte, e questo è l’imbocco
della
salita, scalea montana che poggia
su arcate
giganti in muraglia coeva
alla rupe e
stipano i vani siepaglie
densissime
di sterpi serpigni, rifugio
nell’ore
della luce di quanto la notte
ronfa,
erra, sfiora – l’acciottolato rurale
fa
scivoloso il piede, ché ogni pietra circonda
il muschio
ora verde ora arsiccio,
ai margini
il muretto a secco sgretola
e sul
pietrisco punge il cardo violetto . . . ma guarda
sopra
l’altura, è vicina, non la tocchi con mano?
Pure se vi
affiorano nuvole a ricci a corimbi
– spume
che nel celeste muovono i venti dell'alto –
subito si
discosta la vetta, t’incombono sopra le nubi.
Silvestri
le prime rampe, quando svolti alla terza
intorno t’è
l’aria del monte come non altrove:
un liquore
di fiori rupestri, d’antiche piogge e segreti,
e vedi
calcare che un giorno immemoriale una stecca
segnò come
creta a incavi sottili, a mensole, a nicchie,
e incontri
già la capanna dell’eremita:
edicola o
cella? senza copertura o riparo
squallida
d’inverni, agli schianti
quì che il
monte s’interna, di levante o scirocco,
lontano
pareva di vimini, di carta –
pesta
dipinta – s’asconde o vien fuori secondo
ch’è
nuvolo o secco il solitario? L’eremita
chi lo vide
mai? E noi pensiamo mattini
boschivi,
anime di cortecce, veglie . . . ma così non è.
Forse erano
suoi enigmi di schioppo e lanterna,
forse era
lui a cercare nella forra angusta
il bulbo
che alimenta la notte?
– Solitudine
trasparenza d’abisso? –
E le notti,
le notti hanno un tarlo rovente
né giova
scongiuro, le pietre della capanna
serbano
ancora le losanghe scure che lascia
fuggendo il
rosso devastatore dal manto . . . e questo
avvenne una
volta: nell’ora
che su la
città è una coltre in caligini,
e scende,
né la ferma spranga o chiavistello,
e posa a
ognuno la sabbia del sonno su le palpebre,
da
un’intacca della rupe sprizzò la scintilla:
saio barba
cappuccio, il fagotto d’orbace e stoppa
fu tutto
ruote di fuoco sbocchi di fumo . . . l’ombre
dell’energumeno
su le pareti di roccia
come di
notturni avvoltoi in turbinio d’ali!
Più delle
fiamme paurose. . . tardi dal mucchio
si
partirono in volo dintorno maligne
pirauste,
lampiri – e dalla pianura
di giù se
alcuno vide il bagliore
pensò
forse: accende il capraio a conforto
la
fiammata, ora che autunno avanza . . .
Da
Plumelia,
All’insegna del pesce d’oro, 1979