lunedì 28 ottobre 2024

Lucianna Argentino

CONTENEVA PAROLE


Conteneva parole che non riusciva a vivere e vita che non riusciva a dire, fino a quando vivere e dire furono un tutt'uno e li sentì, in sé, scorrere abbracciati. Abbracciata lei alla promessa scambiata con se stessa di rendere applicabili le teorie che le suggeriva il silenzio e certi sguardi che le persone non sanno di avere. Sguardi staccati dal corpo e dall'anima in cui a volte si scorge l'ombra di un frullo d'ali, un balenio di luce limpida - avanzo intatto d'infanzia. Sguardi con mani e labbra perché sia possibile fare e predire il presente.


da Corpo di fondo, peQuod, 2024

venerdì 25 ottobre 2024

Marco Vitale

 PER ALBERTO TONI


I


Come dimenticare, amico, quella neve

caduta nell'inverno dell'85?

Il tuo timore per il gelo

che a me pareva invece una promessa

limpida, pungente come l'aria

del tempo non ancora trentenne, a Roma

in quell'inverno dell'85


II


Un giovane poeta

locuzione legata al mio incontrarti

eri tu un giovane poeta, ti ascoltavo

ammirato e pensavo: ma non erano

i tanti anni di una vita e di studio

a farne uno semmai? Rainer

Maria sembrava suggerirlo ma tu

leggevi il tuo "universo trentenne"

sotto gli angeli immobili del ponte

che rivedo riflessi


di notte nel fluire del Tevere


da La strada di Morandi, Passigli Poesia, 2024

mercoledì 23 ottobre 2024

Fabio Ciriachi

 

OBIEZIONI

 

 

Mi ha detto: “Scrivi troppo della morte

così farai scappare la poesia”.

Obietto all’obiezione: “Questa mia

insistenza cerca di favorire

l’incontro con l’Eterna che altrimenti

sarebbe scontro, e per me perdente”.

Infine, curo ciò che non finisce,

probabilmente la poesia gradisce.



da Tempo, soltanto tempo, Il Labirinto, 2023

lunedì 21 ottobre 2024

Francesco Paolo Memmo

 VERSI PER M.

                                                                Voi che per li occhi mi passaste ‘l core

                                                      e destaste la mente che dormia.

                                                                                                  (Guido Cavalcanti)

*

Che adesso, a pensarci, non era

più possibile vivere in attesa di vivere.

 

Che la notte non sogno più le folli

scalate al settimo piano, la sconfitta

immancabile scandita dall’urlo delle sirene.

 

Che la poesia è un gioco sottile dell’intelligenza,

non dolore rappreso in sparsi suoni

o testamento a futura memoria.

 

Che l’orizzonte, ho scoperto, è lontano

soltanto se lo guardi nel rovescio del cannocchiale.

 

Che le porte non hanno serrature.

 

Che ogni serratura ha la sua chiave.


1.

Al sogno che voleva rapirmi, nessuno

potrà resistere, io meno degli altri,

all’invenzione dei giorni impalpabili.

 

Niente nessuno in nessun luogo mai

potrà accorciare la debita distanza

fra ciò che marcisce e la linea ricurva

che segna l’orizzonte, l’immarcescibile

rosa, il giallo tulipano, o il mughetto.


2.

Perché la storia, intanto che parli,

non sia acqua di pozzo, unghie

laccate o cipria, vagito di neonato,

intanto che tu parli e racconti.

 

Purché tu parli, purché la storia

che ti preme narrare sia la stessa

che io voglio ascoltare in silenzio.

 

Del bosco che sotto gli abeti

ha partorito grano, per miracolo.

Della donna cha incantata vi canta.


3.

Dove lavora il tarlo, le foglie

si colorano di verde, lo spessore

dei giorni sviluppa il filo del presente:

ingigantisce l’amore, inorgoglisce.


4.

Mentre tu fai amicizia con la gioia,

stipuli patti con la felicità,

sei certa che proprio questo era il sogno.


5.

In ogni modo il mare non potrebbe

con aria sicura rispondere alle mie

richieste, neppure il sole impegnato

a giocare la sua partita a scacchi

con le nuvole.

Provaci tu, se puoi,

sostituisciti al mare, al sole di giugno,

non gridare sconnessi rimproveri a chi

era venuto per spiegarti dove…

 

Nel momento che la quiete sopraggiunge

a cavallo di un refolo, si placa

in esercizi d’equilibrio il delirio.

Come Burljuk che disegnava grattacieli

e donne con tre seni, e Kamenskij

che con pezzi di carta di vario colore

paziente preparava uccelli del paradiso.


6.

E io per meritarti, io

non faccio niente di così difficile:

mi alleno a meritarti, a dosi

giornaliere.


7.

La mia voce appassisce come un fiore

per troppo tempo lasciato senz’acqua

se si recide il cordone ombelicale

che mi lega al prodigio, al tuo miracolo.


8.

Non occorre tu ripari gli occhiali:

puoi vivere anche così,

anche a scatola chiusa,

puoi fidarti alla cieca:

ho buoni occhi, io, per tutti e due.


9.

Al calor bianco dei fatti, muta

la prospettiva della storia, la dimensione

da cui guardare agli eventi, con che

dovizia di prove, il visto per un lungo

viaggio. Le parti convengono la prassi

da adottare, il calendario dei lavori

a ritmo serrato, l’anello si salda su norme

prevedenti un’estrema vigilanza.

 

È qui, da qui, che ha inizio

la lotta per la non retrocessione.


da Linea di basso ostinato, Il Labirinto, 2024

venerdì 18 ottobre 2024

Camillo Fonte

 QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE


Quarta lezione: Una canzone provenzale e Pound

  

I

 

«La nostra poesia, l’abbiamo visto, comincia…»

indugiò, si volse a guardare la classe,

chiedendole tacitamente di rispondere.

Proseguì: «Comincia con…»

«La “Scuola siciliana”», risposero tutti.

Sorrise contento. «Ma oggi, sebbene

non sia in programma, parliamo di una Poesia

che viene prima della Scuola siciliana.

Parliamo dei “trovatori”, quei poeti

che scrivevano in lingua d’oc,

parliamo dei poeti provenzali». Di nuovo

fece una breve pausa guardando negli occhi

le ragazze davanti alla cattedra, sedute

nel primo banco. «La Provenza, lo sapete,

è una regione nel sud della Francia.

I trovatori vissero e scrissero nel dodicesimo

e tredicesimo secolo, e furono modelli

per tutti i poeti che vennero dopo di loro.

La poesia che scrivevano… anzi, che

cantavano, era in prevalenza poesia d’amore

(fin’amor lo chiamavano), e aveva

un codice preciso di comportamenti –

sia del poeta sia della donna amata,

sposata o nubile che fosse, alla quale il poeta

si rivolgeva coi versi chiedendone l’amore.

Era spesso la moglie del signore

del castello dove il trovatore era ospitato…».

Qui tacque per un attimo, come aspettasse

una reazione. Ma ci furono solo sorrisini

maliziosi, con scambi di sguardi

fra ragazze e ragazzi. «Eppure quei poeti

parlavano anche di guerra, o in generale

di politica» riprese ignorando

quei minimi segnali. «Scrivevano a volte

compianti, “complants”, per la scomparsa

di qualcuno. E di questo voglio dirvi oggi

leggendovene uno dei più belli. Lo vedete

trascritto sulla lavagna.

Seguite la mia lettura e ascoltate attentamene –

anche se non capirete – 

perché quel che conta è il suono delle parole».

 

Si tuit li dol e’lh plor e’lh marrimen

e las dolors e’lh dan e’lh chaitivier 

qu’om anc auzis en est segle dolen…

 

Cominciò a leggere seguitando fino alla fine.

Lesse poi una traduzione improvvisata:

 

Se tutto il duolo e pianto e smarrimento

e i dolori e il danno e lo sconforto 

ch’uomo provò nel secolo dolente…

               

«Questo “compianto”, una delle più belle

canzoni scritte in lingua occitanica,

è dedicato alla morte prematura di Enrico

III Plantageneto, re d’Inghilterra.

Avete sentito l’ordito perfetto dei suoni?

Ognuno è finalizzato a suscitare in chi legge

o ascolta la stessa afflizione di chi scrive.

Avrete notato che il primo verso di ogni strofe

finisce con la parola marrimen

(che bastano tre lettere per trasformare in

smarrimento: afflizione, pena, sconforto)

e l’ultimo finisce con la parola ira,

che allo smarrimento, immaginiamo,

aggiunge rabbia per quella morte prematura.

Ma insieme allo sbigottimento di chi scrive,

quei suoni non sembrano rintocchi

di campane a morto? Impossibile sottrarsi

alla loro cadenza, al loro suono, al fascino.

Ne fu autore Bertran de Born,

“guerrafondaio e poeta” secondo la definizione

di un critico; seminatore di discordia

secondo Dante, che lo mise all’Inferno».

Qui tacque. Aspettava una reazione

da quei ragazzi. Ma prima che qualcuno

potesse parlare suonò la campanella:

la lezione era finita. Nessuno

osava alzarsi. Aspettavano che fosse

lui a dire di uscire. Benché deluso,

«Andate, andate! Su…» disse. «A domani».

Allora si alzarono tutti e uscirono in silenzio,

uno dietro l’altro, salutando.

“Arrivederci” dicevano uscendo.

E dopo qualche minuto, raccolte le sue carte,

lui stesso li seguì.

Scese in strada dove tutti – i suoi e gli altri –

indugiavano a gruppi, a chiacchierare

allegri ad alta voce.

                                    Un sole timido usciva,

fuggiva a momenti dalle nuvole, come

compiaciuto che l’accogliessero con gioia.

Solo lui non lo guardò.

S’avviò sorridendo verso casa senza più

voltarsi, ripensando alla lezione

e a come l’avrebbe conclusa, parlando

di un poeta del nostro tempo,

amato e tanto odiato, anche lui “seminatore

di discordia”, lo zio Ez… Così lo chiamavano.

 

 

II

                                                           

A distanza di secoli, quei versi – avrebbe detto –

toccheranno l’orecchio infallibile di Pound,

che se ne ricorda all’inizio del canto LXXXIV,

l’ultimo dei Pisani, dove esprime sconforto

e cordoglio per la morte di un amico poeta,

J. P. Angold… Qui, pensò, si sarebbe

interrotto per un attimo. Pound probabilmente

li cita a memoria, ne accentua (e ne migliora

forse) il suono battente usando allo scopo

anche il nome dell’amico e la parola in greco:

 

Si tuit li dolh el plor

Angold τέθνηκε

tuit lo pro, tuit lo bes

           Angold τέθνηκε

 

Ma il fascino che Bertran esercitò sul poeta

americano non finisce con questa citazione.

Pound fu molto sensibile alla personalità

del provenzale; solo basta a testimoniarlo

uno dei testi suoi più belli, la celebre Sestina:

Altaforte, nella quale egli lo fa parlare.

E non a caso utilizzò una delle più fortunate 

e difficili invenzioni della poesia occitanica,

la “sestina”, della quale siamo debitori al-

l’altro grande poeta del tempo, Arnaut Daniel…

 

Scosse la testa, sorrise fra sé, guardò in alto,

dove il sole era scomparso dietro un nembo.

Si disse che la retorica non gli era necessaria…




mercoledì 16 ottobre 2024

Camillo Fonte

QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE

 

Terza lezione: La chiarezza

  

«Oggi parliamo di canzoni… Anzi, di canzonette».

I ragazzi reagirono a quelle parole agitandosi

nei banchi e mormorando increduli fra loro.

«No, non quelle che credete – che ascoltate

ogni giorno alla radio. Parleremo di “canzonette

poetiche”, di quelle che i poeti scrivevano

nel Settecento e oltre… » Delusi, i ragazzi

ammutolirono. Lui continuò ignorando

le reazioni che le sue parole avevano suscitato.

«Ma prima vorrei che fosse chiaro

quale dev’essere la sola, vera preoccupazione

del poeta: la chiarezza.

Sì, la chiarezza, perché (parole di Stendhal:

ma di lui parleremo un’altra volta)

«soltanto la chiarezza può rappresentare

ciò che un uomo sente». S’intende, chiarezza

sintattica, non solo di senso. E chiarezza

significa disporre le parole in un loro

“ordine naturale”. Significa non piegare

l’ordine sintattico della frase ad esigenze metriche».

Nessuno parlava. Nemmeno un sussurro.

Nemmeno un mormorio, Ne fu stupito.

Ma che cosa pensavano quei giovani

aspiranti ragionieri? Era difficile che “avessero

contezza” di quel che stava loro dicendo.

Restavano in silenzio, aspettando che lui

riprendesse a parlare. Lo guardavano. Milioni

di eccezioni, voleva riprendere, se – dice

san Girolamo – anche l’ordine delle parole

è un mistero. Lo pensò ma non lo disse.

«Le convenzioni metriche, gli artifici, minacciano

la naturalezza (del discorso e della lingua)

e tendono continuamente a sopraffarla».

Fin là i ragazzi avevano ascoltato in silenzio,

senza fiatare, affascinati dalle parole e dal tono

del giovane professore. E quando lui tacque

per riprendere fiato, e anche forse per capire

se quello che diceva li stesse interessando, 

i ragazzi non si mossero. Fu lieto della loro

attenzione e, scendendo dalla cattedra, riprese

il discorso, guardandoli serio. «Sapete?

A ogni verso si aprono trabocchetti. Il poeta,

per non caderci, deve vigilare di continuo,

essere sempre desto e concentrato». Qui

si rese conto che stava parlando più a sé stesso

che ai ragazzi. Era lui il poeta! Quel discorso

lo riguardava direttamente: la chiarezza

era un suo cruccio. I ragazzi lo guardavano

sospesi. «E in questo dover essere chiari

a tutti i costi c’entra l’abilità del poeta»

precisò rivolto alla classe. «Ma facciamo

qualche esempio, leggendo alcune di quelle

canzonette. Ascoltate:

 

Credei ch’al tutto fossero

in me, sul fior degli anni,

mancati i dolci affanni

della mia prima età:

i dolci affanni, i teneri

moti del cor profondo,      

qualunque cosa al mondo

grato il sentir ci fa [1].

 

Per prima cosa sentiamo il ritmo. Forse nemmeno

ci rendiamo conto di aver letto una strofetta

metastasiana. Ma il contrasto tra la forma

e il contenuto genera effetti di straordinaria

intensità. Viceversa, se leggiamo:

 

Qual masso che dal vertice

di lunga erta montana,

abbandonato all’impeto

di rumorosa frana,

per lo scheggiato calle

precitando a valle,

batte sul fondo e sta… [2]

 

neanche qui forse vediamo subito lo stampo, ma

“precipitiamo”, senza volerlo, nella cantilena. 

Non siete d’accordo?» Nessuno osò rispondere.

«Beh, forse esagero» disse allora «ma fate voi

la prova, se volete. Capite dov’è la differenza

di ritmo fra i due testi? Per me è proprio

nella scelta e nell’ordine delle parole, e fin dal

primo verso, nelle pause. Torniamo all’esempio:

Credei ch’al tutto (pausa) fossero (breve pausa,

stavolta per la fine del verso, e inarcatura al verso

successivo) in me (pausa forte) sul fior degli anni…

ecc.; lo stesso ritmo, con le stesse pause

(quinario, bisillabo, bisillabo, quinario), si ripete

ai primi due versi della seconda quartina.

Nel secondo caso, invece, per quanto si voglia

leggere con lentezza e sentimento, quel primo

verso ha già un’impronta decisa: Qual masso che

(solo qui, a metà verso, interviene una pausa,

ma forzatamente brevissima, quasi impercettibile)

dal vertice (nessuna inarcatura, perciò pausa lunga,

caduta al secondo verso) di lunga erta montana…

E via di seguito, allo stesso modo. Mi capite?

Capite quel che sto dicendo?» Nessuno rispose.

Qualcuno fece “sì” con la testa. «Ma c’è un terzo

caso. Leggiamo:

 

Son luce ed ombra; angelica

farfalla o verme immondo,

sono un caduto chèrubo

dannato a errar sul mondo,

o un demone che sale,

affaticando l’ale,

verso un lontano ciel [3].

 

L’abilità non manca. Il ritmo è mosso, le pause

nel distico iniziale sono come nel primo caso,

considerata l’inarcatura: angelica /farfalla,

c’è la prima di una serie di anafore: son /sono,

c’è il dualismo luce-ombra, farfalla-verme,

c’è il gioco del rovesciamento: alto-basso-alto;

insomma c’è mestiere, (ma quel chèrubo   

sapete cos’è? un cherubino – alle orecchie

nostre di “moderni” suona brutto. Il poeta,

non si fosse adattato per rispetto del metro,

avrebbe scelto un’altra parola?).

                                                          I tre poeti

partono dallo schema di una “canzonetta”,

composta di strofette di otto versi di settenari

in voga nel Settecento. Il primo lo utilizza

tale e quale rivitalizzandolo nel ritmo, con

l’agilità delle inarcature e con l’eleganza,

p. e., di quella ripetizione, i dolci affanni

alla fine del terzo e all’inizio del quinto verso,

seguito dalla bellissima inarcatura: teneri

moti (i dolci affanni del cuore: la bellezza

dell’espressione – con un tipico enjambement  

imparato dal Tasso: aggettivo sospeso

sul sostantivo all’inizio del verso che segue.

La bellezza, dicevo è così evidente e viva,

anche nel suono, che ogni altro commento

lo credo superfluo). Il secondo poeta rinnova

lo schema rinunciando a un verso, alternando

uno sdrucciolo libero a un piano rimato,

seguiti da un distico a rima baciata e da un

tronco, accentuando il sincopato un po’ mono

tono (monotono) della strofetta (però abile:

riesce a farci sentire il rumore di una frana

che rotola a valle, anche se poi l’effetto

si perde nelle strofe successive): il risultato

a mio modo di vedere, è un po’ convenzionale

e non l’aiuta partire con una similitudine, che

dilata, respingendolo a fine strofe, tutto il senso

del discorso. Quanto al terzo poeta, ricalca

l’innovazione del secondo, innervandola con

un abile uso della tecnica, ma la capacità

non offre un risultato degno degli sforzi,

perciò tutto resta un po’ freddo. Insomma,

ragazzi, si vede così la supremazia del primo

poeta sul secondo e, ovvio, di questi sul terzo».  

Concluse così proprio mentre la campanella

suonava la fine della lezione. Raccolse

i libri sulla cattedra e s’avviò verso la porta.  

«A domani» disse uscendo. Sentì dietro

il brusio della classe, liberata dalla tensione.



[1] Giacomo Leopardi, Il risorgimento

[2] Alessandro Manzoni, Il Natale

[3] Arrigo Boito, Dualismo

lunedì 14 ottobre 2024

Camillo Fonte

 QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE


Seconda lezione: La sera del dì di festa di Leopardi

 

 

«Qualcuno crede che il primo verso della Sera

del dì di festa di Leopardi sia sbagliato…»

Cominciò la lezione, guardando ad uno ad uno

i ragazzi in prima fila, indugiando come forse

aspettasse una reazione, o un moto di stupore,

che non venne. Fu deluso. Riprese: «per via

di quelle tre e (le due congiunzioni e la forma

verbale), perché i loro suoni funzionerebbero

come dieresi eccezionali prolungando quel verso

fino a farne un alessandrino». Qui tacque

per più di un minuto, ma stavolta guardò fuori,

dove il sole accendeva le finestre e dilagava

sull’erba della Villa, sopra ai tetti dei chioschi.

Poi riprese. «Ovviamente, però, non è così.

Chi lo crede ha frainteso la funzione di quelle

tre e, le quali hanno il compito di aprire e

allargare la visione, e subito dopo quella di

stabilire, tramite la precisa scansione vocale,

i tre pilastri sensoriali su cui si fonda la notte,

quella notte straordinaria: dolce, chiara, senza vento».

Si fermò, li guardò, si chiese come i suoi

ragionamenti avrebbero aiutato quei futuri

ragionieri a ragionare. Sorrise fra sé, poi riprese.

«Ma tutto questo è secondario, lo capite?

perché con quel polisindeto Leopardi intendeva

ottenere (al contrario di quel che si prefiggeva

Foscolo nel primo verso di Alla sera, ricordate?)

un rallentamento, anzi una sospensione…

Da quella sospensione e dai versi successivi

(pensate al movimento dell’occhio che dal-

la notte stellata scende sui tetti e sugli orti,

dove sembra riposare la luna, per poi spingersi

al limite dell’orizzonte, dove si stagliano

nitide le prime montagne) nasce l’andamento

della poesia, nella quale, dopo il piacere

suscitato dalla notte straordinaria per luminosità

e dolcezza, il poeta passa presto a considerare

la propria infelicità e, per contrasto con la

sospensione del paesaggio notturno e i rumori

della festa passata, il trascorrere rapido del tempo».

 


venerdì 11 ottobre 2024

Camillo Fonte

 QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE

 

NOTIZIA

 

Il racconto in poesia che i frequentatori di questo blog hanno letto venerdì scorso e per il resto della settimana, è stato scritto da me dopo lunga esitazione e ricostruisce in versi quanto raccontò – dopo il suicidio di suo fratello Camillo e nelle circostanze riferite – Severino Fonte. Lo stile – vagamente gozzaniano, come mi è stato fatto notare – prova ad imitare quello di Camillo nelle Quattro lezioni che leggerete nei prossimi giorni).

Come già riferito nell’introduzione a L’isola (Edizioni Il Labirinto, 2022), Camillo Fonte – poeta quasi del tutto inedito e sconosciuto –  insegnava italiano e storia in un istituto tecnico de L’Aquila, quando si suicidò. I testi delle lezioni, scritti in versi e in terza persona, proprio come racconti, furono trovati da Severino in un cassetto della scrivania, dopo la sua morte. Probabilmente, altri ne sarebbero seguiti, ma non possiamo saperlo. Come non possiamo sapere se quelle lezioni furono davvero tenute da Camillo ai suoi aspiranti ragionieri.

Come accenno nel mio testo, Severino li fotocopiò e consegnò al giornalista che aveva dato la notizia del suicidio di Camillo, e che si era mostrato così interessato a leggerli: pare che ne volesse scrivere, ma non ne fece mai niente.

Quest’estate, ho ritrovato anch’io, in un mio cassetto, a distanza di anni, i quattro testi – che mi erano stati donati da Severino e che, colpevolmente, io stesso avevo completamente dimenticati (altrimenti li avrei inclusi ne L’isola, col poemetto omonimo e le poesie d’amore). Rileggendoli, mi è sembrato giusto dare loro la visibilità che meritano, in attesa di includerli nel libro in una futura riedizione. Perciò ho sentito necessario scrivere quel testo, Le “petrose” e la Commedia, che le introduce. Non so chi, leggendo, sarà d’accordo. Ma, appunto: leggere per giudicare. Le tesi elaborate nelle singole lezioni possono essere considerate e valutate come si vuole e si crede, ma non si può negare che abbiano un’onesta e intrigante bellezza e profondità. Ecco la prima.

 

Prima lezione: Alla sera di Foscolo

 

 

«‘Forse perché della fatal quïete’ è il primo verso

di Alla sera di Foscolo. Riuscite a immaginare

un verso più audace di questo, un verso che

mette in crisi tutta la tradizione petrarchesca

precedente?» Gli studenti seguivano in silenzio,

ammaliati dalla sua voce bassa ma chiara.

Mattina piena di luce, un raggio che scendeva

trasversale si posava sulla cattedra e rimbalzava

sul nero della lavagna dov’era scritto LEZIONE

SU “ALLA SERA” DI FOSCOLO. «Credo

che poco – solo Leopardi – riesca a stargli

alla pari nella poesia successiva» stava appena

dicendo, camminando davanti alla cattedra.

«Pensate un verso che comincia con due avverbi!

(Prima solo Della Casa aveva osato qualcosa

di analogo. In un sonetto che iniziava con

“Forse però”, ma il verso e il resto è mediocre.

Ma Della Casa, ragazzi… Ve lo ricordate?»

Attese il “sì” dei suoi studenti. Uno solo,

ma gli altri annuirono, restando sospesi.

«Ne abbiamo parlato a proposito di quel

sonetto bellissimo sulla “selva solitaria”,

dove “non v’è quasi verso che non passi

l’uno nell’altro”, come dice Tasso». Di nuovo

sospese la voce guardandoli e aspettando.

“Sì”, dissero tutti. Sorrise. «E adesso spostate

l’attenzione sul secondo emistichio» riprese

«pronunciate le parole dentro di voi…»

qui tacque di nuovo, come se aspettasse

una voce. Ma nessuno osò parlare. «Sono certo

che ne sentirete l’eufonia, e sono certo

che subito dopo anche la ragione del senso

vi sarà chiara: la “fatal quïete” è un sospiro,

un soffio, l’ultimo respiro che è consentito

prima di diventare l’immagine (“l’immago”)

esattissima di ciò che la metafora esprime».