APPARIZIONI
V
Il centro non conosce
costrizioni:
è una fiammata davanti
agli occhi,
un teso spazio bianco.
Non abbaglia:
come il calore della
brace che in mano
arde senza far male,
come lo spirito del fuoco
sotto la cenere
violacea del cielo.
Con gli occhi abituati
ad essa, l’oscurità
è frescura di foglie,
inverno di giardini:
il palmo d’una mano
umida e vegetale
che ci fa da soffitto
e da riparo,
silenzio di nuda
pietra fatta splendore.
Tutto diventa luce: l’aria
palpita
di lontani falò che
rifrangono lampi.
Luce solida: calce,
diamante e roccia.
Luce liquida: sabbia e
sale sciolto.
Luce di zolfo:
crepitio di fiamme,
nel ricordo. Rotazione
del bianco
nella luce senza
centro, perché il bianco
è il cuore del candore
della luce.
Gli occhi bevono
fuoco, cibo incandescente
che nutre il senso e
che sa di cartone
bruciato, di stoppa e
di fuliggine,
di terracotta, panni
umidi, tende strinate,
di pietra e di niente,
come l’aspro e scuro
pasto dei morti che
bevono ombra.
Quelle gole vuote non
smettono mai
di tracannare ombra,
come un vino rosso
e denso di viti
selvatiche, trangugiando
il succo torbido e
nero dell’inesistenza,
divorando crude spezie
piccanti, rottami
del tempo, brandelli
d’iris e gelsomino,
pelle umana esposta
all’aria, croste e bucce
che sanno di segatura,
bocconi di carta
secca: i morti nutriti
di soda e d’umori
notturni.
Divoreremo solo oscurità?
Solo buio nel buio? A
noi, da vivi
non conviene altro
cibo, e la bocca
ormai forse gradisce
solo quello,
solo ombra per una
bocca d’ombra
senza maschera e senza
il condimento
stomachevole e osceno
che vollero darci
e non chiedemmo. I
sensi e il cuore sanno
che vogliamo solo
gustare l’ombra.
In quale spazio
mentale, dove vivono
i corpi degli amanti?
Si congiungono
irrequieti,
digrignando i denti, sbuffando
e nitrendo come
cavalli in calore,
urlando o parlando a
bassa voce,
ma sordi ciechi e
muti; dai loro corpi
scaturiscono umori in
un fluire
che non è più del
mondo materiale
né della mente: quello
che ci sfugge,
come l’ira o il
languore, salato, denso,
fulgido, fumante come
sterco fetido
che stordisce, non
sono l’alcova
né vista né vissuta,
quegli aspi, un respiro
da bocca a bocca,
corpo che tormenta
un corpo, anche e
braccia agitantesi
come un’anatra pazza
che batta le ali
in un letto d’acqua e
lenzuola, l’afrore,
la parola volgare, un
rumore gutturale,
e la parola tenera,
petalo offerto alla notte
conquistata dai corpi:
tutto
quello
che ci esalta e ci
spoglia, che ci porta
lontano, in un deserto
stellare,
in un campo di luce
arida e fredda,
che ci fa sudare e
gridare, che brucia
l’erba nera del pube e
la peluria morbida
dell’ascella dal gusto
dolce e forte,
che brucia i seni in
un trionfo solare;
tutto questo, e una
luce così forte
che non si può
vederla, poiché siamo
noi stessi quella
luce, è un gusto d'ombra,
l’assoluto che ci si
offre, la fusione
con il pallido
esaurirsi della notte.
Un chiarore purificato
e dolce,
il palato asciutto e
queste labbra
ancora umide di fiori
e di saliva,
la stanza vista di
traverso, girando il capo,
tutto è irreale, come
se svegliandoci,
all’alba, scoprissimo
ch’è un sogno:
qualcosa abbiamo
visto, anzi, noi siamo
quel che abbiamo
sentito, perché vedere,
sentire, e essere sono
solo un anelito,
un suono fioco e lento
di pioggia,
la pace dopo il grido,
la luce giallina,
melma del sogno, neve
sciolta
nel bianco profondo
degli occhi,
un albeggiare sordo
che è presagio
d’un vasto cielo opaco
di luce smorta,
gusto d’ombra del
ricordo, o nostalgia
per qualcosa di
durevole, che resista
come polvere e roccia,
come il fuoco
che vive solo quando è
un fiammeggiare
vibrante e cieco,
ardente nel biancore
vuoto del mondo. Senza
costrizioni,
senza clamore, senza
luce né colore,
né chiarità né buio:
un bianco neutro
e puro, la bevanda
degli dèi e dei morti.
E questo bianco è il
cibo degli amanti:
la dolcezza dell’ombra
che ci sporge
su un invisibile
assoluto, ma visibile
all’anima, che ci
scaglia nel vasto,
innevato e devastato
campo di Venere,
giardino siderale, che
sa di melagrana
e di tenera pesca, e
sa dell’ombra
da cui nasce la vita.
E noi sentiamo
tremare lo splendore
del bianco
del passato profondo
che fummo
e ancora ruota al
fondo: il nostro centro,
un cielo solitario e
luminoso.
Traduzione di Francesco Dalessandro