venerdì 8 giugno 2012
Pere Gimferrer
APPARIZIONI
II
Se il cielo grida e senti che ti chiama
con un grido d’abisso, se ti attira
in alto, nel profondo, dov’è più oscura
la chioma di neve degli astri o il gelo
a squame della notte, o se tu stesso
gridi ancora più forte e non ti stanchi
d’ascoltare la tua voce, sgradevole
come all’udito debole di un sordo,
o insidiosa e nuda come l’acqua
ferita dai bagliori della falce lunare;
se ti chiamano al centro di te stesso
e in quel chiamarti trovi un centro;
se, nodo di luce, appari a te stesso;
se interiore è il richiamo, guardando
in te vedrai il sogno che ho sognato
stanotte? Ma vedere non è la parola.
Non lo vedevo: ero io stesso il sogno.
Non è che mi vedessi, ma era essere
qualcosa che esisteva e che ero io.
Perché il tema delle apparizioni
è il tema dell’io. Però in quel caso
non vedevo una concreta identità:
non m’appariva alcuna immagine.
Non c’era sdoppiamento, né sguardo.
Era la vita in negativo, stato nullo,
il silenzio del fiume disseccato,
la chiarità del cielo che spoglio d’azzurro
è sempre cielo: un fulgore invisibile,
sentito come vuoto di visibilità.
Come il letto di un fiume: terra, pietra,
quiete di devastata aridità,
ramo, verde rancore che è fuggito
dal mondo vegetale, umidità
bevute dal deserto. Cambia la luce
e, guarda, tutto è roccia, polverio
famelico: per questo esiste l’acqua.
È un’assenza, violenta come il sole,
pietrificata, che non scorre, ferro
incrostato d’immobilità, acqua
libera d’acqua che pesa nel letto
del fiume, o il rumore dell’acqua
che non scorre in questo fiume secco.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da Espejo, espacio y apariciones, Visor Poesia, 1988
Questa è la seconda parte del poemetto Apparizioni, del 1978, composto di otto parti.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento