I’ sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza, qua pover e solo,
come spirto legato in un’ampolla:
e la mia scura tomba è picciol volo,
dov’è Aragn’ e mill’opre e lavoranti,
e fan di lor filando fusaiuolo.
D’intorn’a l’uscio ho mete di giganti,
ché chi mangi’uva o ha presa medicina
non vanno altrove a cacar tutti quanti.
I’ ho ’mparato a conoscer l’orina
e la cannella ond’esce, per quei fessi
che ’nanzi dì mi chiamon la mattina.
Gatti, carogne, canterelli o cessi,
chi n’ha per masserizi’ o men vïaggio
non vïen a mutarmi mai senz’essi.
L’anima mia dal corpo ha tal vantaggio,
che se stasat’ allentasse l’odore,
seco non la terre’ ’l pan e ’l formaggio.
La toss’ e ’l freddo il tien sol che non more;
se la non esce per l’uscio di sotto,
per bocca il fiato a pen’ uscir può fore.
Dilombato, crepato, infranto e rotto
son già per le fatiche, e l’osteria
è morte, dov’io viv’ e mangio a scotto.
La mia allegrezz’ è la maninconia,
e ’l mio riposo son questi disagi:
che chi cerca il malanno, Dio gliel dia.
Chi mi vedess’ a la festa de’ Magi
sarebbe buono; e più, se la mia casa
vedessi qua fra sì ricchi palagi.
Fiamma d’amor nel cor non m’è rimasa;
se ’l maggior caccia sempre il minor duolo,
di penne l’alma ho ben tarpata e rasa.
Io tengo un calabron in un orciuolo,
in un sacco di cuoio ossa e capresti,
tre pilole di pece in un bocciuolo.
Gli occhi di biffa macinati e pesti,
i denti come tasti di stormento
c’al moto lor la voce suoni e resti.
La faccia mia ha forma di spavento;
i panni da cacciar, senz’altro telo,
dal seme senza pioggia i corbi al vento.
Mi cova in un orecchio un ragnatelo,
ne l’altro canta un grillo tutta notte;
né dormo e russ’ al catarroso anelo.
Amor, le muse e le fiorite grotte,
mie scombiccheri, a’ cemboli, a’ cartocci,
agli osti, a’ cessi, a’ chiassi son condotte.
Che giova voler far tanti bambocci,
se m’han condotto al fin, come colui
che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?
L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui
di tant’opinïon, mi rec’a questo,
povero, vecchio e servo in forz’altrui,
ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto.
Chi mi vedess’ a la festa de’ Magi
sarebbe buono; e più, se la mia casa
vedessi qua fra sì ricchi palagi.
Fiamma d’amor nel cor non m’è rimasa;
se ’l maggior caccia sempre il minor duolo,
di penne l’alma ho ben tarpata e rasa.
Io tengo un calabron in un orciuolo,
in un sacco di cuoio ossa e capresti,
tre pilole di pece in un bocciuolo.
Gli occhi di biffa macinati e pesti,
i denti come tasti di stormento
c’al moto lor la voce suoni e resti.
La faccia mia ha forma di spavento;
i panni da cacciar, senz’altro telo,
dal seme senza pioggia i corbi al vento.
Mi cova in un orecchio un ragnatelo,
ne l’altro canta un grillo tutta notte;
né dormo e russ’ al catarroso anelo.
Amor, le muse e le fiorite grotte,
mie scombiccheri, a’ cemboli, a’ cartocci,
agli osti, a’ cessi, a’ chiassi son condotte.
Che giova voler far tanti bambocci,
se m’han condotto al fin, come colui
che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?
L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui
di tant’opinïon, mi rec’a questo,
povero, vecchio e servo in forz’altrui,
ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto.
Da Rime, BUR, 1975
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