venerdì 14 agosto 2015

Alessandro Ricci

A FRANCESCO DALESSANDRO

Questa piazza grande
dove l’annata si fa
più querula ai partenti
e più insieme che altrove
s’uniscono gli uccelli migratori
ai misteri d’Egitto,
saputo infine lo scacco
che alla mancanza d’ali
non supplisce l’immaginario, né,
a questo, dei versi o un amore
cui dedicarli;
la grande piazza,
che oggi aduna la metà forse
dell’intero volare
che c’era ieri,
è meno spazio che tempo.

Ho amato la mia città. Il sacro
odio
d’esservi vittima e complice
non la tocca.

Gli ultimi anni di storia
non li ho capiti.

Tra ceffi furenti e astuti, cui
è disdetta l’inutile, il bello
che non ripaga, il vero che turba,
mi spetta una morale decrepita,
un’arte maligna m’innamora
dei vecchi intolleranti
– occhi vitrei, non numerosi –
che si son dati convegno
qui nell’alberata, alla seconda
o terza tramontana d’avvertimento,
per riascoltare astanti, giusto
chi va e chi resta,
quest’ennesimo
canto pagano.

Chi ha perso cuore in un viaggio
brevissimo e decisivo, poi delirando
s’appaga, autunno dopo autunno,
a un vero volo d’uccello
per anima dedicata.

Le religioni consolatorie
non inventano amori come questo:
i mari, i cieli, il quarto
Sahara che s’avvista,
insieme e per sempre;
né l’inferno dell’infreddata,
che t’inchioda al crepuscolo, quando
giovani ali ti lasciano una volta
per tutte a terra, solo,
sgomberato dalla morte.

Qui bisogna parlare chiaro, fingere.

Non ho il coraggio
di vivere tutta la vita,
di morire tutta la morte
nel momento della partenza.

Prima dell’ultimo baccano evado
infamato dal serraglio e sturo
in via Nazionale; non ho avuto
parole di potenza per i vecchi
rimasti, non ho amore per me.
                                                 Il quinto
tramonto che ricordo così diritto
in fondo, sulla Colonna Traiana,
è sul sepolcro di Bìbulo. In ore
come queste Epicuro apriva
il giardino agli amici, e non
se ne vantava: semplicemente
era lieto.

Dove posso andare fra queste donne
enormi nelle pellicce, dove la luce
dalle vetrine è materia, dove
il desiderio è materia,
dove l’amicitia, il cor gentile
là sulla Torre delle Milizie,
tutto è materia, Checco, ma non
così com’era allora e per
contrario che già sapevano,
e c’era un vuoto pneumatico
tra i pensieri che lo creavano,
in un’Attica sospesa
fra Jonio e Egeo
come nuvola leggera
da parole purissime.

Tra i sei
e i settecento metri d’altezza,
gli uccelli che vanno via
formano e sfanno figure geometriche,
poligoni nella sera
che si fa fredda, oscena
tana di pipistrelli.

Da Indagini sul crollo, Edizioni del Leone, 1989


1 commento:

  1. Caro Francesco, letti su una penisola irlandese questi versi competono con i venti dell'Atlantico.

    RispondiElimina