lunedì 30 luglio 2012
Marsden Hartley
PACCO-SORPRESA
La mia giovinezza venne a me
molto dopo il giusto tempo;
io ero un vecchio
di ventidue anni,
l’infanzia essendo terribilmente vera.
Venne la giovinezza insieme all’alta
marea
col gonfiarsi del mare,
quando cose ed oggetti
moltiplicano le loro bellezze.
Tutto parve meraviglioso.
Io non invecchierò mai più,
dicevo –
o un’intima voce diceva:
Tu non invecchierai mai più.
E lo credetti certo.
Io scalai la montagna,
ne sfidai le vette e l’aspetto
delle cose che le sovrastano;
tutto ora è come un libro
consumato dall’uso,
la copia squinternata dell’Ossian
che tengo con la sinistra.
Tutto questo ho compreso
e compresi;
e mi fece bene sapere
che tutto questo lo amo.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da Selected Poems by Marsden Hartley, The Viking Press, 1945
Marsden Hartley (Lewiston, Maine, 1877 – Ellsworth, Maine, 1943) fu pittore e poeta. Dipinse circa un migliaio di quadri e, alla sua morte, lasciò più di cinquecento poesie manoscritte, in aggiunta a tre piccoli volumi pubblicati in vita.
venerdì 27 luglio 2012
Francesco Dalessandro
PAPÀ
I
Era forse una sera lontanissima
di gennaio del settanta, papà aveva
deciso di accompagnarmi in caserma
con la vecchia 600 perché s’era
fatto tardi e faceva molto freddo.
Era la prima volta che salivo
in macchina con lui. Papà non era
un guidatore esperto: dava gas
in maniera esagerata e il motore
andando su di giri ne soffriva.
Io soffrivo per lui: guidava teso
e silenzioso nel traffico serale
guardando avanti ma così indeciso
e insicuro non l’avevo mai visto.
Faceva male vederlo così chiuso
nel suo silenzio e standogli seduto
accanto non potergli dare aiuto,
perciò puntando i piedi sul pianale
e tenendo il cappello tra le mani
come stringessi un altro volante
ne assecondavo le incerte manovre
di guida ma provando un disagio
lieve sottile (forse papà credette
fosse paura) che si sciolse solo
quando scesi davanti alla caserma
e lui alla scarsa luce dalla macchina
mi sorrise. Lo vidi ripartire
prendendo una curva troppo larga.
II
Quando presi la patente perché ero
innamorato, i primi tempi anch’io
ero insicuro nel traffico e guidavo
teso come papà la stessa vecchia
600. Ma anni dopo l’incidente
fu con la 127 nuova.
Quando papà arrivò al pronto soccorso
ero seduto su una sedia a rotelle:
domandò come stavo e rinfrancato
da un mio mezzo sorriso mi posò
la mano sulla spalla, senza dire
o fare altro. Di quella discrezione
da uomo gli fui grato. Da ragazzo
m’avrebbe forse stretto tra le braccia…
Ricordo alcune volte che mi tenne
per la mano facendomi da guida
o per darmi conforto. Ma ricordo –
e oggi dopo dieci anni è un dolore
misurato e composto, ma costante –
anche l’unica volta che io tenni
la sua… Non so nemmeno se capiva
che ero io vicino al letto seduto
in extremis – mentre una tenue spera
di sole penetrava in quella stanza
d’ospedale fra i tagli della persiana
e alla fine di un giorno di febbrili
cure scaldava la sua mano pallida
afferrata alla mia – colpevolmente
a dirgli “papà, sono venuto, sono io,
resisti!”
Da Lezioni di respiro, Il Labirinto, 2003
mercoledì 25 luglio 2012
Kenneth Rexroth
VERSO UNA FILOSOFIA ORGANICA
Primavera, Coast Range
Il mio fuoco da campo dà rossi, cupi bagliori
senza fiamma, e intorno ad esso s’allarga
il cerchio bianco della cenere. Mi alzo
e m’allontano sotto la luna; ogni volta che mi giro
è più profondo quel rosso, più piccola la luce.
Lo Scorpione sorge tardi insieme a Marte
preso nelle sue chele; la luna è apparsa prima,
la luce come un coro di bambini tra giovani allori.
È aprile, l’alosa testa calda risale i fiumi;
nei canyon umidi, il trillium; la lingua
di una fetida vipera penzola accanto alla cascata.
Una volta in questo campeggio c’era una fattoria,
ormai praticamente sparita. E pecore, dopo la fattoria.
Il fuoco tempo fa bruciò le sequoie della gola,
e l’abete Douglas oltre la cresta;
oggi il terreno è pietroso e sconnesso, le piccole pietre
sono lastre appiattite in superficie come squame.
Vent’anni fa allargandosi il burrone
rovesciò la grande quercia addosso alla casa.
Ora non c’è più nulla, solo le fondamenta
coperte dalla quercia velenosa, e sopra, sul crinale,
sei solitari, minacciosi paletti di recinzione;
le travi di sequoia del granaio fanno una passerella
sul letto profondo ma asciutto del torrente;
la secca e bianca avena selvatica, d’estate copre le colline.
Cammino sugli sparsi resti del frutteto.
In un fazzoletto di luce lunare una talpa
scuote la sua galleria come un nervo infiammato;
Orione avanza immerso fino alla cinta nella nebbia che arriva
dall’oceano; il Leone si acquatta sotto lo zenit.
Già ci sono minuscoli frutti duri sugli alberi di prugne.
Incredibile purezza dei fiori di melo.
Quando il vento si placa, la loro fragranza
li avvolge come fumo denso.
Riecheggiano tutto il giorno del ronzio delle api,
ma sotto la luna sono muti e immacolati.
Primavera, Sierra Nevada
Lo Scorpione dorato s’incendia di nuovo sul valico
sopra Deadman Canyon, ordinato e brillante,
come un’ispirazione nel cervello di Archimede.
Ho visto la sua luce sul mare caldo,
sulle spiagge di cocco, fosforescente e pulsante;
la luce vivente fremere nell’acqua
e allontanarsi dalla mano che nuota,
scivolare sulle labbra, riempire i capelli galleggianti.
Qui, dov’erano ghiacciai e la neve dura a lungo,
la pietra è pulita come luce, la luce salda come pietra.
La relazione fra pietra, ghiaccio e stelle è regolare e duratura:
il nuovo emerge dopo secoli, schegge di roccia dai dirupi,
il ghiacciaio si ritira e diventa più grigio,
il torrente taglia il prato con nuove serpentine,
il sole attraversa lo spazio e la terra con esso,
Le stelle cambiano posto.
La neve è durata più a lungo
di quanto si ricordi, quest’anno. Il prato più basso
è un lago, gli altri due sono nevai, il passo è coperto di neve,
solo le rocce più ripide restano scoperte. Tra il passo
e l’ultimo prato il nevaio si spalanca per un centinaio
di piedi, in uno stretto abisso azzurro dove scende
luccicando una cascata nel tramonto al suo culmine,
nera e robusta dove scompare di nuovo nella neve.
Il mondo è pieno di correnti nascoste
che battono le orecchie come l’etere;
aghi di granito escono dalla neve, pallidi come acciaio;
sulla miniera di rame la scogliera è rosso sangue,
la neve candida s’apre al bordo di essa;
il cielo si avvicina ai miei occhi come gli occhi
azzurri di qualcuno baciato nel sonno.
Scendo al campo,
alle giovani foglie di pioppo, rugose e appiccicose,
alle prime violette e ai ciclamini selvatici,
e preparo la cena nell’azzurro crepuscolo.
Tutta la notte i cervi pestano la neve con i loro
zoccoli affilati e al buio i musi freddi trovano l’erba
nuova ai margini della neve.
Autunno, Sierra Nevada
Stamattina, a colazione non c’era il tordo eremita,
al suo posto una famiglia di capinere;
a mezzogiorno uno stormo di colibrì è passato a sud,
vorticando alto nel vento sulla sella fra il Ritter
e il Banner, seguendo una linea di migrazione
verso sud, dalla cresta della Sierra al Guatemala.
Per tutto il giorno ombre di nuvole si sono mosse
in faccia alla montagna, e l’ombra di un’aquila reale
s’intrecciava con esse in faccia al ghiacciaio.
Al tramonto la mezzaluna corre sulla schiena curva
dello Scorpione, l’Orsa Maggiore s’inginocchia
sulla montagna. Dieci gradi sotto la luna,
Venere scende nella foschia che sale dalla Great Valley.
Giove sorge dai picchi incendiati dal bagliore
riflesso dal sole all’opposto. Il verso da ventriloguo
di un gufo si mischia allo scampanio della cascata.
Col vento da oriente viene un tuono lontano.
La parete orientale della montagna sopra di me
s’accende con lampi lontani e sul passo
il cielo divampa in un attimo come un’aurora.
C’è una tempesta sulle White Mountains,
su quei quattordicimila piedi d’aridi picchi;
e sta piovendo sulle strette, grigie catene montuose,
sui prati scuri di carice e le bianche saline del Nevada.
Appena prima che cali la luna una densa, piccola nube,
scintillante come un grappolo di metallo,
si sposta sulla cresta della Sierra e s’allunga sul pendio di ponente.
Il gelo, che ha colore e qualità di nuvola,
copre tutta la palude sotto il mio campeggio.
I cespi pungenti dei pini nani dalla bianca corteccia
sono fumosi e indistinti al chiar di luna,
solo le ombre ne sono davvero visibili.
Il lago è fermo e senza un fremito trattiene
nelle sue profondità stelle e picchi. In superficie,
geometrici riccioli di ghiaccio dispiegano la loro
meravigliosa matematica in silenzio. Nella notte,
per un istante, quando entrano nel raggio
di luce del fuoco, gli occhi del daino brillano.
Al mattino la pista sarà simile a un tratturo
e le tracce punteranno tutte giù, verso il canyon più basso.
«Perciò», dice Tyndall, «le preoccupazioni di questo piccolo posto
sono modificate e modellate dall’inclinazione dell’asse terrestre,
dalla catena di dipendenza che percorre il creato
e lega la rotazione di un pianeta insieme agli interessi
d’uomini e marmotte».
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
lunedì 23 luglio 2012
Libero De Libero
GIROTONDO
Anche
gli altri se n’andarono in furia,
sfasciando
l’orto e schiantando cancelli
mancò
il tempo all’ultimo respiro
e
le domande restarono mute.
Forse
assenti per le villeggiature
chissà
se ospiti in ville delicate
impediti
soltanto di tornare
per
l’indirizzo smarrito viaggiando.
Oh,
attendono l’ordine di partire
per
un paese di corone marce
e
la paura d’essere ingannati
chi
qua e chi là in eterno separati
li
stringe alle mani del girotondo
forse
allegri d’una sorte contumace.
Non
ha fretta chi rimanda il finale
giudizio
non ancora firmato,
lassù
gli inchiostri non bastano mai.
Da
Almanacco
della Cometa - “Un’idea degli anni Ottanta”,
a cura di Giuseppe Appella e Paolo Mauri, Edizioni della Cometa, 1989
venerdì 20 luglio 2012
Emily Dickinson
ESULTANZA È L’ANDARE
Esultanza è l’andare
di un’anima di terra verso il mare,
oltre le case, oltre i promontori –
dentro l’eternità profonda –
Quanto noi, stirpe dei monti,
può capire il marinaio
la divina ubriacatura
del primo miglio al largo della sponda?
Traduzione di Silvia Bre
da Centoquattro poesie, Einaudi, 2011
mercoledì 18 luglio 2012
Vittorio Bodini
I PINI DELLA SALARIA
Attento. Ogni poesia
può esser l’ultima.
Le parole s’ammùtinano.
Comincia un insolito modo
con le cose di guardarsi
d’intendersi
scavalcando le parole
in una vile dolcezza.
Ahi, e avevo un cuore
che voleva abbaiare
tutte le notti
alla luna e alle pietre.
Sì, i cappellini d’edera
dei lampioni notturni,
le coppie che s’abbracciano
nelle macchine ferme...
Che posto troverò per voi
nella memoria,
per voi e per le colme cupole
che ammaìna Roma nell'ombra?
I pini della Salaria
non hanno pigne
da far scoppiare al fuoco,
pigne calde da mettere
nel cavo petto dei morti.
Da Tutte le poesie, Besa, 2004
lunedì 16 luglio 2012
Charles Baudelaire
RACCOJIMENTO
Bono, dolore mio, fatte capace.
Volevi la sera: scenne, sta qua;
a chi je porta affanni e a chi la pace,
n’ariaccia scura copre la città.
Mentre er piacere, bojaccia feroce,
sferza er monno a la festa eppoi je fa
ariccoje a tutti er rimorso atroce,
dolore mio, damme la mano e sta-
moje a la larga. Vedi, ne li panni
logri, a le logge in celo tutti l’anni
annati; vedi er rimpianto ridente
sortì dall’acqua, e giù, sotto la schina
de ’n arco, dormì er sole. Se stracina
come un lenzolo nero, a l’oriente,
la notte. Nu’ la senti che cammina?
Traduzione in versi romaneschi di Francesco Dalessandro
da Romanesca* - Voci e visioni di Roma, Il Labirinto, 2011
*"Romanesca", una manifestazione curata da Francesco Dalessandro e da Giuseppe Salvatori, svoltasi in tre momenti distinti fra giugno 2010 e aprile 2011 presso la Casa delle Letterature di Roma, presentò ventisette poeti e ventisette artisti a confronto nel nome di Roma. Con i testi dei poeti e la riproduzione delle opere degli artisti fu stampato anche il libro dal quale è tratta la traduzione del famoso sonetto di Baudelaire in versi romaneschi qui riproposta.
venerdì 13 luglio 2012
Francesco Tentori
PER LINA CHE LEGGE UN POETA A ME CARO
Presa anche tu, persa anche tu nel vortice
calmo di quell’ebbrezza che congiunge
in un solo sigillo di pietà
l’esile infanzia e quanto dovrà nascere.
E ti sarai smarrita sui sentieri
sospesi tra il vapore delle valli
e l’orizzonte svelato dal lampo.
Viola, di perla il cielo trascolora
alle note del flauto intenerente
il puro paesaggio disegnato
dalla voce che l’evoca. E l’ansia
contagia d’una febbre dolorosa
chi ne percorre i simboli, mutato
nel viandante che dal folto dei versi
sale alla luce dei poggi, scandaglia
aurora e notti, dubita ai crocicchi,
chiede alle ombre il conforto d’un fuoco.
Da Il segreto degli specchi – Poesie 1949 – 1994, Ged – Biblioteca di Ciminiera, 2005
mercoledì 11 luglio 2012
Rosangela Zoppi
L’IMBIANCHINO
Sopr’a un’imparcatura,
fra er cemento e la carce,
un imbianchino canta addosso ar vento.
Ma la Commare,
che ha già sentito quarche stonatura,
je porta la battuta der sorgeffio,
arzanno inzù la farce
e sbattennola a tempo
su le sbare de fero der ponteggio.
Da ’Na viola ner penziero, Zone Editrice, 2009
lunedì 9 luglio 2012
Franco Fortini
UEBER ALLEN GIPFELN
(da Goethe, Wanderers Nachtlied)
Quiete tutte le cime.
Su tutte le rame alte
appena un fiato.
Muti i piccoli uccelli del bosco.
Fra poco, guarda
requie anche per te.
da Poesie inedite, Einaudi, 1997
(da Goethe, Wanderers Nachtlied)
Quiete tutte le cime.
Su tutte le rame alte
appena un fiato.
Muti i piccoli uccelli del bosco.
Fra poco, guarda
requie anche per te.
da Poesie inedite, Einaudi, 1997
venerdì 6 luglio 2012
Eloy Sánchez Rosillo
LE
PAROLE
Hai
soltanto parole ed è con esse
che
devi dire il mondo, l’infinita
varietà
delle cose.
È
necessario
il
caso al tuo destino, e queste stelle
all’amore
per compiersi.
Nelle
ore
più
belle, piene, nel magico incontro
quando
su un foglio fa cadere il cielo
i
suoi segni, i lamenti della voce
sfumano
nel silenzio.
Un
calmo mare
porta
a riva la musica ascoltata,
o
l’eco viva. Sulla spiaggia le onde
si
rallegrano, l’essere si mostra
e
nel tuo verso il fuggitivo istante
brilla
per sempre.
Eloy
Sánchez Rosillo, Las
cosas como fueron,
Tusquets Editores, 2004
mercoledì 4 luglio 2012
Tommaso Campanella
MURO NOIOSO
Parve a me troppo, ma alla cortesia
di lei fu poco, in sogno consolarmi;
onde volle anco vigilando darmi
quel ben che sopra gli altri si desia.
Sì che, mancando ogni consiglio e via,
io stando dentro agli ferrati marmi,
ella fuori, d’amor prendemmo l’armi.
Alta dolcezza entrambi ne assorbìa.
– L’orto ameno – dissi io; ella: - La chiave
dammi, cor mio; – e tal gioia n’avvinse,
che ’l morir ci parea bello e soave.
Quando l’alme trasfuse risospinse
muro interposto, ah ben noioso e grave!
che amor soverchio in tutto non ci estinse.
Da Poesie, a cura di Giovanni Gentile, Sansoni, 1938
lunedì 2 luglio 2012
Jaime Siles
VARIAZIONE BAROCCA SU UN TEMA DI LUCREZTO
I
In una notte diventiamo vecchi
e, svegliandoci al mondo, la mattina
nella luce del vetro scaraventa
su di noi, come insulti, i suoi riflessi.
I nostri occhi nell’acqua sono specchi
della memoria piena di semenza
grigia, ed ormai cadente la parola
ci consegna i suoi accenti circonflessi.
Nel lavandino delle ore lavo
la ruggine dei giorni. Sopra il corpo
le settimane spalmano la calce;
china l’ombra degli anni; sconosciuta
l’intelligenza delle cose vane:
il lavabo, il sapone, il rubinetto.
II
Il lavabo, il sapone, il rubinetto
anticipano la suprema scienza
del vivere: guardare alla finestra,
vedere quante cose al giorno lavo.
Un fulgore di linee, rossi laghi,
un bicchierino, un libro, una mattina
di un altro volto che vede affacciarsi
lo stesso grigio del suo aspetto vago
mi dicono che accenti circonflessi,
grigie aurore dei giorni, ombre carminio
gli specchi immobilizzano; che siamo
solamente il rumore dei riflessi
delle ore, di giorni e settimane
e che una notte diventiamo vecchi.
Traduzione di Emilio Coco
Da Poeti spagnoli contemporanei, Edizioni dell’Orso, 2008
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