MARE D’ARAL
Una carretta dei laghi gonfia reclina relitta
s’una riarsa duna stata una sirte un tempo:
la tua solita tresca di compassione s’inganna
se la speri soltanto ferita:
quella nave non sta morendo,
è morta male.
I lenti convogli, le pigre carovane
che in turni sempre più rari, più avviliti che
usuali, trascinano merci già logore
su claudicanti tratturi, l’hanno
ormai traghettata, ma non
a riva: dalla disattenzione
all’oblio.
Così,
dal tuo sporco orlo ritratto, giallo
d’un giallo livido, tra le vampe esalate
traspare il suo unico squillo,
la ruggine del suo colore.
Da lì,
dove la vedi a tratti in mezzo al sale
che sale, t’accade una voglia dolorosa
di misurare, e frughi nella distanza
altri più antichi, più lontani relitti
al largo di sabbia o del nulla: malfermi
puntini neri, che gli occhi miopi
consentono solo
di travedere ma tutto
il tempo a ritroso e la moltiplicazione,
la fuga degli spazi
svelano come chiari verdetti: che tocca
chiudere il conto, d’ora all’indietro, anno
dopo anno, fino al comune
momento del varo, in qualche arso
cantiere uzbeco o sotto una fosca
luce d’oltraggio: una superstite
lampada cuneese.
Come là
giù le chiglie sventrate dalle dune
che le divorano: la prima, le ultime
ed altre ancora – chi sa? fino
alla fine del suono –, in un’inospite Scizia dove
per suono dicono ronzio del deserto che avanza,
per vita sgomento per la vita che manca,
ma non lo vedi? hai ficcato i piedi in uno stesso
marcio arenile, e l’intera memoria
senza pietà.
Terra, terre di sterro, bruciori, odori
sturati in roghi fulminei
o fatui, ma è
un’unica pressa, un unico spasmo: lagune e silenzi
di sabba schiacciati, di
tempo e orizzonte avvitati:
un calibro solo,
una ferita enorme,
albume abbacinato, cenere sparsa,
macchia, poi più
nient’altro che orma, limo, com’è naturale
che sia.da I cavalli del nemico, Il Labirinto, 2004
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