AD
ANGELO MAI
QUAND’EBBE
TROVATO I LIBRI
DI
CICERONE DELLA REPUBBLICA
Italo
ardito, a che giammai non posi
Di
svegliar dalle tombe
I
nostri padri? ed a parlar gli meni
A
questo secol morto, al quale incombe
Tanta
nebbia di tedio? E come or vieni
Sì
forte a’ nostri orecchi e sì frequente,
Voce
antica de’ nostri,
Muta
sì lunga etade? e perché tanti
Risorgimenti?
In un balen feconde
Venner
le carte; alla stagion presente
I
polverosi chiostri
Serbaro
occulti i generosi e santi
Detti
degli avi. E che valor t’infonde,
Italo
egregio, il fato? O con l’umano
Valor
forse contrasta il fato invano?
Certo
senza de’ numi alto consiglio
Non
è ch’ove più lento
E
grave è il nostro disperato obblio,
A
percoter ne rieda ogni momento
Novo
grido de’ padri. Ancora è pio
Dunque
all’Italia il cielo; anco si cura
Di
noi qualche immortale:
Ch’essendo
questa o nessun’altra poi
L’ora
da ripor mano alla virtude
Rugginosa
dell’itala natura,
Veggiam
che tanto e tale
È
il clamor de’ sepolti, e che gli eroi
Dimenticati
il suol quasi dischiude,
A
ricercar s’a questa età sì tarda
Anco
ti giovi, o patria, esser codarda.
Di
noi serbate, o gloriosi, ancora
Qualche
speranza? in tutto
Non
siam periti? A voi forse il futuro
Conoscer
non si toglie. Io son distrutto
Né
schermo alcuno ho dal dolor, che scuro
M’è
l’avvenire, e tutto quanto io scerno
È
tal che sogno e fola
Fa
parer la speranza. Anime prodi,
Ai
tetti vostri inonorata, immonda
Plebe
successe; al vostro sangue è scherno
E
d’opra e di parola
Ogni
valor; di vostre eterne lodi
Né
rossor più né invidia; ozio circonda
I
monumenti vostri; e di viltade
Siam
fatti esempio alla futura etade.
Bennato
ingegno, or quando altrui non cale
De’
nostri alti parenti,
A
te ne caglia, a te cui fato aspira
Benigno
sì che per tua man presenti
Paion
que’ giorni allor che dalla dira
Obblivione
antica ergean la chioma,
Con
gli studi sepolti,
I
vetusti divini, a cui natura
Parlò
senza svelarsi, onde i riposi
Magnanimi
allegràr d’Atene e Roma.
Oh
tempi, oh tempi avvolti
In
sonno eterno! Allora anco immatura
La
ruina d’Italia, anco sdegnosi
Eravam
d’ozio turpe, e l’aura a volo
Più
faville rapia da questo suolo.
Eran
calde le tue ceneri sante,
Non
domito nemico
Della
fortuna, al cui sdegno e dolore
Fu
più l’averno che la terra amico.
L’averno:
e qual non è parte migliore
Di
questa nostra? E le tue dolci corde
Susurravano
ancora
Dal
tocco di tua destra, o sfortunato
Amante.
Ahi dal dolor comincia e nasce
L’italo
canto. E pur men grava e morde
Il
mal che n’addolora
Del
tedio che n’affoga. Oh te beato,
A
cui fu vita il pianto! A noi le fasce
Cinse
il fastidio; a noi presso la culla
Immoto
siede, e su la tomba, il nulla.
Ma
tua vita era allor con gli astri e il mare,
Ligure
ardita prole,
Quand’oltre
alle colonne, ed oltre ai liti
Cui
strider l’onde all’attuffar del sole
Parve
udir su la sera, agl’infiniti
Flutti
commesso, ritrovasti il raggio
Del
Sol caduto, e il giorno
Che
nasce allor ch’ai nostri è giunto al fondo;
E
rotto di natura ogni contrasto,
Ignota
immensa terra al tuo viaggio
Fu
gloria, e del ritorno
Ai
rischi. Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
Non
cresce, anzi si scema, e assai più vasto
L’etra
sonante e l’alma terra e il mare
Al
fanciullin, che non al saggio, appare.
Nostri
sogni leggiadri ove son giti
Dell’ignoto
ricetto
D’ignoti
abitatori, o del diurno
Degli
astri albergo, e del rimoto letto
Della
giovane Aurora, e del notturno
Occulto
sonno del maggior pianeta?
Ecco
svaniro a un punto,
E
figurato è il mondo in breve carta;
Ecco
tutto è simìle, e discoprendo,
Solo
il nulla s’accresce. A noi ti vieta
Il
vero appena è giunto,
O
caro immaginar; da te s’apparta
Nostra
mente in eterno; allo stupendo
Poter
tuo primo ne sottraggon gli anni;
E
il conforto perì de’ nostri affanni.
Nascevi
ai dolci sogni intanto, e il primo
Sole
splendeati in vista,
Cantor
vago dell’arme e degli amori,
Che
in età della nostra assai men trista
Empièr
la vita di felici errori:
Nova
speme d’Italia. O torri, o celle,
O
donne, o cavalieri,
O
giardini, o palagi! a voi pensando,
In
mille vane amenità si perde
La
mente mia. Di vanità, di belle
Fole
e strani pensieri
Si
componea l’umana vita: in bando
Li
cacciammo: or che resta? or poi che il verde
È
spogliato alle cose? Il certo e solo
Veder
che tutto è vano altro che il duolo.
O
Torquato, o Torquato, a noi l’eccelsa
Tua
mente allora, il pianto
A
te, non altro, preparava il cielo.
Oh
misero Torquato! il dolce canto
Non
valse a consolarti o a sciorre il gelo
Onde
l’alma t’avean, ch’era sì calda,
Cinta
l’odio e l’immondo
Livor
privato e de’ tiranni. Amore,
Amor,
di nostra vita ultimo inganno,
T’abbandonava.
Ombra reale e salda
Ti
parve il nulla, e il mondo
Inabitata
piaggia. Al tardo onore
Non
sorser gli occhi tuoi; mercè, non danno,
L’ora
estrema ti fu. Morte domanda
Chi
nostro mal conobbe, e non ghirlanda.
Torna
torna fra noi, sorgi dal muto
E
sconsolato avello,
Se
d’angoscia sei vago, o miserando
Esemplo
di sciagura. Assai da quello
Che
ti parve sì mesto e sì nefando,
È
peggiorato il viver nostro. O caro,
Chi
ti compiangeria,
Se,
fuor che di se stesso, altri non cura?
Chi
stolto non direbbe il tuo mortale
Affanno
anche oggidì se il grande e il raro
Ha
nome di follia;
Né
livor più, ma ben di lui più dura
La
noncuranza avviene ai sommi? o quale,
Se
più de’ carmi, il computar s’ascolta,
Ti
appresterebbe il lauro un’altra volta?
Da
te fino a quest’ora uom non è sorto,
O
sventurato ingegno,
Pari
all’italo nome, altro ch’un solo,
Solo
di sua codarda etate indegno
Allobrogo
feroce, a cui dal polo
Maschia
virtù, non già da questa mia
Stanca
ed arida terra,
Venne
nel petto; onde privato, inerme,
(Memorando
ardimento) in su la scena
Mosse
guerra a’ tiranni: almen si dia
Questa
misera guerra
E
questo vano campo all’ire inferme
Del
mondo. Ei primo e sol dentro all’arena
Scese,
e nullo il seguì, che l’ozio e il brutto
Silenzio
or preme ai nostri innanzi a tutto.
Disdegnando
e fremendo, immacolata
Trasse
la vita intera,
E
morte lo scampò dal veder peggio.
Vittorio
mio, questa per te non era
Età
né suolo. Altri anni ed altro seggio
Conviene
agli alti ingegni. Or di riposo
Paghi
viviamo, e scorti
Da
mediocrità: sceso il sapiente
E
salita è la turba a un sol confine,
Che
il mondo agguaglia. O scopritor famoso,
Segui;
risveglia i morti,
Poi
che dormono i vivi; arma le spente
Lingue
de’ prischi eroi; tanto che in fine
Questo
secol di fango o vita agogni
E
sorga ad atti illustri, o si vergogni.
Nessun commento:
Posta un commento