mercoledì 16 ottobre 2024

Camillo Fonte

QUATTRO LEZIONI DI CAMILLO FONTE

 

Terza lezione: La chiarezza

  

«Oggi parliamo di canzoni… Anzi, di canzonette».

I ragazzi reagirono a quelle parole agitandosi

nei banchi e mormorando increduli fra loro.

«No, non quelle che credete – che ascoltate

ogni giorno alla radio. Parleremo di “canzonette

poetiche”, di quelle che i poeti scrivevano

nel Settecento e oltre… » Delusi, i ragazzi

ammutolirono. Lui continuò ignorando

le reazioni che le sue parole avevano suscitato.

«Ma prima vorrei che fosse chiaro

quale dev’essere la sola, vera preoccupazione

del poeta: la chiarezza.

Sì, la chiarezza, perché (parole di Stendhal:

ma di lui parleremo un’altra volta)

«soltanto la chiarezza può rappresentare

ciò che un uomo sente». S’intende, chiarezza

sintattica, non solo di senso. E chiarezza

significa disporre le parole in un loro

“ordine naturale”. Significa non piegare

l’ordine sintattico della frase ad esigenze metriche».

Nessuno parlava. Nemmeno un sussurro.

Nemmeno un mormorio, Ne fu stupito.

Ma che cosa pensavano quei giovani

aspiranti ragionieri? Era difficile che “avessero

contezza” di quel che stava loro dicendo.

Restavano in silenzio, aspettando che lui

riprendesse a parlare. Lo guardavano. Milioni

di eccezioni, voleva riprendere, se – dice

san Girolamo – anche l’ordine delle parole

è un mistero. Lo pensò ma non lo disse.

«Le convenzioni metriche, gli artifici, minacciano

la naturalezza (del discorso e della lingua)

e tendono continuamente a sopraffarla».

Fin là i ragazzi avevano ascoltato in silenzio,

senza fiatare, affascinati dalle parole e dal tono

del giovane professore. E quando lui tacque

per riprendere fiato, e anche forse per capire

se quello che diceva li stesse interessando, 

i ragazzi non si mossero. Fu lieto della loro

attenzione e, scendendo dalla cattedra, riprese

il discorso, guardandoli serio. «Sapete?

A ogni verso si aprono trabocchetti. Il poeta,

per non caderci, deve vigilare di continuo,

essere sempre desto e concentrato». Qui

si rese conto che stava parlando più a sé stesso

che ai ragazzi. Era lui il poeta! Quel discorso

lo riguardava direttamente: la chiarezza

era un suo cruccio. I ragazzi lo guardavano

sospesi. «E in questo dover essere chiari

a tutti i costi c’entra l’abilità del poeta»

precisò rivolto alla classe. «Ma facciamo

qualche esempio, leggendo alcune di quelle

canzonette. Ascoltate:

 

Credei ch’al tutto fossero

in me, sul fior degli anni,

mancati i dolci affanni

della mia prima età:

i dolci affanni, i teneri

moti del cor profondo,      

qualunque cosa al mondo

grato il sentir ci fa [1].

 

Per prima cosa sentiamo il ritmo. Forse nemmeno

ci rendiamo conto di aver letto una strofetta

metastasiana. Ma il contrasto tra la forma

e il contenuto genera effetti di straordinaria

intensità. Viceversa, se leggiamo:

 

Qual masso che dal vertice

di lunga erta montana,

abbandonato all’impeto

di rumorosa frana,

per lo scheggiato calle

precitando a valle,

batte sul fondo e sta… [2]

 

neanche qui forse vediamo subito lo stampo, ma

“precipitiamo”, senza volerlo, nella cantilena. 

Non siete d’accordo?» Nessuno osò rispondere.

«Beh, forse esagero» disse allora «ma fate voi

la prova, se volete. Capite dov’è la differenza

di ritmo fra i due testi? Per me è proprio

nella scelta e nell’ordine delle parole, e fin dal

primo verso, nelle pause. Torniamo all’esempio:

Credei ch’al tutto (pausa) fossero (breve pausa,

stavolta per la fine del verso, e inarcatura al verso

successivo) in me (pausa forte) sul fior degli anni…

ecc.; lo stesso ritmo, con le stesse pause

(quinario, bisillabo, bisillabo, quinario), si ripete

ai primi due versi della seconda quartina.

Nel secondo caso, invece, per quanto si voglia

leggere con lentezza e sentimento, quel primo

verso ha già un’impronta decisa: Qual masso che

(solo qui, a metà verso, interviene una pausa,

ma forzatamente brevissima, quasi impercettibile)

dal vertice (nessuna inarcatura, perciò pausa lunga,

caduta al secondo verso) di lunga erta montana…

E via di seguito, allo stesso modo. Mi capite?

Capite quel che sto dicendo?» Nessuno rispose.

Qualcuno fece “sì” con la testa. «Ma c’è un terzo

caso. Leggiamo:

 

Son luce ed ombra; angelica

farfalla o verme immondo,

sono un caduto chèrubo

dannato a errar sul mondo,

o un demone che sale,

affaticando l’ale,

verso un lontano ciel [3].

 

L’abilità non manca. Il ritmo è mosso, le pause

nel distico iniziale sono come nel primo caso,

considerata l’inarcatura: angelica /farfalla,

c’è la prima di una serie di anafore: son /sono,

c’è il dualismo luce-ombra, farfalla-verme,

c’è il gioco del rovesciamento: alto-basso-alto;

insomma c’è mestiere, (ma quel chèrubo   

sapete cos’è? un cherubino – alle orecchie

nostre di “moderni” suona brutto. Il poeta,

non si fosse adattato per rispetto del metro,

avrebbe scelto un’altra parola?).

                                                          I tre poeti

partono dallo schema di una “canzonetta”,

composta di strofette di otto versi di settenari

in voga nel Settecento. Il primo lo utilizza

tale e quale rivitalizzandolo nel ritmo, con

l’agilità delle inarcature e con l’eleganza,

p. e., di quella ripetizione, i dolci affanni

alla fine del terzo e all’inizio del quinto verso,

seguito dalla bellissima inarcatura: teneri

moti (i dolci affanni del cuore: la bellezza

dell’espressione – con un tipico enjambement  

imparato dal Tasso: aggettivo sospeso

sul sostantivo all’inizio del verso che segue.

La bellezza, dicevo è così evidente e viva,

anche nel suono, che ogni altro commento

lo credo superfluo). Il secondo poeta rinnova

lo schema rinunciando a un verso, alternando

uno sdrucciolo libero a un piano rimato,

seguiti da un distico a rima baciata e da un

tronco, accentuando il sincopato un po’ mono

tono (monotono) della strofetta (però abile:

riesce a farci sentire il rumore di una frana

che rotola a valle, anche se poi l’effetto

si perde nelle strofe successive): il risultato

a mio modo di vedere, è un po’ convenzionale

e non l’aiuta partire con una similitudine, che

dilata, respingendolo a fine strofe, tutto il senso

del discorso. Quanto al terzo poeta, ricalca

l’innovazione del secondo, innervandola con

un abile uso della tecnica, ma la capacità

non offre un risultato degno degli sforzi,

perciò tutto resta un po’ freddo. Insomma,

ragazzi, si vede così la supremazia del primo

poeta sul secondo e, ovvio, di questi sul terzo».  

Concluse così proprio mentre la campanella

suonava la fine della lezione. Raccolse

i libri sulla cattedra e s’avviò verso la porta.  

«A domani» disse uscendo. Sentì dietro

il brusio della classe, liberata dalla tensione.



[1] Giacomo Leopardi, Il risorgimento

[2] Alessandro Manzoni, Il Natale

[3] Arrigo Boito, Dualismo

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