A
FRANCESCO DALESSANDRO
Questa
piazza grande
dove
l’annata si fa
più
querula ai partenti
e
più insieme che altrove
s’uniscono
gli uccelli migratori
ai
misteri d’Egitto,
saputo
infine lo scacco
che
alla mancanza d’ali
non
supplisce l’immaginario, né,
a
questo, dei versi o un amore
cui
dedicarli;
la
grande piazza,
che
oggi aduna la metà forse
dell’intero
volare
che
c’era ieri,
è
meno spazio che tempo.
Ho
amato la mia città. Il sacro
odio
d’esservi
vittima e complice
non
la tocca.
Gli
ultimi anni di storia
non
li ho capiti.
Tra
ceffi furenti e astuti, cui
è
disdetta l’inutile, il bello
che
non ripaga, il vero che turba,
mi
spetta una morale decrepita,
un’arte
maligna m’innamora
dei
vecchi intolleranti
–
occhi vitrei, non numerosi –
che
si son dati convegno
qui
nell’alberata, alla seconda
o
terza tramontana d’avvertimento,
per
riascoltare astanti, giusto
chi
va e chi resta,
quest’ennesimo
canto
pagano.
Chi
ha perso cuore in un viaggio
brevissimo
e decisivo, poi delirando
s’appaga,
autunno dopo autunno,
a
un vero volo d’uccello
per
anima dedicata.
Le
religioni consolatorie
non
inventano amori come questo:
i
mari, i cieli, il quarto
Sahara
che s’avvista,
insieme
e per sempre;
né
l’inferno dell’infreddata,
che
t’inchioda al crepuscolo, quando
giovani
ali ti lasciano una volta
per
tutte a terra, solo,
sgomberato
dalla morte.
Qui
bisogna parlare chiaro, fingere.
Non
ho il coraggio
di
vivere tutta la vita,
di
morire tutta la morte
nel
momento della partenza.
Prima
dell’ultimo baccano evado
infamato
dal serraglio e sturo
in
via Nazionale; non ho avuto
parole
di potenza per i vecchi
rimasti,
non ho amore per me.
Il quinto
tramonto
che ricordo così diritto
in
fondo, sulla Colonna Traiana,
è
sul sepolcro di Bìbulo. In ore
come
queste Epicuro apriva
il
giardino agli amici, e non
se
ne vantava: semplicemente
era
lieto.
Dove
posso andare fra queste donne
enormi
nelle pellicce, dove la luce
dalle
vetrine è materia, dove
il
desiderio è materia,
dove
l’amicitia, il cor gentile
là
sulla Torre delle Milizie,
tutto
è materia, Checco, ma non
così
com’era allora e per
contrario
che già sapevano,
e
c’era un vuoto pneumatico
tra
i pensieri che lo creavano,
in
un’Attica sospesa
fra
Jonio e Egeo
come
nuvola leggera
da
parole purissime.
Tra
i sei
e
i settecento metri d’altezza,
gli
uccelli che vanno via
formano
e sfanno figure geometriche,
poligoni
nella sera
che
si fa fredda, oscena
tana
di pipistrelli.
Da Indagini sul crollo, Edizioni del Leone,
1989
Caro Francesco, letti su una penisola irlandese questi versi competono con i venti dell'Atlantico.
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