I
Le strade sono lì per stordire i perdenti,
non c’è materiale da calpestare che possa
rendere leggero l’esercizio di movenze
caparbie come i giudizi rimuginati, svelte
alla ricerca di soluzioni effimere, e automatiche:
perché camminare senza meta non richiede
l’agire conveniente dei percorsi premeditati.
II
Quello che conta, per chi come me non indulge
ai propri demeriti e ne scolpisce l’anacronismo
su qualunque selciato, è il ritmo dei passi
estraniato dal resto della baraonda, è lo sguardo
che capta – nella folla instabile – pregi e difetti
di vincitori inventati , è la misura della distanza
da loro che ebbero sorti prodighe, o ne avranno.
III
Il mio cammino è obbligato, introspezione
visionaria di uno sconfitto che segue un rettilineo
infinito, tra palazzi di scena e quinte semoventi,
con la frenesia incalzante presàga di carenze.
Niente induce a dosare lo sforzo; la spinta
inconsulta dopo un po’ sfianca e trasforma
un esperimento privato in ebbrezza malata.
IV
Una traversa introdurrebbe l’assunto che a tutto
c’è rimedio. Dove porta? Quali prospettive
ignote collega? Svoltarvi sarebbe una licenza
opportuna. Oltre, salite e discese si alternerebbero
cambiando il ritmo di marcia. Avrei il tempo
di distinguere meglio, nel riepilogo di reclami
incauti, se vi fu l’occasione favorevole.
V
Ma le mie strade sono invisibili e non hanno
scorciatoie, non regalano il sollievo di deviazioni
brevi, o di espedienti che riducano la fatica
del tragitto simulato. Chi perde lo sa. Si prosegue
a diritto con la stessa estraniazione – cadenzata –
dei gesti avulsi dalla trama. Si compongono
sillogismi volatili solo ad uso di sé.
Giugno 2015
(inedita)