ELEGIE
III
Perché,
Neèra, avrei riempito il cielo
di
voti e di preghiere, offerto incenso?
Per
varcare la soglia di un palazzo
di
ricco marmo, ammirato, invidiato
per
la splendida casa? Perché i buoi
dissodassero
grandi superfici
e
la fertile terra offrisse un ricco
raccolto?
O per dividere le gioie
della
vita, perché la mia vecchiaia
s’addormentasse
quieta sul tuo grembo
quando,
finito il giorno, sulla nera
barca
letèa dovessi andare, nudo?
Che
serve l’oro, o che arino i campi
fecondi
mille buoi? Vale un palazzo
ben
sostenuto da colonne frigie,
(o
dalle vostre, Tènaro e Caristo),
con
un giardino interno, imitazione
dei
boschi sacri, con travi dorate
e
pavimenti tutti in marmo? E vale
qualcosa
forse la perla raccolta
sulle
coste eritree, o la lana tinta
con
porpora sidonia, o tutti gli altri
beni
tanto ammirati dalla gente?
No,
suscitano invidie. Quante cose
si
amano a torto! Nessuna ricchezza
dà
sollievo agli affanni della mente,
perché
la sorte sola ci governa.
Anche
la povertà sarebbe dolce,
Neèra,
se condivisa; e senza te,
neanche
doni regali accetterei.
Alba
radiosa a me ti renda, giorno
felice!
Ma se un dio ascoltasse ostile
i
voti fatti per il tuo ritorno,
non
gioverebbe un regno, un fiume d’oro,
o
le ricchezze dell’intero mondo.
Le
desideri un altro; a me una vita
modesta,
da godere con la sposa
amata,
senza affanni, basterebbe.
(Esaudisci,
Saturnia, tu i miei voti
e
stammi accanto; e tu, Cipride bella,
aiutami!)
Se invece il tuo ritorno
me
lo nega la sorte, e quelle tristi
sorelle,
tessitrici del futuro,
l’oscuro
Orco alla nera palude
mi
chiami e, sopra fiumi desolati,
alla sua morta acqua.
IV
Sorte
migliore aspetto dagli dèi.
I
terribili sogni che stanotte
m’hanno
guastato il sonno hanno mentito.
Sparite,
dileguatevi, e la falsa
visione
si allontani: non le credo!
Annunci
veri del futuro danno
solo
gli dèi e gli auspici che indovini
traggono
dalle viscere. I bugiardi
sogni
che infida suscita la notte
falsi
timori in animi paurosi
incutono
giocando; per soffrire
nato,
il genere umano può placare
con
farro sacro e sfrigolio di sale
gli
infausti, foschi presagi notturni.
Ma
veri o falsi i sogni, le paure
della
notte Lucina renda vane:
senza
ragione avrò temuto un male
immeritato
se, in coscienza, non
ho
mai commesso azioni turpi
né
bestemmiato. Già, sul nero carro,
la
notte aveva attraversato il cielo
e
bagnato le ruote nell’azzurro
fiume,
ma nel sopore che dispensa
il
dio benigno ai sofferenti
non
ero ancora scivolato: il sonno
sfugge
le case turbate dall’ansia.
Poi,
finalmente, quando Febo sorse
alla
base del cielo, chiusi gli occhi
affaticati
nel riposo. E subito
vidi
un giovane entrare nella stanza,
cinto
il capo d’alloro. Non umana
era
la sua natura, e non si vide
mai,
nel passato, cosa tanto bella.
Lunghi
e sciolti scendevano i capelli
sul
collo, profumati. Come luna
era
pallido il corpo, e di un colore
simile
a quello che arrossa le guance
d’una
ragazza quando per la prima
volta
incontra lo sposo, o come quando
gigli
e amaranti vengono intrecciati,
o
in autunno s’arrossano le mele.
Ai
suoi piedi la veste che copriva
il
bel corpo sembrava che scherzasse
con
le caviglie. Alla spalla sinistra
portava
appesa una preziosa lira
d’oro:
un canto di gioia, melodioso,
v’intonò
all’apparire mentre il plettro
eburneo
la toccava. Dita e voce
tacquero,
infine; con dolcezza disse
tristi
parole: « Amato dagli dèì,
salve.
Il poeta, così è giusto, è caro
alle
Pièridi, a Febo, e a Bacco, il figlio
di
Semele che, insieme alle sue dotte
sorelle,
ignora cosa ci riserva
il
futuro. A me invece diede il padre
la
facoltà di leggere il destino
e
gli eventi futuri, perciò ascolta
ciò
che dirò senza mentire. Quella
che
t’è più cara di figlia a sua madre
o
di sposa al marito che la vuole,
per
la quale gli dèi invochi, pietosi,
e
che riempie d’affanno ogni tuo giorno,
quella
che, quando il sonno nel suo nero
manto
t’avvolge, illude le tue notti,
Neèra,
che canti, ha scelto un altro e nutre
in
cuore una passione nuova,
essere
sposa in una casa onesta
non
vuole più. Le donne, nome infido,
genia
crudele: quella che tradisce,
perisca!
Puoi riaverla, se l’aspetti
con
fiducia: hanno animo mutevole.
L’amore
spinge alle più dure imprese,
l’amore
insegna a sopportare offese.
Quando
d’Admeto pascolavo bianche
giovenche
– non è favola inventata
per
gioco – non godevo del piacere
della
cetra armoniosa né traevo
suoni
dalle sue corde accompagnati
dalla
mia voce: modulavo suoni
da
una canna forata, figlio illustre
di
Latona e di Giove. Che ne sai
dell’amore,
ragazzo, se rifiuti
di
sopportare crudeltà e tormenti
di
un’unione sofferta? Usa lusinghe
e
lamenti, blandiscila: anche un cuore
duro
si vince. Se predice il vero
l’oracolo
del tempio, in nome mio
dille
così: ‘L’unione che promette
il
dio di Delo è questa, siine lieta
e
non volere più un altro marito’ ».
Disse
e il torpido sonno fuggì via
dal
corpo. Ah, se ignorassi tanto male!
Non
crederei che i nostri desideri
sono
diversi o che tu in cuore porti
tanta
colpa: non fosti generata
dalle
onde dell’oceano, o da Chimera
che
sputa fiamme, o dal cane col dorso
avvinghiato
da serpi, con tre lingue
e
tre teste, o da Scilla con il corpo
canino,
né crescesti dentro il grembo
di
feroce leonessa, o della barbara
terra
di Scizia, o dell’orrenda Sirti;
una
casa civile ti nutrì,
non
degna di persone senza cuore,
e
la più buona delle madri e un padre
tra
tutti il più cordiale. Possa un dio
volgere
in buona sorte quei cattivi
sogni
e un tiepido vento li sospinga
lontano
e renda vani.
Traduzione di Francesco Dalessandro
NOTA
Di
Lígdamo sappiamo pochissimo; possiamo appena supporre l’anno di nascita, forse
il 43 a. C., perché lo rivelano i suoi versi: natalem primo nostrum videre
parentes, / cum cecidit fato consul uterque pari. Quella data, giorno
natale o giorno del primo compleanno, ha fatto pensare che le sei elegie
fossero opera del giovane Ovidio, nato in quell’anno; ovvero del fratello, di
un anno maggiore. All’identificazione col poeta di Sulmona non è estraneo il fatto
che, in più d’un punto della sua opera, egli citi quasi alla lettera interi
versi di Lígdamo (e in particolare, in Tristia,
IV 10, 6, proprio quello che svela l’anno di nascita). Si tende, tuttavia, a
rifiutare quest’ipotesi, come varie altre. L’identità di Lígdamo è destinata a
restare ignota, ma questo niente toglie al valore della sua poesia.
Le sue elegie non
fluiscono distese come quelle di Tibullo, ma hanno un’andatura epigrammatica,
mossa e nervosa, e una loro caratteristica secchezza che impedisce eccessivi
abbandoni formali e che ce le fa piacere; l’abbandono, invece, è certo del
sentimento, in particolare dove meno si sente il debito con i predecessori di
situazioni e di lessico (come avviene, ad esempio, nella quarta elegia, che
forse troppo si dilunga a scapito della vivacità). La bravura formale è
evidente, specie nelle ultime due elegie: la quinta nel tono commosso
dell’addio alla vita e agli amici ignari; la sesta nell’altercare continuo con
se stesso, in un alternarsi nervoso, appunto ebbro, di elogio del vino e del
bere e di tristezza inconsolabile per l’abbandono amoroso.
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