lunedì 24 gennaio 2022

Sulpicia

 ELEGIE SULLL'AMORE


I

 

Per la tua festa, Marte, s’è agghindata

Sulpicia. Se sei saggio, di persona

scendi dal cielo per vederla; Venere

ti perdona, però bada alle armi,

irruento che sei: mentre la guardi,

con vergogna potrebbero caderti.

Due fiamme nei suoi occhi accende amore,

che infiammano gli dèi; qualunque cosa

faccia, dovunque vada e muova i passi

una segreta grazia l’accompagna.

Se libera le trecce, coi capelli

sciolti è bella; li lega e ricompone,

è due volte più bella. Se vestita

di porpora incede, t’infiamma;

se in veste bianca, luminosa, incontro

ti viene, infiamma. Così, sull’Olimpo

eterno, il dio Vertumno ha mille e mille

ornamenti  e con grazia li indossa.

Lei sola è degna tra tutte da Tiro

di ricevere soffici vesti

due volte tinte di preziosi succhi,

di possedere ogni nuovo profumo

che l’arabo distilla dalle essenze

dei suoi campi odorosi e le perle

raccolte sulla riva del Mar Rosso

dal nero indiano. Durante la festa,

lei, Pièridi, cantate, e tu, superbo

della tua lira, Febo. Per molti anni

celebrerà il solenne rito: degna

nessuna più di lei del vostro coro.


II

 

Il mio ragazzo risparmia, cinghiale

che verdi pascoli cerchi

di pianura, o l’ombra dei monti;

per assalirlo i denti aguzzi

non affilare: l’amore, sua scorta,

lo salvi e me lo renda

incolume. La dea di Delo

l’ispira: la passione per la caccia

lo porta lontano. Le selve

brucino, i cani scappino!

È folle, è folle cingere di reti

sui monti i fitti boschi

straziandosi le tenere mani!

E scendere furtivi nelle tane

delle fiere graffiandosi

le bianche gambe con le spine

dei rovi che piacere

può darti? Ma per stare

con te, Cerinto, per accompagnarti

su per i monti, io stessa porterei

le reti, cercherei

tracce del cervo, scioglierei

la catena del cane.

Luce mia, se davanti

alle reti, abbracciata

con te, potessi amarti abbandonata

alla passione, allora

allora, luce mia, sì che amerei

le selve; e se il cinghiale

s’avvicinasse ai lacci in quel momento,

senza turbare il nostro amore, illeso,

fuggirebbe. Il piacere

dell’amore per te non esista

senza di me, e tu, casto,

con mano casta tocca

la rete: è Diana che lo vuole

e chiunque tenti o insidi

quest’amore la sbranino le belve.

Ma ora lascia a tuo padre

la cura della caccia, torna,

corri veloce tra le mie braccia.


Traduzione di Francesco Dalessandro


NOTA

 

Servi filia Sulpicia. È l’unica notizia certa che abbiamo di questa ragazza poeta (del suo innamorato, Cerinto, si sa anche meno). La parentela con Messalla, che ne ebbe anche la tutela, ha fatto pensare che il padre fosse un tale Servio Sulpicio Rufo, nominato da Cicerone, e di Messalla forse cognato. Ma, dopotutto, cercare di stabilirne l’esatta identità è ozioso. Che Sulpicia facesse parte dell’aristocrazia romana, lo testimonia la raffinatezza della sua educazione, anche letteraria; ma a noi importa che – oltre a costituire un rarissimo esempio di poesia femminile in epoca romana – le sue microelegie, veri bigliettini amorosi, hanno un sapore di toccante, godibile freschezza, la grazia di un dire urgente e quasi smanioso, una secchezza incisiva e senza pudore, che va dritta allo scopo che le preme, al dire e al fare di una storia d’amore intensamente vissuta.

Diverso è il caso di chi rielaborò i suoi bigliettini, o da essi prese spunto per confezionare un piccolo ciclo di cinque elegie. Chi lo fece era poeta vero, non c’è dubbio; ma chi fosse anche in questo caso non sappiamo: si è pensato a Tibullo giovane, ma nel circolo di Messalla operavano forse anche poeti che non conosciamo e uno di essi potrebbe essere l’autore delle cinque elegie. In ogni caso, colui che scrive sull’amore di Sulpicia, pur nell’elaborata raffinatezza formale, e benché non abbia la stessa spontaneità – e tantomeno la sfrontatezza – della ragazza, mantiene un tono fresco e appassionato, diretto e incisivo, di buona presa emotiva.

SEGUE

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