Lelio, qui dove il Sole
con l’obliquo suo raggio,
né d’April, né di Maggio
fa, come altrove suole,
dilettoso il terreno
a mille vari fiori aprire il seno:
o ne l’orrido verno
tiene il nevoso Regno,
e pien d’ira e di sdegno
si fa di Flora scherno
ov’Aquilone irato
copre di gelo ogni monte, ogni prato:
ove il ghiaccio aspro e duro
pon freno a i fiumi vaghi;
e i freddi stagni e i laghi
nascondeno il suo puro
fondo, qui dove il Cielo
si veste ognor di tenebroso velo:
fra queste strane genti,
dove virtù et onore,
qual fuor del suo licore
pesci smarriti e spenti
stan, per lungo camino
m’ha scorto il mio infelice, empio destino.
Qui misero, qui vivo,
se chiamar si può vita
questa, lasso, che invita
l’uomo di gioia privo
in dolorose tempre
a sospirar, a lacrimar mai sempre.
E se talor mi volto
in quella parte bella,
’ve la mia fida stella
con rugiadoso volto
mi chiama da lontano,
e mi sospira lungamente invano:
prendo tanto conforto
da quel Cielo amoroso,
ch’ogni stato noioso
pongo in oblio; ma corto
è quel diletto e frale,
poi che lontano è il ben, presente il male.
O patria illustre, o madre
d’imperadori e regi;
che color fatti egregi
rendono oscure, et adre
tutte l’opre onorate
de l’anime più chiare, e più lodate:
o patria illustre, o albergo
di quanto ben ci mostra
questa terrena chiostra,
a te m’inalzo et ergo;
e t’onoro e t’esalto,
quanto le rime mie posson gir alto.
Felice voi, felice
tre volte e più, che il giorno
in sì lieto soggiorno
passate, ove non lice
veder ciò che non sia
tutto pien di virtù, di leggiadria.
Voi solingo talora
toltovi al volgo ignaro,
con l’altre muse a paro,
dove Zefiro e Flora
spargon le lor ricchezze,
cantate le divine alme bellezze.
Di quella, che prescrive
i chiari giorni nostri:
talora con gli inchiostri
purgati, per le rive
vergate, d’un bel rio
carte secure da l’eterno oblio.
O se benigna sorte
m’apre da l’Oriente
quel dì chiaro e lucente,
ch’al bel desio mi porte,
chi più di me contento
spargerà voci d’allegrezza al vento?
Nocchiero accorto e saggio,
c’ha guardata la nave
da tempesta atra e grave,
giunto al fin del viaggio
appende su le sponde
l’umide vesti al Dio de le fals’onde:
io gli sproni e ’l cappello
qual stanco pellegrino,
che da lungo camino
venga, ad un ramoscello
d’un pino e d’un abete
vo sacrar a la Dea de la quiete:
indi gioioso e lieto
ne l’onorato monte
ch’orna la bella fronte
del gran Salerno, queto
mirar or ne le chiare
onde scherzar gli ispidi dèi del mare:
e Dori e Galatea
di perle e di coralli
cinte, amorosi balli
guidar con Panopea:
et arder co sospiri
l’acque nel foco de lor bei desiri.
E i lascivi Tritoni
talor andar guizzando;
desiosi cercando
i più preziosi doni
per coronare il crine
de le lor ninfe vaghe e pellegrine.
Talor con la vezzosa
mia pastorella, e lieta,
quando il sovran Pianeta
rende vaga ogni cosa,
e col raggio fecondo
orna di varie sue bellezze il mondo,
nei mattutini albori,
mentre i soavi augelli
sopra i verdi arboscelli,
che spiran mille odori,
salutan lieti il die,
dolcemente cantar le pene mie:
e fra il canto, a le rose
de la purpurea bocca,
onde Amor vibra e scocca
le sue gioie più ascose,
involar dolci baci;
e far, con lor garrendo, e guerre e paci.
Or con le muse amiche,
che stan meco sovente,
cantar lieto e ridente
l’onorate fatiche
del mio Signor gentile,
con colto, vago e dilettoso stile,
o di chiaro io ti sacro
questa penna; e se mai
a me lieto verrai,
ti farò un simulacro
ne le vivaci carte
’ve fian le glorie tue pinte e cosparte.
Sì, che mill’anni e poi
le genti che verranno
come al più bel de l’anno,
alzin’ a gli onor tuoi
ricchi e festosi altari,
et vivi ognor fra più famosi e chiari.
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