OGGETTO E CIRCOSTANZA
I
Avevo la simpatia di
pormi in un regno
che scompare. Sempre
lontano
dal vero dove poi le
presenze
ti respingono è una
voce così
vicina che sembra
tale. Dove
incontri è un
coricarsi e un
peso delle foglie
viste.
Io non avevo
dimestichezza
o densità o
coincidenza.
Se seminavo so anche
divorarne il vento,
sempre
quando le visioni
d'arte
sperdevano di tutto il
nostro.
Una notte d'inverno
invitava lentamente la
penombra
come un fanciullo
riconoscente
la sua ottima posizione.
Restarne
l'esistenza che poi
sconvolge
le porte, chiude le
fatiscenti
statue della luce ma
non
gli baratta un sogno
dall'opposto
scorrere del fiume.
Quasi nulla.
Io rigettavo il
proprio. Labbra
più veloci di me
accorrevano.
Era una figura
metafisica, con
prepotenza.
Io seppellivo la testa
che ritornava sempre.
Come
possono roteare di
cieli
e più elementi
l'infittirsi.
Io volevo più grazia e
quasi
supplicavo. Io volevo
soccorrere
e spiegarmi.
Mentre più luci
possono
illuminare, può che tu
ne vedi
la cornice d'un
paesaggio
e atmosfere tenere.
E cosa fondono questi
paraventi di cieli e
cosa
mandano e perché un
personaggio di me si
cullava
da dentro, quasi da
dentro
un mistero.
Era il silenzio stesso
a guardarmi e
divorarmi.
Io calpestavo nel
molle
ma ero benefico.
Aumentavo come
minimamente
le nubi convergenti.
Prima di ciò
avevo la facilità
d'esserci. Ora è come
da una finestra a metà
senza differenza ma
doverosa.
Grande maestà del
cielo è
solo una dimenticanza
non tutta a prenderla
solo per niente
poterne.
Era una dolcezza senza
merito
che dovevo proteggere.
Calmano d'ora in
fuoco,
scalano di porta e
bianche
ali, il senno di
domani.
È persa quella vicina
mischia
d'anni lo porgono e un
po'
meno del consenso.
Teneramente
la tua tacita
stanchezza.
Sommersioni a intero
vantaggio di notti.
Invitavo mute
conseguenze
e consegno chiavi
d'oro
in mani chiuse.
Corpo distende metà
anfore
di mare, seppellivi
dove
più si svuota il vero
un cumulo di
beatitudini.
II
Oasi marchiano queste
porte
e depositarie di cicli
deserti.
Carmi dell'opposto
albero
nubi fuori carminio
l'oscura
ventilando il denso
creato. Portato
è il tuo cosmo.
Dei tuoi occhi arenati
contro il fuoco. Di
sorgere
come la filante
equorea.
Erano i sensi errano
non presi
scavalcano dalle porte
l'interno
ed una pace è dargli
il doppio
dell'essere la propria
coincisa
forma e sentire o di
lei il corpo.
È messa a punto di
germi
a varie vicende fino
ad
un riposo. Si
contrariano
si incutono dell'uno
l'altro
e placano nel fermo ma
o possessi lontani o
stillano
il condono che
aspirano ed è
la somma loro del
prescindersi.
Perché non immaginano,
una polvere
bianca della densità è
discesa
una ferma nei marmi su
scale.
A vortice dei cieli è
il silenzio
dell'amore, così sempre
regge
il risveglio, la
verità.
Poiché con occhi molli
si confondono,
s'insinua
lo specchio delle
forze
e toccano l'acqua. In
uno
di questi sensi è la
cara
luce che distrugge.
Noi
uscendo e confusi
dall'alito
nei cerchi s'incarnano
come
spine
ma dentro una di esse
accatastano i vetri,
massimamente.
Io conto di non più
tornare. Quando più
non si ha
non si è forse persi
ma
ci si condona del
proprio,
nel vero senso. Io
pensavo
che già la fantasia,
per l'amore
mio, fosse tutto
perdere.
Poi ed è l'affanno
cadere nelle fitte
conchiglie
e risolversi, api e
magnificenza, un
altare
fermo in uno ma le
ferite un po' sparse
dappertutto.
Gli osanna, la
referenza, questo è il
mio paesaggio
che resta. I
grandissimi cieli,
le navi e il ventre
della mercanzia.
Ho da rifarmi
un'anima.
Quando scendono i geli
e dove vibrano.
Succede a lato d'un
capo
reclinano gocce,
scende come un cristallo
traspare. Come gli
amori
affondo accortano in
mezzo al buio.
Io non ho mai
incominciato a dire.
Se non la vanità. Io
attendo
una grazia e solo
questo
mi sento di dare.
Sono che apri i tuoi
sorrisi
sono le rose ma ad
vertici
altissimi è tutto o
niente e vive senza
tempo.
Come conche riempi
d'argento
con una grazia. Io
cammino
da solo e sogno
l'insostenibile
artefice che m'accompagno.
Io ricerco
dal miracolo
dell'armonia
quando mi
lasciasti
dalle ormai inutili
e supreme armonie per
raggiungermi con me in
te.
Poiché la sostanza
è fede nel bene. Io
non lascerei
da questo interregno
del
vuoto se non gli
stretti
fili che mi legavano.
Se non di reggerli
nella grazia
che li avviene. Nel
fuoco prima
che sorge e da sempre
se non
dal mio o la densità
lasciata,
dalle visioni d'ogni
cura da ciò vuoto che
li permea.
Io scompaio e tu ed
anche
scompaiono le voci che
più
sono e ciò che più resiste.
Nel ciò d'un lampo
inesistente che non
vedono
le creature perdersi
il canale morbido
della
luce. È così dalle
mani,
è il primo d'ora è
l'avanti
che salutano. È come
le sepolture
da una strada che si
abita.
Qui non si lega.
Ciò che non torna non
su di me
brace prendono fuoco.
Ma come si consuma di
dire,
ho da rifarmi.
Io con il vento
m'avvicinerei
al corpo delle tracce
e in calici distesi
nominerei
la creta infinita che
s'incurva
a rispecchiarti.
Ha un mattino delle
zolle
ancorato in fondo che
mani
divine toccano
l'acqua, uno specchio
di forze curve a
rimorchio
del tempo.
Ho voluto scagliare te
contro di qui per
esserti
viva, farne prova
nella vera
sorda musica parlante.
Come una strada
intorno
ai tronchi di ciò che
dire, era una
sensazione.
Scardina il grembo
delle navi la luce,
sfolta
ora nella quiete bassa
della marina, le corde
anfibiotiche che la
sospingono.
Essere è coincidere.
Feroce
starsene della parola
al proprio accento. Se
bocca a bocca, se
oggetto
e circostanza, essere
è teatro.
L'astuzia del fiore
insieme all'aria, il
bene di lei reciso.
Quanta pioggia è stata
detta. Avverrà che io
mi ristabilisca, il
silenzio
meditante della
pioggia.
Come ci ha inseguiti,
fin'oltre la
confluenza
in fiamme dei doveri.
Noi
trasposti ad ogni
lingua, un po' più
indietro
e più vicini a ciò
che ne sarà la resa.
Contenzione
delle bende azzurre
dove disciolto il capo
riga in fuga il vento
e le città.
Improbabile
doponotte che vi
estinguerà.
III
Non l'immaginario è il
paese.
Egli, nella densità
d'angelo,
scanala una città
dalle
altezze. Non fu
popolo, mai,
tra i serrami d'oro
delle
leggi, a seguito,
nella distesa.
Non sei solo a
scomparire. A parte
il genio. Accade
spesso che si diventi
neutri, se sostanziati
dalla luce, accade
sempre, lo spirito che
può darci, mentre
una cosa è fatta è
un'altra che compare.
Io dico l'essere, noi.
Tutto
l'immaginabile è
l'antichità.
Siedi e s'apre
un'astuzia
dello spirito, febbre,
oro. Esserti
più fedele d'una
immagine è questo
stesso disastro.
Coincidere ogni linea
del mare, in un
teatro. Ho stabilito
che non so dove mi ha
già portato
l'interminabile luogo
del suo eccesso.
Non potenza che
comunica, non
l'immaginario, la
sterile pietà del genio.
La polis mimica dei
tuoi mali
è la densità, la
cecità.
Nessuna indagine spaziale
rapisce il genio che
ne risponde.
Che ti segue, sbendato
spettro
d'ogni vento che ha
contrariato
una tessitura. Esilità
del tuo.
Su queste ragioni il
cielo non ha
ragione di morirvi.
È lontananza tutta,
una differenza
chiusa di lei, che più
non dice.
Incombe grondaia e
paradiso
nel nido.
Accumulazioni
che da un giorno
scompaiono.
L'innocenza, desidera
trascinanti echi
dopotutto. Hai
paura che da sotto, da
un cielo
ti si pone addio.
Colmano d'ore,
prospera divino
morbido le nuvole
acconsentono uno
specchio, e
o dolore o sfrenata.
Calpesta e corre
e ricordandosi a
qualcuno insieme.
È l'abbandono. E se
bene
risolleva il guasto e
se un dio
unico ci traspone.
Quell'appartenenza
che coincideva. Dopo
una figura,
ecco precipitare.
Tu metti trascorsi in
testa. Tu lasci.
Risparmiano quei fiori
smutano
anche onde del mare
dove
passarono. Quei
cristalli sono.
Nel senso dell'armonia
tu
fantastichi.
Che mani in vece tua
giungerebbero
ad un fondo.
Come ti dai anche a
noi
nel durevole della
sabbia
che risplendi.
Chiaro dall'origine
sua
all'identica fine.
da Oggetto e circostanza, raccolta inedita di prossima pubblicazione.
Nessun commento:
Posta un commento