venerdì 30 dicembre 2016

Eugenio Montale

PER FINIRE

Raccomando ai miei posteri
(se ne saranno) in sede letteraria,
il che resta improbabile, di fare
un bel falò di tutto che riguardi
la mia vita, i miei fatti, i miei nonfatti.
Non sono un Leopardi, lascio poco da ardere
ed è già troppo vivere in percentuale.
Vissi al cinque per cento, non aumentate
la dose. Troppo spesso invece piove
sul bagnato.

da Diario del ’71 e del ’72, Mondadori, 1973.



mercoledì 28 dicembre 2016

Salvatore Quasimodo

S’ODE ANCORA IL MARE

Già da più notti s’ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d’una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo dei gabbiani; forse
d’uccelli delle torri, che l’aprile
sospinge verso la pianura. Già
m’eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un’eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.



lunedì 26 dicembre 2016

Giuseppe Ungaretti

LA MADRE

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: «Mio Dio, eccomi».

E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.



venerdì 23 dicembre 2016

Alessandro Ricci

MARE D’ARAL  


Una carretta dei laghi gonfia reclina relitta
s’una riarsa duna stata una sirte un tempo:
la tua solita tresca di compassione s’inganna
se la speri soltanto ferita:
quella nave non sta morendo,
è morta male.
                       I lenti convogli, le pigre carovane
che in turni sempre più rari, più avviliti che
usuali, trascinano merci già logore
su claudicanti tratturi, l’hanno
ormai traghettata, ma non
a riva: dalla disattenzione
all’oblio.
                Così,
dal tuo sporco orlo ritratto, giallo
d’un giallo livido, tra le vampe esalate
traspare il suo unico squillo,
la ruggine del suo colore.
                                              Da lì,
dove la vedi a tratti in mezzo al sale
che sale, t’accade una voglia dolorosa
di misurare, e frughi nella distanza
altri più antichi, più lontani relitti
al largo di sabbia o del nulla: malfermi
puntini neri, che gli occhi miopi         
consentono solo
di travedere ma tutto
il tempo a ritroso e la moltiplicazione,
la fuga degli spazi
svelano come chiari verdetti: che tocca
chiudere il conto, d’ora all’indietro, anno
dopo anno, fino al comune
momento del varo, in qualche arso
cantiere uzbeco o sotto una fosca
luce d’oltraggio: una superstite
lampada cuneese.
                             Come là
giù le chiglie sventrate dalle dune
che le divorano: la prima, le ultime
ed altre ancora – chi sa? fino
alla fine del suono –, in un’inospite Scizia dove
per suono dicono ronzio del deserto che avanza,
per vita sgomento per la vita che manca,
ma non lo vedi? hai ficcato i piedi in uno stesso
marcio arenile, e l’intera memoria
senza pietà.
                      Terra, terre di sterro, bruciori, odori
sturati in roghi fulminei
o fatui, ma è
un’unica pressa, un unico spasmo: lagune e silenzi
di sabba schiacciati, di
tempo e orizzonte avvitati:
un calibro solo,
una ferita enorme,
albume abbacinato, cenere sparsa,
macchia, poi più
nient’altro che orma,                                                    limo, com’è naturale
che sia.

da I cavalli del nemico, Il Labirinto, 2004

mercoledì 21 dicembre 2016

Roberto Coppini

DALLA CROCE

«Gèttati fuori, irradia
l’oscurità della talpa,
libera la caviglia
dall’intralcio, resuscita l’insonnia,
ricomincia dalla croce o dalla vergogna».

Un foro attraversa la terra
arancia che impernio
tra le dita
planetario dei giorni.

Dopo la pioggia
la chiocciola riga la terra.


20 maggio 1968

Da Swimming pool, Edizioni Barbablù 1968

lunedì 19 dicembre 2016

Beppe Salvia

ABBIAMO NEL CUORE

Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva                      
su cui sassi e rovi e il solitario
esquisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.

da Un solitario amore, Fandango Libri, 2006


venerdì 16 dicembre 2016

Zbigniew Herbert

IL SIGNOR COGITO MEDITA SULLA SOFFERENZA

Tutti i tentativi di allontanare
il cosiddetto calice amaro –
con la riflessione
l’impegno frenetico a favore dei gatti randagi
gli esercizi di respirazione
la religione –
sono falliti

bisogna accettare
chinare mitemente il capo
non torcersi le mani
ricorrere alla sofferenza con misura e dolcezza
come a una protesi
senza falso pudore
ma anche senza inutile orgoglio

non sventolare il moncherino
sulle teste degli altri
non picchiare col bastone bianco
alle finestre dei sazi

bere l’estratto d’erbe amare
ma non fino in fondo
lasciarne avvedutamente
qualche sorso per l’avvenire

accettare
ma al tempo stesso
distinguere dentro di sé
e possibilmente
trasformare la materia della sofferenza
in qualcosa o qualcuno
giocare
con essa
ovviamente
giocarci

scherzare con essa
con grande cautela
come con un bambino malato
per strappare alla fine
con schiocchi giochetti
un esile
sorriso

Traduzione di Pietro Marchesani

da Rapporto dalla città assediata, Adelphi, 1993


mercoledì 14 dicembre 2016

Gino Scartaghiande

DALLA STRADA

Della strada, così poche cose
io seppi. Ora sembra piccola
ma un mattino bastava
ed un’Aurora vi passava
inosservata e quieta.
                                  Fu l’estremo lembo
di una valle, dove poi rimbombò
forte l’urto di una dorata
nuvola e densa di splendore
che già gli occhi giovani empirono
di lacrime, e fu indicibile nome
il folgorarsi prima della gioia.

da Oggetto e circostanza, Il Labirinto, 2016
(recente vincitore del Premio Frascati Poesia 2016)

lunedì 12 dicembre 2016

Valerio Grutt

IL TEMPO È DIVENTATO SERRANDA


Il tempo è diventato serranda
aperta, luce elettrica, serranda
aperta. Parla solo la televisione
finisce un programma e ne comincia
un altro. È questo il ciclo
della natura nella stanza
si è gonfiata l’ombra di un’attesa
che non distingue più i giorni.
Parole buone non servono
preghiere, medicine, tutto vola
basso e cerco di fare festa
colorare l’aria come un bambino
o un cane per te
che più che donna sei stata
mamma, nei crepuscoli di una vita
negli angoli a spiare il nostro bene
sempre pronta a rimanere
sola, mentre un figlio parte
e l’altro ritorna.


da Dove non arriva la scienza, plaquette stampata dal Policlinico di Sant’Orsola a Bologna per il progetto Le parole necessarie

venerdì 9 dicembre 2016

Sauro Albisani

FLIRT

Sono tornato in prima elementare.
Ero già morto, non ricordo come
né quando, ultraottuagenario. Entro
nell’aula garrula dalla finestra
chiusa.
              Fo in tempo a udire la maestra
indicarmi col dito: - Alla lavagna!

Dal primo banco un bambino impaurito
si alza in piedi e sorride a una compagna.


(inedita)

mercoledì 7 dicembre 2016

Sonia Gentili

AUTORITRATTO IN CINQUE SPECCHI

V. Posso io o no

Posso io o no ridiventare
pura nel puro flusso delle cose
retrocedere andando tra le cose
ridiventare l’ultimo dei venti
solo una cosa e non una paura
tra le cose, fino all’argine grigio
della prosa

se ridivento pura
della voce che ero ride
il vento
la mia voce sterrata è una piramide
sepolta nella strada


da Viaggio mentre morivo, Aragno, 2015

lunedì 5 dicembre 2016

Pere Gimferrer

APPARIZIONI

I

Il sogno non sempre ha colore o movimento.
È uno stato, talvolta. Il sogno di stanotte
era verde e silenzioso come l’acqua
e come l’acqua oscuro, o solo il brusio
di cosa viva, che fluisce sotto il cielo.
Però il cielo mentale che si vede
nella visione degli occhi interiori:
non la vista dei sensi, né il ricordo
della vista dei sensi; non il tremulo colore
di una nube sanguinante, ma un’eco
rossastra di luce che ha fiato ancora
quando il tramonto muore. Era uno stato
il sogno di stanotte. Non il centro,
ma il limite, i confini del mondo.
Sostenendo l’oggetto, prima d’avere oggetti;
prima che esista l’io, prima dell’istante
in cui dirò «Io sono», e ancora sarà sogno,
ma sentendo, nel sogno, che se lo ricordo
aprendo gli occhi, saprò che già esistevo.
Niente ancora poteva interessarmi
perché non ero un essere: ero solo
uno stato, un’attesa. In quelle notti
di tardo inverno, a volte cade, obliqua,
una pioggia finissima. Rinfresca
e il cielo è un faro di porpora bruna,
le strade vuote paiono d’altri tempi.
Pioveva così, scendendo dolcemente,
col senso di morte che dalle vetrine
cancella la pioggia delle città di ieri.
Intendo dire quel tipo di stato
di chi non sa se è vita o se è ricordo
l’istante stesso che ora sta vivendo,
senza stimoli, senza sentire che qualcosa
bisognerà lasciare, o che qualcosa
ci appartiene. Non staccarsi né tenere.
Ero chi ancora non può dire d’aver nome.
In agguato, in attesa della sua identità:
come acqua corrente, o acqua trattenuta,
identica al metallo in cui presto cadrà.
Luce d’acqua confusa con luci di metallo:
metallo doppio, agli occhi, metallo
d’acqua, e metallo della mente e dei sensi,
luce priva di luce, idea di luce.
Perché il tema del sogno è idea dell’io.
Confusamente, sentivo che nel chiarore
immobile e verdastro io proiettavo
nei gesti l’ombra di quello che sono.



Traduzione di Francesco Dalessandro


Da Espejo, espacio y apariciones, Visor Poesia, 1988

venerdì 2 dicembre 2016

Aleksandr Blok

I DODICI

12.

Vanno via con passo lento,
sempre avanti… Chi va là?
È il vessillo che sul vento
fruscia e oscilla in qua e in là…

Dietro ai cumuli in agguato
forse c’è chi sta aspettando…
No, è il cane allampanato
che li segue zoppicando…

«Passa via, vagabondo!
Via rognoso, via, se no…
Come un cane, o vecchio mondo,
passa via, t’abbatterò!»

Mostra i denti come un lupo,
con la coda ritta sta,
cane povero e sparuto…
«Rispondete: chi va là?»

«Chi è che scuote la bandiera?»
«Oh che buio maledetto!»
Chi è che va di gran carriera?
chi si fa là parapetto?»

«Su, compagno, alza le mani!
Prender te per noi è un gioco.
Tu cadrai nelle mie mani
vivo o morto! Attenti: fuoco!»

Tratatà!... Ma è solo l’eco
che risponde secco e breve.
La tormenta con un bieco
riso danza tra la neve.

                        Tratatà!
                        Tratatà!

… Così vanno nella sera,
            ed il cane è ormai laggiù,
ma davanti alla bandiera,
            camminando lieve
            nel vortice di neve,
di rose inghirlandato
in un nembo imperlato,
avanti marci tu,
            non veduto, o Gesù!



Gennaio 1918


Traduzione di Renato Poggioli

da I dodici, Einaudi 1965