venerdì 28 aprile 2023

Francesco Dalessandro

RIMBAUD A L'AQUILA 


  

Ancora un’inutile bella giornata, pensò avvicinandosi alla finestra. 

La città non sembrava ferita,

l’aria fresca le dava un aspetto sereno

e i tubolari che dal terremoto sorreggevano il Centro

scintillavano al sole.

Eppure, è un’agonia, pensò.

Ma non seppe se fosse a sé che si riferiva, o alla città.

In fondo né la sua vita né quella della città si risolvevano,

si sarebbero mai risollevate.

Come nel più convenzionale racconto romantico,

si disse volgendosi a guardare verso l’interno della stanza,

con il grande letto solitario,

sfatto solo e sempre dalla sua parte.

Difatti, chi lo divide più con me? si chiese.

Sì, come in un brutto racconto.

Anzi, come in uno di quei fotoromanzi a puntate

che sua madre leggeva su un settimanale. “Grand-Hotel”,

mi pare si chiamasse, pensò. Chissà se esiste ancora.

«Ho steso corde da campanile a campanile,

ghirlande da finestra a finestra» ricordò d’avere letto

una volta in un fotoromanzo, parole che un uomo

sussurrava a una donna, entrambi nudi sul letto s’intuiva,

toccandole i capezzoli scuri facendola ansimare.

«Catene d’oro da stella a stella» le diceva «e danzo».

Per mesi aveva cercato

il libro e il poema dal quale quei versi erano tratti: Rimbaud,

le sue Illuminazioni. Che non conosceva.

Fili d’oro – pensò – come quello che ora pende  

dai tralicci dell’alta tensione e si allunga fino al ponte

dell’autostrada: un inganno del sole.

L’ennesima bella giornata, noiosa e senza senso,

ecco cosa l’aspettava.

Perché era inquieto, allora?

Perché quell’ansia smaniosa che lo prendeva appena sveglio?

E che a volte passava, durante la giornata, e spesso no?

Ma neanche quella mattina avrebbe trovato una risposta.

Si risolse a fare la doccia, si fece la barba,

e, mentre si vestiva, il caffè.

Ne bevve una tazzina e uscì di casa.

Come ogni mattina, scese a piedi i cinque piani e s’incamminò.



 

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