venerdì 31 dicembre 2021

Beppe Salvia

 ELEGIA


I


torniamo nella via deserta e bianca

al mondo dove i suoni sono tanto

più nudi che non qui dove la nuda

nostra nuova terra dei boschi tanto


chiara di neve tanto silenziosa

non ci fa beffe non sorride, soli

felici nudi siamo silenziosa

deserta via nei cieli delle stelle,


i cieli dove schermano i rondoni

quei loro battibecchi senza suoni

e i baci i belli più di quei bei voli,


ridi nascondi mi nascondi gli occhi

tu fai la luna l'oca bianca ronda

nuova nei cieli nuda silenziosa



II


non c'è che un bianco lupo nella neve

vive coi denti bianchi digrignati

vive e poi muore e lo gela la neve

bianca ferita sulla bianca neve,


se t'allontani Pia non vedo gli occhi

tuoi troppo tersi sei fata morgana

non sento la tua voce quegli amati

ginocchi sembrano vento e poi neve,


scompari più lontana t'allontani

non so mi sembrano segugi veri

le ombre gli alberi i fantasmi del tuo


vestito bianco sulla neve bianca,

il cielo s'è già messo a mormorare,

in cielo i tuoi ginocchi, silenzioso.


da Cuore, Internopoesia, 2021



mercoledì 29 dicembre 2021

Domenico Ludovici

 IL CAPPUCCINO


Ora mostrami se puoi cosa faresti

davanti a un cappuccino

nella tua indifferenza

che mi ferisce nella finta grazia

che vuole mascherarla

col nuovo amore che t’impegna

e ha cancellato il vecchio

mostrami quale volto

è ora il tuo quale avrei

davanti sorseggiando il cappuccino

diresti mai “ora lascia

che si distragga il tempo

che siamo qui come nel vecchio bar

guardandoci negli occhi

innamorati ancora avidi sempre

della bocca e dei baci…”?

non lo diresti e sì vorrei baciarti

ancora lì sul collo dove è più

morbida la peluria

dietro l’orecchio e dirti

quanto ancora mi manca

l’attenderti e l’amarti nella carne

e nel silenzio ma tu non è questo 

che vorresti sentire e lo diresti

chissà se lusingata o in imbarazzo

e se perciò morissi, io, rimorissi dentro,

perché bere con te quel cappuccino?


(inedita)

 

lunedì 27 dicembre 2021

Francesco Dalessandro

 

DALL’ESILIO

                                                      Tristissima noctis imago

                                                                         Ovidio, Tristia, I,3,1

 

Precipita nel vuoto il nuovo

mondo come

già il vecchio con me relegato

qui senza amore e stelle

in questo

gelido inverno (gelido

averno di miniere

e cave o fossi) quando la notte

svuota le strade di parole

e di sguardi: occhi muti

nella tenebra di atre dimore

dove i morti sono

la solitudine dei vivi

e l’esilio, senza chi mi cinga

le spalle nude,

è lo spettro degli anni

avvenire: sono muti

anche i versi che il respiro

porge al fuoco e che dal

ciglio del precipizio

osservo nel vuoto che li accoglie

 

«Anche le anime sono di sasso

qui o di gelido vetro,

il respiro vi scrive affannate  

parole morte…»

                          inizia

così l’ultima triste lettera

con la quale speravo di pesare

la compassione di un

dio lontano e indifferente

ma che non finirò

perché sono stanco di scrivere

le mie delusioni e

aspettare notizie che so

improbabili: nessuno

risponde mai (solo tu

insistito rimorso)

e le speranze sono cenere

sparsa sui viali

che amavo e dove ancora

passeggiano amici dimentichi

di me

e a cui basta una nube

sul Palatino per tremare

e temere che il dio

che vi abita fulmini dall’alto,

mentre qui sulle sponde

nere la neve è come

il sogno

e dipinge sulla rena

dove macina la ruota

del dolore

 

Perché credevo

all’impensabile fiore del

tuo amore

come al mondo che perdevo

e vedevo tra i flutti

irati affondare e sparire

come il remo

strappato alle mani?

 

Perché credevo al ritorno?

 

Non era che il sogno

di te che venivi a cercarmi

come al tempo

della lontana giovinezza

quando ti porgevi

alla bocca alle dita

sapienti e alla più

dolce morte era il tuo

saluto il sorriso che dal buio

voleva consolarmi

era l’immagine

viva di te che fioriva nel

sogno e voleva che la mente

l’accogliesse

a far luce a liberarsi

sì era-

no i soffi della vana

speranza era il vento

che fischia

e frusta la notte senza volto,

era ciò che avevo lasciato

alle spalle quando venne

la marea e la nave

uscì dal porto,

era come il sonno

perduto e mai più ritrovato

sì era

il danno che mi aveva

perso e su queste rive

ancora mi dona

derelizione e affanno

e fra poco la morte

era l’ombra del tempo finito

la foglia caduta e

marcita nell’acqua

era la notte chiara

o forse la notte sul mare

sereno, il silenzio

che apriva la visione

sul delta del fiume sul gelo

che lo stringeva,

era solo la tenebra

nuova dell’anima l’ora

peggiore per specchiarsi

nelle parole e piangere

 

ma tu

non lo sapevi non avresti 

potuto immaginare

il buio il silenzio l’insonnia

il vento che nega

perfino la preghiera

e spinge sabbia

e furia contro la porta

e strappa

il calendario dei giorni che mi restano

e affastella ricordi e rimpianti

e come fosse cera

che si scioglie come fosse

schiuma quest’era pallida

svanisce

a dispetto del dio che tutto

governa e tutto esige

mentre sui versi nevica    

 

(inedita)

venerdì 24 dicembre 2021

Francesco Dalessandro

 

ESILIO

 

 

Dove volate, rondini, nel sole

che si abbruna? con l’ansia sulle piume

nella luce matura dove andate?

quale assillo vi chiama dalle rame

dei pini dalle torri dei quartieri?

dove vi spinge a quale avara gioia

lontana l’aria fresca della sera

mentre salpa la nave del mio esilio?

 

Spiegami, luna, il cuore della notte

che mi sorprende qui e mi confina

che disegna visioni di deserti

o di tundre dell’anima o paludi,  

scendi sull’irrequieto mare nero

dove mi sbarca l’ira e dove mente

anche la verità quando la sorte

viene da un dio vendicativo e sordo

 

Sulle tue rive, mare, anche lo sbarco

di coloro che tornano è naufragio

e smemorante sonno che tu irato

levighi o sordamente avido abbracci

mentre chi sbarca vivo si tormenta

per tutto quel che s’è lasciato dietro        

per chi si è perso sciolto nel tuo sale

o stretto dai tuoi ghiacci senza fine                    

 

Sei dura, terra, e inospitale al cuore

di chi insonne ora scrive tristi versi

e li invia come rondini migranti

alla patria alla moglie ai pochi amici

lontani e indifferenti ai suoi lettori

futuri ora impensabili su questo

morto mare di ghiaccio destinato

d’imperio al suo dolore e al silenzio


(inedita)

 

 

mercoledì 22 dicembre 2021

Pere Gimferrer

 APPARIZIONI


VIII

 

Il querceto, il caprifoglio,

il cedro poderoso,

il lillà pechinese,

lo splendore violento dell’aconito in estate,

il roseto sotto il sole,

la nebbia rossa dei melograni,

il riverbero dello sguardo,

la chiesa delle mele verdi,

il colore delle canne al vento,

la parola del fango e del pantano,

il carrubo ardente,

calendula e begonia,

il garofano della luce più bianca,

i roveti,

il fiume che parla come muschio,

la pianta che parlando respira,

camminando in un silenzio fatto di vibrazioni,

avanzando nell’acqua,

come il vento,

quando il chiarore ci inebria e trasfigura,

fusi col rosso delle nubi,

tutto le lance distruggono:

lo steccato e il sentiero,

la pera azzurra sotto un cielo iridescente

quando annotta,

l’edera offuscata e tragica,

il pepe che si corrompe,

i crepuscoli d’acqua,

le lance distruggono tutto, sulle strade

risuona un cigolio aspro di ruote

di carrozze morte, di legname e carcasse,

odore di sandalo marcio,

lividore d’alberi saccheggiati,

lance di luce e d’oro,

saccheggio del pisello o del nespolo,

fulgore di selvaggina e vecchi fucili,

il padiglione di caccia,

un pergolato scuro,

il corpo di una donna che è un inferno di seta,

umido come le foglie bruciate

in un bosco a novembre quando la luce

ha il colore e il sapore della cenere

e dai tronchi trasudano resina e altri umori

che sanno di radici e di frutta marcita,

che hanno un gusto d’urina femminile,

calda e perlata come una notte d’ambra,

e il gusto dei ricordi dell’estate

quando le lance arano le stoppie dell’inverno.

 

Ieri ho visto un’apparizione:

di notte, sotto il portico, la regina dei campi

e dei frutteti, regina dei doni

e delle offerte. Quando l’equinozio

dissolve queste nebbie,

quando il raccolto è un fiume di pannocchie

e di sangue fruttescente,

quando la falce taglia l’aria liscia come un anello,

eccola, la regina

dei falò e dei cantoni;

regina delle ghirlande e della linfa,

del fiore e del frutto;

regina nuda come un fuoco fatuo

vestita col mantello imperiale dei boschi;

regina dell’acqua e dei tronchi,

invocata ai focolari con carbone e brace,

colei che, quando annotta, reclamano dai crocchi

quelli che sono ormai solo una voce nella notte.

Regina del tempo e dei dintorni,

ferita ardente

nella pelle viva del chiarore;

regina d’oro alle nozze degli alberi,

della luce che palpita nella grotta;

regina del canto intonato dai salici;

regina del seme di luce,

dell’olivo e delle voci della vite;

regina dello splendore del campanile,

sentita nel petto come un suono di campana

chiaro e luminoso che ricordiamo

quando il sonno spande vetri di tenebra.

 

Questo rumore, così tenue

da non essere un rumore,

morbido come pelle di magnolia;

questo chiarore opaco, qualcosa che dà un suono

profondo come l’ombra di un giardino,

qualcosa che ricordiamo dopo avere vissuto;

questo rumore che rischiara

e che ci fa più luminosi,

rumore di stagioni e oscurità,

ciò che forse saremo, rumore d’acqua morta,

d’occhi di donna quando albeggia,

dolci come una mandorla nel buio;

è il rumore del tuo ventre che tocca

le mie labbra, tiepido come profumo

di cannella respirata nella notte;

è la voce del mondo e dei raccolti,

i canestri della luce estiva e invernale,

il piombo dell’autunno, la primavera bianca,

i roveti ed il miele,

gli alberi di fico in fiore;

il rumore che ci ascolta se l’ascoltiamo,

come la terra o il nostro passato,

quel che ci darà un mondo di foreste,

di trasparenze e apparizioni;

è il rumore di questa vita che trema,

la fiamma oscura che ci portiamo in petto,

unico dono della vita, pallido

e fragile, che noi chiamiamo amore.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

 


lunedì 20 dicembre 2021

Pere Gimferrer

APPARIZIONI 


VII

 

Un tubare di colomba,

        un volo sull’acqua,

bianco volo di tunica invisibile,

e voci – «Ascolta! Cosa guardavi?

Dove vai?» –.

                           Un’aquila in un cielo

compatto come il porfido o la serenità.

«Allora? Che vuoi fare? Dài, vieni!»

                                                                  Non mi pesa

questo peso d’erba e fango, di tralci,

vendemmia calda e nera del campo assolato,

sedimenti di luce, come un bicchiere

da cui si versi un vino rosso troppo forte.

Non pesa il peso del mondo nello sguardo

né brusio di voci quando sui balconi

gocciala il fuoco del crepuscolo. Occhi

teneri, iris e narciso in una sala vuota,

in uno specchio offuscato da tempo.

Voci che risuonano in strada, negli orti,

nei solchi del campo dove le piogge

d’aprile lasciano acque addormentate.

Voci pure, inquiete, ansietà d’aria tiepida

sotto sciami di luce dal cielo primaverile,

azzurro intenso che uccide, bianco freddo che istilla

morte, come acqua di lillà nel sogno.

Voci in fondo al ricordo – «Su, avvicinati.» –

che di notte ci fanno aprire gli occhi

per vedere un teatro di neve disciolta,

o che, per strada, fanno alzare il capo

per guardare fulgori. Perché nell’aria

c’è un mormorio di dèi. Il fruscio chiaro

di foglie d’acqua e di rose sfogliate,

corpi bianchi, seni e ventri, il sospiro

d’un letto d’amore, bianco di nubi, vento

di colombe, un pigolio di luce nei saloni

e sulle vetrate. Un dio, forse più forte,

col tridente fiammeggiante del crepuscolo,

romperà il vetro della balaustrata

aprendo il notturno spettacolo dei giardini

e della villa alla livida paura del tempo.

Non ci saranno fuori e dentro: solo

paura e agitazione in uno specchio,

stanze deserte che vedono il loro timore

nel timore del giardino divoratore.

Voracità e panico: quando il dentro

e il fuori si osservano, in uno spazio

abolito, perché pensato a distanza,

perché ora lo vedremo nel riflesso.

Deprederò il giardino? E, depredato,

il giardino deprederà la casa? Unica legge

in un mondo d’immagini è la legge

dei riflessi: guardare è divorare,

ed essere guardato essere divorato.

Costringiti, guardando il tuo riflesso,

a divorarti, con la fame insaziata

dell’immagine che divora l’immagine.

A te, per dire «Io sono», per esistere,

non occorre vedere la tua immagine

negli occhi? E un riflesso ti divora.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

 

venerdì 17 dicembre 2021

Pere Gimferrer

 APPARIZIONI


VI

 

Parlare del fulgore senza centro,

del nostro centro. Anello di Saturno,

accerchia ciò che siamo: sbuffo di fumo e gas

compresso e dilatato, la pressione

dell’aria, nerume viola di vapori, l’affanno

di contorni soffocati dalla nebbia,

pietre angolari, stagni bianchi di schiuma,

acqua fangosa, torbida e sulfurea,

varchi in un cielo basso e tetro, 

nuvoli di fumo di una pentola bollente,

come un vaso nel forno o un ventre

a metà digestione, candore spogliato

da labbra dolci, fuoco di zucchero candito

sulla pelle, fuoco d’aria fumante

che consuma il colorito nocciola

del corpo, tiepido e occulto come fanali

d’acqua.

                Alzarsi, di notte, e vedere

la folgore bianca e rossa, cenerina

e azzurra, che urlando spopola le strade,

che percuote la città disfatta, spaventata

e livida, sciabolata che incendia le piazze,

lo sguardo della folgore nella luce

violetta dei portici, l’oro della folgore

che spoglia e veste i palazzi di velluto,

colonna di luce in un tempio di lecci

e folgori.

                 Niente è torbido. Il mondo

è più nitido se la notte dai vetri del balcone

dissolve il vapore, la nebbia che ci abitua

a vivere in essa, filamento fibroso

dell’essere sensibile. Non è il chiarore

il sentimento che ci domina: viviamo

rinfrescati da uno scampanio d’acqua,

bruciati come la seta ferita dagli spilli,

sparsi come l’ordito azzurro dell’inverno,

crepuscoli di vetro, emulsione di lastre

di fulgore convulso, luce di laboratorio

nera di sole e neve nella memoria.

Ricorderemo questo, della vita: il freddo

che faceva, le dita gelate, con un suono

liquido di campanelli, in un giorno

di neve, il gusto di stracci e salamoia

di un sesso oscuro in fondo a un magazzino,

le cosce nude come il salice notturno

e il dolce di un ventre di spuma;

o forse neanche questo. L’estate

ci sprona con ferri e frecce, con rossori

che cancellano il vetro della vista

temporale. Una notte di cemento

e di platani pioventi nelle tenebre:

il passato che scuote un polline d’ombre,

brusio d’alberi e ricordi sussurrati,

navi perdute, l’oriente, la voce di paesi

come bagliori d’onde. Così il ricordo

e il chiarore senza centro: non la luce

sentita, ma un peso di luce e d’acqua

nell’anima. Cosa palpita e parla

d’un desiderio fatto di mandorli,

della gioventù vestita d’alghe, della rosa

nera dell’adolescenza? Cosa parla

in modo da farci dire «Sono questo»?

Chi grida, chi ci conosce? Quale mormorio,

più pallido della pelle nella febbre

del piacere, più segreto del gioiello

nello scrigno? Quale notturno suonatore

davanti a un cielo di lacca e rumori?

Chi sa il nome della festa incendiata

da quell’amore passato, o di ciò che volevamo

diventare, cosa lacera, morta, svilita,

ma che ancora fa male? Chi pronuncia

il nostro nome? Senza freddo né paura,

davanti a un cielo stellato attendiamo

la morte come un’esplosione di luce

accecante o un’estate di violento

splendore, mentre uno scroscio sparge

il silenzio del paradiso.


Traduzione di Francesco Dalessandro

mercoledì 15 dicembre 2021

Pere Gimferrer

APPARIZIONI 


V

 

Il centro non conosce costrizioni:

è una fiammata davanti agli occhi,

un teso spazio bianco. Non abbaglia:

come il calore della brace che in mano

arde senza far male, come lo spirito del fuoco

sotto la cenere violacea del cielo.

Con gli occhi abituati ad essa, l’oscurità

è frescura di foglie, inverno di giardini:

il palmo d’una mano umida e vegetale

che ci fa da soffitto e da riparo,

silenzio di nuda pietra fatta splendore.

Tutto diventa luce: l’aria palpita

di lontani falò che rifrangono lampi.

Luce solida: calce, diamante e roccia.

Luce liquida: sabbia e sale sciolto.

Luce di zolfo: crepitio di fiamme,

nel ricordo. Rotazione del bianco

nella luce senza centro, perché il bianco

è il cuore del candore della luce.

Gli occhi bevono fuoco, cibo incandescente

che nutre il senso e che sa di cartone

bruciato, di stoppa e di fuliggine,

di terracotta, panni umidi, tende strinate,

di pietra e di niente, come l’aspro e scuro

pasto dei morti che bevono ombra.

Quelle gole vuote non smettono mai

di tracannare ombra, come un vino rosso

e denso di viti selvatiche, trangugiando

il succo torbido e nero dell’inesistenza,

divorando crude spezie piccanti, rottami

del tempo, brandelli d’iris e gelsomino,

pelle umana esposta all’aria, croste e bucce

che sanno di segatura, bocconi di carta

secca: i morti nutriti di soda e d’umori

notturni.

                  Divoreremo solo oscurità?

Solo buio nel buio? A noi, da vivi

non conviene altro cibo, e la bocca

ormai forse gradisce solo quello,

solo ombra per una bocca d’ombra

senza maschera e senza il condimento

stomachevole e osceno che vollero darci

e non chiedemmo. I sensi e il cuore sanno

che vogliamo solo gustare l’ombra.

In quale spazio mentale, dove vivono

i corpi degli amanti? Si congiungono

irrequieti, digrignando i denti, sbuffando

e nitrendo come cavalli in calore,

urlando o parlando a bassa voce,

ma sordi ciechi e muti; dai loro corpi

scaturiscono umori in un fluire

che non è più del mondo materiale

né della mente: quello che ci sfugge,

come l’ira o il languore, salato, denso,

fulgido, fumante come sterco fetido

che stordisce, non sono l’alcova

né vista né vissuta, quegli aspi, un respiro

da bocca a bocca, corpo che tormenta

un corpo, anche e braccia agitantesi

come un’anatra pazza che batta le ali

in un letto d’acqua e lenzuola, l’afrore,

la parola volgare, un rumore gutturale,

e la parola tenera, petalo offerto alla notte

conquistata dai corpi:

                                         tutto quello

che ci esalta e ci spoglia, che ci porta

lontano, in un deserto stellare,

in un campo di luce arida e fredda,

che ci fa sudare e gridare, che brucia

l’erba nera del pube e la peluria morbida

dell’ascella dal gusto dolce e forte,

che brucia i seni in un trionfo solare;

tutto questo, e una luce così forte

che non si può vederla, poiché siamo

noi stessi quella luce, è un gusto d'ombra,

l’assoluto che ci si offre, la fusione

con il pallido esaurirsi della notte.

 

Un chiarore purificato e dolce,

il palato asciutto e queste labbra

ancora umide di fiori e di saliva,

la stanza vista di traverso, girando il capo,

tutto è irreale, come se svegliandoci,

all’alba, scoprissimo ch’è un sogno:

qualcosa abbiamo visto, anzi, noi siamo

quel che abbiamo sentito, perché vedere,

sentire, e essere sono solo un anelito,

un suono fioco e lento di pioggia,

la pace dopo il grido, la luce giallina,

melma del sogno, neve sciolta

nel bianco profondo degli occhi,

un albeggiare sordo che è presagio

d’un vasto cielo opaco di luce smorta,

gusto d’ombra del ricordo, o nostalgia

per qualcosa di durevole, che resista

come polvere e roccia, come il fuoco

che vive solo quando è un fiammeggiare

vibrante e cieco, ardente nel biancore

vuoto del mondo. Senza costrizioni,

senza clamore, senza luce né colore,

né chiarità né buio: un bianco neutro

e puro, la bevanda degli dèi e dei morti.

E questo bianco è il cibo degli amanti:

la dolcezza dell’ombra che ci sporge

su un invisibile assoluto, ma visibile

all’anima, che ci scaglia nel vasto,

innevato e devastato campo di Venere,

giardino siderale, che sa di melagrana

e di tenera pesca, e sa dell’ombra

da cui nasce la vita. E noi sentiamo

tremare lo splendore del bianco

del passato profondo che fummo

e ancora ruota al fondo: il nostro centro,

un cielo solitario e luminoso.


Traduzione di Francesco Dalessandro

 

lunedì 13 dicembre 2021

Pere Gimferrer

APPARIZIONI 


IV

 

La sensazione dello spazio esterno,

di quel ch’è fuori dallo spazio in cui muoviamo

il nostro corpo e fuori dallo spazio

che ci racchiude. Non il vuoto del cielo

che riempie la memoria se chiudiamo

gli occhi né un’assenza impossibile di spazio,

con un vagare di corpi senza corpo

nel vasto vuoto. Non la mappa del nulla

né l’inutile lavagna d’una notte farinosa.

Non un vuoto mentale, pioggia lenta,

silenziosa nel buio, che ci addolcisce l’anima

inzuppata dal freddo e dai ricordi nebbiosi

d’un giardino morto, del cammino

dell’adolescenza, o d’ogni luogo che amore

o desiderio rivestono col bianco spettro

dello splendore. Non vuoto d’altri tempi

in uno spazio vuoto, né l’ombra dello spazio

o le sue immagini. Lo spazio esterno

non ha centro. Vivendo, a volte si sente

una ruota poderosa, un frastuono, un ansimare

di stantuffi, la notte che respira ferro e fumo,

la tensione degli assi che ci legano al nucleo,

radice dell’esistere. Come potremmo vivere

ignorando d’avere anche noi un centro?

È il regalo del sogno: minaccioso e raggiante,

come una perla nera, che alla vista è divina,

ma toccandola uccide. Il tatto non esiste,

nel sogno, e l’occhio forse, nel buio,

non vede niente. Il lucore della perla

è un fuoco invisibile al centro del mondo.

Il mondo senza centro ha un altro centro.

Il sogno placa le molle della vita,

sospese nella notte come i pistoni e i ganci

di una fabbrica vuota, nuda sotto le stelle.

Ma quella quiete è ascolto. Cessano le spinte

degli assi gravitanti verso il centro,

gli affetti umani, il ricordo, il disprezzo,

l’acqua scura dell’odio, il desiderio giallo

d’ansia, il piacere, balenio frenetico

nel letto degli amanti, e la nuda passione,

oscena zucca dagli occhi rossi, umori

e fiamma su lenzuola in tempesta, la paura

dal riso ripugnante, la tana dell’invidia,

e la pietà, giullare pallido della brutalità.

Tace anche l’io, chiacchierone e volubile,

gonfiato più d’un conto col frutto marcio

di qualche conoscenza, con lo studio scialbo

e con l’arido orgoglio. E questi impulsi,

senza centro né cardini, stridono girando

nel buio: giungeranno forse al silenzio totale.

Senza centro non vivono e la parola,

ora, non è sapere, volere, o desiderare,

ma solo esistere: come roccia o rovo,

come olivo afferrato alla pietra assetata,

come animale a cui basta il silenzio

conclusivo del mondo e beve la notte

come una brocca d’acqua fresca, sentendo

se stesso e il firmamento come unica parte

della vita che passa, paesaggio interiore,

culla del mondo. Qualcuno, o qualcosa

in noi, conosce questo centro. Sappiamo

la pietà delle tenebre e dell’acqua,

di quel che non vediamo e che ci sfugge

dalle mani per ritornare: il tempo, già vissuto

come memoria quand’è ancora presente.

Le immagini di ieri scoloriscono la tela

del tempo. Percezione del tempo vissuto:

riflessi del passato oscurano il presente,

sulla pelle del ricordo qualche macchia,

l’impressione di vivere qualcosa senza luce

né conoscenza nella confusione dell’istante.

Sogno è trovare un centro in questa vita

d’oscurità esteriore. Né attrazione,

né vincolo: distacco. Liberi dal senso,

fuori dal mondo, nel centro dell’essere,

che non è centro d’impulsi, ma fuoco vivo

e chiaro dell’assenza d’ogni costrizione.

Come chiudendo gli occhi, per esempio,

sfumano i contorni delle forme visibili,

e c’è un oscuro spazio di luce

immaginaria con forme non visibili,

immagini mentali senza peso né volume,

non oggetti o persone, niente che si possa

dire con parole concrete o concetti.

Come il sogno, anche l’ombra possiede

un suo centro, e possiede creature:

è un altro mondo, quieto e senza rumori,

calmo e lento come acqua che sgocciola

o il passaggio d’una nuvola biancastra.


Traduzione di Francesco Dalessandro