COMPLEANNO
(da Sulpicia, Corpo tibulliano, III, 14 e 15)
*
Che vuoto compleanno
senza vederti! La campagna è triste
come me. Roma annoia. Dove sei?
*
«Non atteso il tuo nuovo compleanno
è giunto. Un anno in più. Cos’è cambiato?
Con non indegni amici
festeggialo l’anno che finisce
se ti lascia anche un solo
ricordo d’amore.
Se no piangilo, sola. Dimenticalo presto».
(inedita)
lunedì 31 marzo 2014
venerdì 28 marzo 2014
Alessandro Ricci
IL MILLE DI MARZO
Oggi
è il mille
di marzo. Fatti
i calcoli, fatti
i nomi che pesano.
Roma, la mattina del 27 marzo 1982
da L’editto finale, Il Labirinto, 2014
Oggi
è il mille
di marzo. Fatti
i calcoli, fatti
i nomi che pesano.
Roma, la mattina del 27 marzo 1982
da L’editto finale, Il Labirinto, 2014
mercoledì 26 marzo 2014
Fabio Ciriachi
AUTOCOSCIENZA NARRATIVA
Ho un anno in più di quanti ne aveva
Harold Brodkey quando è morto
e non ho scritto neanche un decimo
della sua elegante bellezza.
Quanto longevo dovrò sopportarmi
per annullare un po’ della distanza
che tuttora mi separa da uno
dei pochi maestri eletti a custodi
della grata fatica che mi costa
tradurre la rozzezza ereditata
in una chiara voce tutta mia
da lasciare ai figli naturali
e agli altri che potrei acquisire
nel tempo consentito a migliorarmi?
Da Pastorizia, Empiria, 2011
Ho un anno in più di quanti ne aveva
Harold Brodkey quando è morto
e non ho scritto neanche un decimo
della sua elegante bellezza.
Quanto longevo dovrò sopportarmi
per annullare un po’ della distanza
che tuttora mi separa da uno
dei pochi maestri eletti a custodi
della grata fatica che mi costa
tradurre la rozzezza ereditata
in una chiara voce tutta mia
da lasciare ai figli naturali
e agli altri che potrei acquisire
nel tempo consentito a migliorarmi?
Da Pastorizia, Empiria, 2011
lunedì 24 marzo 2014
Roberto Coppini
HO UCCISO MIA MADRE RENDE SUPERFLUA
Ho ucciso mia madre rende superflua
la ricerca dell'arma. Sarebbe meglio
applicarsi alle leggi che governano
la nostra inimicizia, che avranno orbite,
fulcri, accelerazioni.
Mandatari e mandanti si scambiano le parti.
Il tessuto cardiaco agisce
per conto proprio: così la mano
che arresta la morte sul capo di Isacco.
Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978
Ho ucciso mia madre rende superflua
la ricerca dell'arma. Sarebbe meglio
applicarsi alle leggi che governano
la nostra inimicizia, che avranno orbite,
fulcri, accelerazioni.
Mandatari e mandanti si scambiano le parti.
Il tessuto cardiaco agisce
per conto proprio: così la mano
che arresta la morte sul capo di Isacco.
Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978
venerdì 21 marzo 2014
Alessandro Peregalli
COMPLEANNO
È tornata primavera.
L’aria s’è fatta dolce e il cielo azzurro terso
si stende fino all’orizzonte latteo incurvandosi sulla terra.
I drammi dell’anima si placano, l’inquinamento, la guerra,
sotto questa cupola sensibile, tesa dell’aria nuova.
Nel verde silenzio della mattina
dai boschi una montagna come una gemma rosa
esala il suo profumo lieve
al cielo, spirito delle selve.
Cinquanta voli di bava azzurra in cielo ha compiuto la Terra
attorno al Fuoco Idrelio da che il mio volto
uscì dalla notte della prenascita e fu circondato di luce.
Da La cronaca. Poema 1939-1982, il Saggiatore, 2003
È tornata primavera.
L’aria s’è fatta dolce e il cielo azzurro terso
si stende fino all’orizzonte latteo incurvandosi sulla terra.
I drammi dell’anima si placano, l’inquinamento, la guerra,
sotto questa cupola sensibile, tesa dell’aria nuova.
Nel verde silenzio della mattina
dai boschi una montagna come una gemma rosa
esala il suo profumo lieve
al cielo, spirito delle selve.
Cinquanta voli di bava azzurra in cielo ha compiuto la Terra
attorno al Fuoco Idrelio da che il mio volto
uscì dalla notte della prenascita e fu circondato di luce.
Da La cronaca. Poema 1939-1982, il Saggiatore, 2003
mercoledì 19 marzo 2014
William Carlos Williams
SPIRITO DEL FUOCO
Io sono vecchio.
Voi vi scaldate a questi fuochi?
In mezzo a queste fiamme
io siedo, e batto i denti.
A chi mi volgerò per un conforto?
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991
Io sono vecchio.
Voi vi scaldate a questi fuochi?
In mezzo a queste fiamme
io siedo, e batto i denti.
A chi mi volgerò per un conforto?
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991
lunedì 17 marzo 2014
Yvor Winters
A EMILY DICKINSON
Emily cara, le mie lacrime brucerebbero la tua pagina,
se l’asciutto fuoco del verso non ardesse loro –
bruciandomi gli occhi, e le dita, mentre rivolto
ognuna delle parole che m’increspano il cuore con l’età.
Se un pellegrinaggio tormentato attraverso le parole
o il Tempo o la vuota pena del Fato io potessi fare
e inginocchiarmi innanzi a te come tu trovasti la tomba,
allora potrei alzarmi a fronteggiare la mia eredità.
La tua era una vuota solitudine d’altopiano
sbiancata dalla polvere di un nome morente;
la mente, persa nella persa certezza d’una parola
che si attutiva via via che passi attutiti venivano
a tracciare un epilogo a parole diventate oscure
nell’accanita discussione che conduceva a Dio.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da Collected Poems, Swallow Press Inc., 1960
Emily cara, le mie lacrime brucerebbero la tua pagina,
se l’asciutto fuoco del verso non ardesse loro –
bruciandomi gli occhi, e le dita, mentre rivolto
ognuna delle parole che m’increspano il cuore con l’età.
Se un pellegrinaggio tormentato attraverso le parole
o il Tempo o la vuota pena del Fato io potessi fare
e inginocchiarmi innanzi a te come tu trovasti la tomba,
allora potrei alzarmi a fronteggiare la mia eredità.
La tua era una vuota solitudine d’altopiano
sbiancata dalla polvere di un nome morente;
la mente, persa nella persa certezza d’una parola
che si attutiva via via che passi attutiti venivano
a tracciare un epilogo a parole diventate oscure
nell’accanita discussione che conduceva a Dio.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da Collected Poems, Swallow Press Inc., 1960
venerdì 14 marzo 2014
Kenneth Rexroth
PROTOPLASMA DI LUCE
Quanto tempo fa
Frances e io andammo in metro
al Van Cortlandt Park. La gente
era tutta eccitata, ragazzini e storpi
vendevano occhiali neri.
Corremmo verso le colline
aperte a nord della stazione
come fosse troppo tardi e restammo
lì, mano nella mano, in attesa.
Sotto gli alberi, il sole tra i rami
spogli creava piccole lunule di luce,
sulla neve. Il cielo ingrigì
e si svuotò. Una dopo l’altra
spuntarono le stelle. Il sole
alla fine fu appena una falce
sottile sugli occhiali, coi vicini
pianeti luminosi a sorvegliarlo.
Poi, in cielo, saltò fuori
la grande ameba di gelida luce
cristallina. Il vento passò oltre
come una folla silenziosa. La folla
singhiozzò come un soffio
di vento. Tutti i cani ulularono.
Il silenzioso protoplasma di luce
s’arrestò nelle viscere buie
del cielo, circondato da un anello
di fuoco rosso vivo, il suo nucleo
nero-pietra. Mercurio se ne stava
silenzioso là vicino, freddo
e scuro come una scaglia di ferro.
Fu tanto tempo fa.
In spiaggia, io e Mary guardiamo
il sole sprofondare nell’oceano
ventoso. Strati di vapore spaccano
il disco, che sembra un’enorme
pagoda di rame. La spuma
soffia oltre le nostre facce,
una medusa pulsa nell’acqua
immota, si schiaccia sulla sabbia
umida ai nostri piedi. Scende
il crepuscolo e appaiono tutti
i pianeti visibili: prima
Venere, poi Giove, Marte,
Saturno e di nuovo Mercurio.
Le foche berciano sulle rocce.
Racconto a Mary di Keplero,
e di come Mercurio, che lui
non aveva mai visto, brillasse
alla finestra mentr’egli moriva,
troppo tardi perché potesse
vederlo. Il misterioso cono
di luce s’appoggia sull’orizzonte,
nel cielo pallido. Io le dico:
«Non si sa cosa sia né dove sia.
Forse è la grande nube di gas
intorno al sole che vedrai
un giorno di questi, se sarai
fortunata, perché si distingue
solo durante un’eclisse.
Io l’ho vista molto tempo
fa».
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
Quanto tempo fa
Frances e io andammo in metro
al Van Cortlandt Park. La gente
era tutta eccitata, ragazzini e storpi
vendevano occhiali neri.
Corremmo verso le colline
aperte a nord della stazione
come fosse troppo tardi e restammo
lì, mano nella mano, in attesa.
Sotto gli alberi, il sole tra i rami
spogli creava piccole lunule di luce,
sulla neve. Il cielo ingrigì
e si svuotò. Una dopo l’altra
spuntarono le stelle. Il sole
alla fine fu appena una falce
sottile sugli occhiali, coi vicini
pianeti luminosi a sorvegliarlo.
Poi, in cielo, saltò fuori
la grande ameba di gelida luce
cristallina. Il vento passò oltre
come una folla silenziosa. La folla
singhiozzò come un soffio
di vento. Tutti i cani ulularono.
Il silenzioso protoplasma di luce
s’arrestò nelle viscere buie
del cielo, circondato da un anello
di fuoco rosso vivo, il suo nucleo
nero-pietra. Mercurio se ne stava
silenzioso là vicino, freddo
e scuro come una scaglia di ferro.
Fu tanto tempo fa.
In spiaggia, io e Mary guardiamo
il sole sprofondare nell’oceano
ventoso. Strati di vapore spaccano
il disco, che sembra un’enorme
pagoda di rame. La spuma
soffia oltre le nostre facce,
una medusa pulsa nell’acqua
immota, si schiaccia sulla sabbia
umida ai nostri piedi. Scende
il crepuscolo e appaiono tutti
i pianeti visibili: prima
Venere, poi Giove, Marte,
Saturno e di nuovo Mercurio.
Le foche berciano sulle rocce.
Racconto a Mary di Keplero,
e di come Mercurio, che lui
non aveva mai visto, brillasse
alla finestra mentr’egli moriva,
troppo tardi perché potesse
vederlo. Il misterioso cono
di luce s’appoggia sull’orizzonte,
nel cielo pallido. Io le dico:
«Non si sa cosa sia né dove sia.
Forse è la grande nube di gas
intorno al sole che vedrai
un giorno di questi, se sarai
fortunata, perché si distingue
solo durante un’eclisse.
Io l’ho vista molto tempo
fa».
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
mercoledì 12 marzo 2014
Dina Basso
AJU NA VINA
Aju na vina
ca sutta a carni nun ci vola stari:
suli nunn’i pò pigghiari
e idda,
buttana,
acchiana a picca a picca,
picchì vola a luci e u caudu.
Ju a chiamu “l’autostrata”
e u dutturi ha dittu
ca ccon paru di ’gnizioni
si nni cala n’atra vota;
ju però ma scantu:
e suddu fussa a vina poetica
e ddopu nunn’a scrivu cchiù?
Ho una vena / che sotto la carne non ci vuole stare: / sole non ne può prendere / e lei, / puttana, / sale a poco a poco, / percné vuole luce e caldo. / Io la chiamo “l’autostrada” / e il dottore ha detto / che con un paio di punture / si sgonfia un’altra volta; / io però mi spavento: / e se fosse la vena poetica / e dopo non scrivo più?
Da La generazione entrante, poeti nati negli anni Ottanta, a cura di Matteo Fantuzzi, Giuliano Ladolfi Editore, 2011
Aju na vina
ca sutta a carni nun ci vola stari:
suli nunn’i pò pigghiari
e idda,
buttana,
acchiana a picca a picca,
picchì vola a luci e u caudu.
Ju a chiamu “l’autostrata”
e u dutturi ha dittu
ca ccon paru di ’gnizioni
si nni cala n’atra vota;
ju però ma scantu:
e suddu fussa a vina poetica
e ddopu nunn’a scrivu cchiù?
Ho una vena / che sotto la carne non ci vuole stare: / sole non ne può prendere / e lei, / puttana, / sale a poco a poco, / percné vuole luce e caldo. / Io la chiamo “l’autostrada” / e il dottore ha detto / che con un paio di punture / si sgonfia un’altra volta; / io però mi spavento: / e se fosse la vena poetica / e dopo non scrivo più?
Da La generazione entrante, poeti nati negli anni Ottanta, a cura di Matteo Fantuzzi, Giuliano Ladolfi Editore, 2011
lunedì 10 marzo 2014
Stefania Portaccio
BIANCANEVE REGINA
ora sono regina – non si scappa
ero giovane, anche da questo non si scappa
e la matrigna aveva un sesto senso
chiamato specchio
un orecchio sottile
uno spillone vecchio
tramandato
col quale mi avrebbe volentieri trapassato
ero irritante
canterina e saccente e –
chiaro già a lei ma non ancora a me –
in cerca di un amante
lei una bestia ferita:
si era appena affacciata un’ignorante
fragrante di biancore
e stava vincendo la partita
la regina amava il cacciatore
lo teneva sul petto
lo cullava per ore ma distante
si era fatto l’amante
da qui il duello: al cuore
Ramòn ingiunse la matrigna al cacciatore
e lo voglio mangiare aggiunse
ora mi dico che l’avesse inghiottito
davvero non sarebbe ferito
tanto da somigliarle
ed invece ora somiglia:
siamo – non si scappa – una famiglia
ma il cacciatore, Ramòn
stanco della catena, e preso
dall’idea di violare
la mia animuccia stretta col beau geste
mi avvisò di fuggire e portò un cuore
fittizio che lei mangiò sanglant
se invece di avere lui un cuore rotto
e slabbrato
mi avesse messa sotto?
volevo quello: degradata
ad ordinaria sposa
chiavata nel capanno al tempo giusto
me la sarei spassata, credo
me la sarei cavata
invece corsi via grata
distratta da voglie vaghe di un castello
mio, e solo dentro di questo quello.
Giunsi, annunciata da folate
del mio giovane odore, bagnati
i capelli di sudore
a casa di sette uomini attempati.
Tralascio la sporcizia, lo scombino.
Servì la dedizione alla casetta
a sviarli? Le pietanze a stordirli?
No: furon tristi come mai fu prima
perché la casa gode la padrona
e l’uomo la sua mamma
e io fui la manna e gli cambiai la vita
in rimpianto per un’ avventuriera
che amava en passant essere ambita
da sette e ventisette e trentasette
ma invero ambiva
a sistemarsi in un maniero
modello, e dentro di questo quello
una tipa casuale, passeggera
che appena sola tornava quella sciocca
sognatrice che abbocca.
L’ossessa non cessava di saperlo
– era stata ragazza –
usò i suoi trucchi e vinse:
mi ritrovai sotto un cristallo morta
e lei a riposo coi piedi sul divano
i nani orfani e vedovi a vegliare
la bara a turno – ognuno
in lutto eterno e singolare –
il principe di là, molto, da venire
ma venne – non si scappa – e tanto fece
che mi portò con sé seppure morta.
Giurò persino: la onorerò di più
(più che da viva, senza fare quello?
o pensava di farlo tra le braccia cascanti
o tra le gambe immote come lunghe carote?)
abbagliati dal rango e dall’onore
i sette per quanto a malincuore
mi lasciarono andare, portata a spalla, morta.
Un portatore prese poi una storta
la bara di conseguenza uno scossone
e dalla salma fuoriuscì il boccone
di mela dalla gola: tornai alla vita
spalancai gli occhioni e vidi il viso
d’un tizio sconosciuto che spergiurava
d’ amore e paradiso.
Dissi subito sì e restai supina:
sarei stata regina
per prima cosa un velo ricamato
uno strascico assurdo ed infinito
poi invitare alle nozze l’assassina
e metterla alla berlina
infine avrei avuto il mio castello e dentro questo quello
volevo? non proprio come un tempo
a perdifiato, che avrei corso e implorato
e festeggiato e riso come una matta
ma l’avrei avuto il sacrosanto
ambaradan ed ero
soddisfatta
con il consenso del mio nuovo signore
mi presi, come era costume, la vendetta:
misi alla berlina la sciacquetta
e poi la feci morire di calore
Il boss pensò che lavassi la mia morte
mi credeva comune, ma segreta
sempre fui al mio consorte analfabeta:
grigia sorte fu averlo per signore
morì la strega urlando di dolore
perché mi aveva ucciso il cacciatore
da Il padre di Cenerentola e altre storie, inedito
ora sono regina – non si scappa
ero giovane, anche da questo non si scappa
e la matrigna aveva un sesto senso
chiamato specchio
un orecchio sottile
uno spillone vecchio
tramandato
col quale mi avrebbe volentieri trapassato
ero irritante
canterina e saccente e –
chiaro già a lei ma non ancora a me –
in cerca di un amante
lei una bestia ferita:
si era appena affacciata un’ignorante
fragrante di biancore
e stava vincendo la partita
la regina amava il cacciatore
lo teneva sul petto
lo cullava per ore ma distante
si era fatto l’amante
da qui il duello: al cuore
Ramòn ingiunse la matrigna al cacciatore
e lo voglio mangiare aggiunse
ora mi dico che l’avesse inghiottito
davvero non sarebbe ferito
tanto da somigliarle
ed invece ora somiglia:
siamo – non si scappa – una famiglia
ma il cacciatore, Ramòn
stanco della catena, e preso
dall’idea di violare
la mia animuccia stretta col beau geste
mi avvisò di fuggire e portò un cuore
fittizio che lei mangiò sanglant
se invece di avere lui un cuore rotto
e slabbrato
mi avesse messa sotto?
volevo quello: degradata
ad ordinaria sposa
chiavata nel capanno al tempo giusto
me la sarei spassata, credo
me la sarei cavata
invece corsi via grata
distratta da voglie vaghe di un castello
mio, e solo dentro di questo quello.
Giunsi, annunciata da folate
del mio giovane odore, bagnati
i capelli di sudore
a casa di sette uomini attempati.
Tralascio la sporcizia, lo scombino.
Servì la dedizione alla casetta
a sviarli? Le pietanze a stordirli?
No: furon tristi come mai fu prima
perché la casa gode la padrona
e l’uomo la sua mamma
e io fui la manna e gli cambiai la vita
in rimpianto per un’ avventuriera
che amava en passant essere ambita
da sette e ventisette e trentasette
ma invero ambiva
a sistemarsi in un maniero
modello, e dentro di questo quello
una tipa casuale, passeggera
che appena sola tornava quella sciocca
sognatrice che abbocca.
L’ossessa non cessava di saperlo
– era stata ragazza –
usò i suoi trucchi e vinse:
mi ritrovai sotto un cristallo morta
e lei a riposo coi piedi sul divano
i nani orfani e vedovi a vegliare
la bara a turno – ognuno
in lutto eterno e singolare –
il principe di là, molto, da venire
ma venne – non si scappa – e tanto fece
che mi portò con sé seppure morta.
Giurò persino: la onorerò di più
(più che da viva, senza fare quello?
o pensava di farlo tra le braccia cascanti
o tra le gambe immote come lunghe carote?)
abbagliati dal rango e dall’onore
i sette per quanto a malincuore
mi lasciarono andare, portata a spalla, morta.
Un portatore prese poi una storta
la bara di conseguenza uno scossone
e dalla salma fuoriuscì il boccone
di mela dalla gola: tornai alla vita
spalancai gli occhioni e vidi il viso
d’un tizio sconosciuto che spergiurava
d’ amore e paradiso.
Dissi subito sì e restai supina:
sarei stata regina
per prima cosa un velo ricamato
uno strascico assurdo ed infinito
poi invitare alle nozze l’assassina
e metterla alla berlina
infine avrei avuto il mio castello e dentro questo quello
volevo? non proprio come un tempo
a perdifiato, che avrei corso e implorato
e festeggiato e riso come una matta
ma l’avrei avuto il sacrosanto
ambaradan ed ero
soddisfatta
con il consenso del mio nuovo signore
mi presi, come era costume, la vendetta:
misi alla berlina la sciacquetta
e poi la feci morire di calore
Il boss pensò che lavassi la mia morte
mi credeva comune, ma segreta
sempre fui al mio consorte analfabeta:
grigia sorte fu averlo per signore
morì la strega urlando di dolore
perché mi aveva ucciso il cacciatore
da Il padre di Cenerentola e altre storie, inedito
venerdì 7 marzo 2014
William Shakespeare
PRENDI TUTTI I MIEI AMORI
Prendi tutti i miei amori, amore, sì prenditeli tutti
e che cosa avrai in più che non avevi prima?
Nessun amore, amor mio, che vero amore
tu possa chiamare, il mio tutto era tuo prima ancora
che in più questo avessi. Così, se per amore
mio ricevi l’amor mio non posso biasimarti
per l’uso che ne fai. Ma se inganni te stesso,
gustando con bramosia ciò che rifiuti, sarai
biasimato. Io, ladro gentile, il tuo furto perdono
anche se d’ogni povero avere mi derubi.
L’amore ben sa com’è più doloroso sopportare
il torto d’amore che non dell’odio l’offesa diretta.
Lasciva grazia, in cui tutto il male sembra bene,
uccidimi col disprezzo, non essermi nemico.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da William Shakespeare, Complete Sonnets and Poems, Oxford University Press, 2002
Prendi tutti i miei amori, amore, sì prenditeli tutti
e che cosa avrai in più che non avevi prima?
Nessun amore, amor mio, che vero amore
tu possa chiamare, il mio tutto era tuo prima ancora
che in più questo avessi. Così, se per amore
mio ricevi l’amor mio non posso biasimarti
per l’uso che ne fai. Ma se inganni te stesso,
gustando con bramosia ciò che rifiuti, sarai
biasimato. Io, ladro gentile, il tuo furto perdono
anche se d’ogni povero avere mi derubi.
L’amore ben sa com’è più doloroso sopportare
il torto d’amore che non dell’odio l’offesa diretta.
Lasciva grazia, in cui tutto il male sembra bene,
uccidimi col disprezzo, non essermi nemico.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da William Shakespeare, Complete Sonnets and Poems, Oxford University Press, 2002
mercoledì 5 marzo 2014
Roberto Coppini
DIO È UNA REMOTA NOTIZIA
Che ne sappiamo noi
degli usignoli
o delle ciminiere,
dei continenti inesplosi,
del polline che incalza,
dell'accoppiarsi tra medesimi sessi?
Un tempo ci batte negli occhi.
Lo scirocco romba negli androni
sbocca nei sottopassaggi,
tutta la terra
è un tremare come di nave.
Nelle isole di corallo
le tartarughe cercano la morte.
Ariete si accosta alla luce.
La razza animale si desta.
Invaghisco di tutto.
Levigo pietre,
insemino trame precarie
lo smalto acuto della foglia
la pomice sui muri.
L’ellisse dei morti
ingorga la terra.
Le montagne sollevano la chioma
a un vento
che raschia i grumi dell'ossido.
Nell’abisso si scuote
il fossile. Dio
è una remota notizia.
30 aprile 1968
Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978
Che ne sappiamo noi
degli usignoli
o delle ciminiere,
dei continenti inesplosi,
del polline che incalza,
dell'accoppiarsi tra medesimi sessi?
Un tempo ci batte negli occhi.
Lo scirocco romba negli androni
sbocca nei sottopassaggi,
tutta la terra
è un tremare come di nave.
Nelle isole di corallo
le tartarughe cercano la morte.
Ariete si accosta alla luce.
La razza animale si desta.
Invaghisco di tutto.
Levigo pietre,
insemino trame precarie
lo smalto acuto della foglia
la pomice sui muri.
L’ellisse dei morti
ingorga la terra.
Le montagne sollevano la chioma
a un vento
che raschia i grumi dell'ossido.
Nell’abisso si scuote
il fossile. Dio
è una remota notizia.
30 aprile 1968
Da Le posate sul piatto, Edizioni Salvatore Sciascia, 1978
lunedì 3 marzo 2014
Vincenzo Cardarelli
LA SPERANZA È NELL’OPERA
La speranza è nell’opera.
Io sono un cinico a cui rimane
per la sua fede questo al di là.
Io sono un cinico che ha fede in quel che fa.
da Opere Complete, Mondadori, 1962
La speranza è nell’opera.
Io sono un cinico a cui rimane
per la sua fede questo al di là.
Io sono un cinico che ha fede in quel che fa.
da Opere Complete, Mondadori, 1962
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