A PAOLO BARDELLI
Se potessimo berlo a Cipro
questo
vinello pazzo, nel cuore
d’una rinascita greca,
noi chi saremmo?
Fedeli
estri di luce sulle acque
del porto, sul banco
della taverna e fuori,
di prima
effusa mattina nella ragna
albina dei battelli – vele
biancastre in rotoli –, nel fiotto
pigro della crespa al molo
e azzurro
delle rondini in alto.
Qui saremmo canuti
provati e inutili, gente
imprevista e forse
non esistente, memore
dei fatti veri così
come dei falsi; o dimentica,
e priva di desideri al soldo
d’un bicchiere di giallo
pieno, le scarpe
nel terriccio che non tentenna
insieme agli alberi ubriachi
dei pescherecci.
«Sarà meglio, sarà
peggio?»: esiliati
a contare i giorni
dall’estro alla rinuncia,
e da questa al poi, in una
delusissima cala, di mare,
di male biavi e silenti,
perché farsi domande?
Avremmo motivo di suono
se conoscessimo le voci
e i modi dell’amnesia,
perché il divieto anche
della parola ha una cronica
storia.
La Venere locale non ha paura
di noi – bionda di spuma
o nera di baracca – se le molte
stanchezze invadono l’oggi
e invecchiano i domani
nel suo giardino stregato.
Da L’editto finale, Edizioni Il Labirinto, 2014
venerdì 29 agosto 2014
mercoledì 27 agosto 2014
Philip Larkin
TRISTI PASSI
Brancolando verso il letto dopo una pisciata
schiudo le tende spesse: le nuvole veloci
e il lindore della luna mi fanno trasalire.
Le quattro: l’intaglio delle ombre si stende nei giardini
sotto un cielo cavernoso, netto di vento.
C'è qualcosa di ridicolo in tutto questo,
nel modo in cui la luna se la fila tra le nuvole, che soffiano
sfilacciate come fumo di cannone, per mettersi in disparte
(in basso una luce color pietra affila i tetti)
alta, assurda e distaccata –
Losanga d’amore! Medaglione d’arte!
Oh lupi della memoria! Immensità! No,
ti prende un brivido sottile a guardare lassù in alto.
La durezza, lo splendore e la semplice
e vasta unicità di quello sguardo
sono un ricordo della forza e del dolore
della gioventù; non potrà tornare,
ma in qualche parte resta, per gli altri, intatta.
Traduzione di Enrico Testa
da Finestre alte, Einaudi, 2002
Brancolando verso il letto dopo una pisciata
schiudo le tende spesse: le nuvole veloci
e il lindore della luna mi fanno trasalire.
Le quattro: l’intaglio delle ombre si stende nei giardini
sotto un cielo cavernoso, netto di vento.
C'è qualcosa di ridicolo in tutto questo,
nel modo in cui la luna se la fila tra le nuvole, che soffiano
sfilacciate come fumo di cannone, per mettersi in disparte
(in basso una luce color pietra affila i tetti)
alta, assurda e distaccata –
Losanga d’amore! Medaglione d’arte!
Oh lupi della memoria! Immensità! No,
ti prende un brivido sottile a guardare lassù in alto.
La durezza, lo splendore e la semplice
e vasta unicità di quello sguardo
sono un ricordo della forza e del dolore
della gioventù; non potrà tornare,
ma in qualche parte resta, per gli altri, intatta.
Traduzione di Enrico Testa
da Finestre alte, Einaudi, 2002
lunedì 25 agosto 2014
Roberto Friol
TESTAMENTO DI VOCI
Se è il commiato questo, il volto
che accresce l’invisibile, il corpo
a ritroso del fiato, la montagna
di fatti e di tempi, di colmi
e stracci, e non ci sono
più nodi nella corda né internodi
né tregue o fuochi almeno
per chi possa venire, e tutto è andarsene,
stare muti e scordare,
franare quietamente,
se tutto è sotterrarsi nell’oscuro,
resti nell’aria
il testamento delle voci.
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da L’abisso e le sillabe, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1983
Se è il commiato questo, il volto
che accresce l’invisibile, il corpo
a ritroso del fiato, la montagna
di fatti e di tempi, di colmi
e stracci, e non ci sono
più nodi nella corda né internodi
né tregue o fuochi almeno
per chi possa venire, e tutto è andarsene,
stare muti e scordare,
franare quietamente,
se tutto è sotterrarsi nell’oscuro,
resti nell’aria
il testamento delle voci.
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da L’abisso e le sillabe, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1983
venerdì 22 agosto 2014
Jaime Gil De Biedma
APOLOGIA E PETIZIONE
E che dire di nostra madre Spagna,
questo paese affollato di dèmoni
e dove il mal governo e la miseria
non sono, no, miseria e mal governo
bensì uno stato mistico dell’uomo,
l’assoluzione della nostra storia?
Di ognuna delle storie della Storia
la più triste è la nostra, della Spagna,
perché finisce male. Come se l’uomo,
stanco ormai di lottare coi suoi dèmoni,
decidesse di cedergli il governo
e la gestione della sua miseria.
Nostra famosa e immemore miseria
la cui fonte si perde nelle storie
che dicono incolpevole il governo,
maledizione orribile di Spagna,
triste prezzo pagato a quei suoi dèmoni
con la fame e la fatica degli uomini.
Come ho pensato spesso a questi uomini
così ho pensato spesso alla miseria
di un paese affollato dai suoi dèmoni;
così ho pensato spesso a un’altra storia,
non semplice, diversa, a un’altra Spagna
dov’è importante avere un mal governo.
Voglio credere il nostro mal governo
come un volgare affare di certi uomini,
non una metafisica; che la Spagna,
deve uscire, e lo può, dalla miseria;
ch’è ancora in tempo per cambiare storia,
prima che se la portino i suoi dèmoni.
Perché non voglio credere a quei dèmoni.
Chi paga sono gli uomini al governo,
questi impresari della falsa storia,
sono uomini che hanno venduto l’uomo
e che l’hanno portato alla miseria,
sequestrato la salute della Spagna.
Io chiedo che la Spagna scacci i dèmoni,
che la miseria si insedi al governo
e che l’uomo possieda la sua storia.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da Antología poetíca, Alianza Editorial, 1981
E che dire di nostra madre Spagna,
questo paese affollato di dèmoni
e dove il mal governo e la miseria
non sono, no, miseria e mal governo
bensì uno stato mistico dell’uomo,
l’assoluzione della nostra storia?
Di ognuna delle storie della Storia
la più triste è la nostra, della Spagna,
perché finisce male. Come se l’uomo,
stanco ormai di lottare coi suoi dèmoni,
decidesse di cedergli il governo
e la gestione della sua miseria.
Nostra famosa e immemore miseria
la cui fonte si perde nelle storie
che dicono incolpevole il governo,
maledizione orribile di Spagna,
triste prezzo pagato a quei suoi dèmoni
con la fame e la fatica degli uomini.
Come ho pensato spesso a questi uomini
così ho pensato spesso alla miseria
di un paese affollato dai suoi dèmoni;
così ho pensato spesso a un’altra storia,
non semplice, diversa, a un’altra Spagna
dov’è importante avere un mal governo.
Voglio credere il nostro mal governo
come un volgare affare di certi uomini,
non una metafisica; che la Spagna,
deve uscire, e lo può, dalla miseria;
ch’è ancora in tempo per cambiare storia,
prima che se la portino i suoi dèmoni.
Perché non voglio credere a quei dèmoni.
Chi paga sono gli uomini al governo,
questi impresari della falsa storia,
sono uomini che hanno venduto l’uomo
e che l’hanno portato alla miseria,
sequestrato la salute della Spagna.
Io chiedo che la Spagna scacci i dèmoni,
che la miseria si insedi al governo
e che l’uomo possieda la sua storia.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da Antología poetíca, Alianza Editorial, 1981
Proviamo a sostituire Spagna con Italia? Cambia molto?
mercoledì 20 agosto 2014
Alessandro De Santis
GRANITI
Ore 09,20. Un lupo mannaro o forse Kappler
Tutto il giorno aveva camminato sul ciglio della strada
contava i passi e li classificava
e poi passava agli organi, alle carni
la lingua lastricata e le sue selci
intrise del sudore del non dire
Aveva infilato le mani chiuse a pugno nelle tasche
ed era risalito sin dentro alla campagna
Fatto inventario dei pali dei filari
piantati come croci, sporcato la punta
delle scarpe nello stabbio
Ore ed ore si era soffermato,
intere ere geologiche e crisi di governo
prima di vedere quella farfalla posarsi
sulla rete metallica del suicida
Senza dote di stelle lo raggiunse brusca la notte
gli aprì la bocca come a prender fiato.
Vide l’esatto diametro del cuore umano
e pensò che fosse proprio una bella
giornata per ricominciare, per un attacco aereo
negli occhi ancora il rapinoso schianto di quando
quel ponte se n’era sparito ghiotto.
Da Metro C, Manni, 2013
Ore 09,20. Un lupo mannaro o forse Kappler
Tutto il giorno aveva camminato sul ciglio della strada
contava i passi e li classificava
e poi passava agli organi, alle carni
la lingua lastricata e le sue selci
intrise del sudore del non dire
Aveva infilato le mani chiuse a pugno nelle tasche
ed era risalito sin dentro alla campagna
Fatto inventario dei pali dei filari
piantati come croci, sporcato la punta
delle scarpe nello stabbio
Ore ed ore si era soffermato,
intere ere geologiche e crisi di governo
prima di vedere quella farfalla posarsi
sulla rete metallica del suicida
Senza dote di stelle lo raggiunse brusca la notte
gli aprì la bocca come a prender fiato.
Vide l’esatto diametro del cuore umano
e pensò che fosse proprio una bella
giornata per ricominciare, per un attacco aereo
negli occhi ancora il rapinoso schianto di quando
quel ponte se n’era sparito ghiotto.
Da Metro C, Manni, 2013
lunedì 18 agosto 2014
Ted Hughes
FELCE
Ecco la fronda della felce che dispiega un gesto,
come un direttore d’orchestra la cui musica
sarà pausa, in quella sola nota di silenzio
su cui solennemente danza la terra intera.
L’orecchio del topo dispiega la sua fiducia,
il ragno accetta il lascito di lei
e la retina
regge la creazione con redini d’acqua.
E, tra loro, solennemente danza
la felce, come il pennacchio
di un guerriero che torna, sotto le basse colline
nel suo regno.
Traduzione di Nicola Gardini
Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008
Ecco la fronda della felce che dispiega un gesto,
come un direttore d’orchestra la cui musica
sarà pausa, in quella sola nota di silenzio
su cui solennemente danza la terra intera.
L’orecchio del topo dispiega la sua fiducia,
il ragno accetta il lascito di lei
e la retina
regge la creazione con redini d’acqua.
E, tra loro, solennemente danza
la felce, come il pennacchio
di un guerriero che torna, sotto le basse colline
nel suo regno.
Traduzione di Nicola Gardini
Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008
venerdì 15 agosto 2014
Alessandro Ricci
L’EXPLORATOR
Primo sulla collina di Sèffos,
vide l’altro versante pieno di Parti.
– Quadrato stavolta ha sbagliato
di grosso, non era qui che dovevamo
passare. Ci faranno a pezzi prima
di sera. Noi, i Romani, i padroni
del mondo.
Si voltò a guardare la coorte,
la migliore della legione: silenziosa
e composta, s’avvicinava alla cima.
Non fischiò
il pericolo ai suoi come avrebbe
dovuto. Si distese a guardare
una nuvola lentamente fra i rami,
tanto era troppo tardi.
da L'editto finale, Edizioni Il Labirinto, 2014
Primo sulla collina di Sèffos,
vide l’altro versante pieno di Parti.
– Quadrato stavolta ha sbagliato
di grosso, non era qui che dovevamo
passare. Ci faranno a pezzi prima
di sera. Noi, i Romani, i padroni
del mondo.
Si voltò a guardare la coorte,
la migliore della legione: silenziosa
e composta, s’avvicinava alla cima.
Non fischiò
il pericolo ai suoi come avrebbe
dovuto. Si distese a guardare
una nuvola lentamente fra i rami,
tanto era troppo tardi.
da L'editto finale, Edizioni Il Labirinto, 2014
mercoledì 13 agosto 2014
Gino Scartaghiande
SULLA TOMBA DEL PETRARCA
Ricordo la tua arca lontana
fumigante al chiarore d’una chiara
chiesa; e il paese tra ombrosi colli
e il silenzio d'intorno della tua casa.
E come noi fanciulli ci apprestavamo
a quel tuo simulacro, quasi la cava
pietra e le ossa vedute s’erano
che rimandavano in fievoli echi
le nostre voci; spaziava entro di essa
e su l’aperto luogo la comitiva
allegra dei compagni e fu già sera
su per le mura rossastre l’edera
gli ultimi raggi d’un sole infiamma
de la memoria tua che s’invola.
Da Oggetto e circostanza, raccolta in via di pubblicazione
Ricordo la tua arca lontana
fumigante al chiarore d’una chiara
chiesa; e il paese tra ombrosi colli
e il silenzio d'intorno della tua casa.
E come noi fanciulli ci apprestavamo
a quel tuo simulacro, quasi la cava
pietra e le ossa vedute s’erano
che rimandavano in fievoli echi
le nostre voci; spaziava entro di essa
e su l’aperto luogo la comitiva
allegra dei compagni e fu già sera
su per le mura rossastre l’edera
gli ultimi raggi d’un sole infiamma
de la memoria tua che s’invola.
Da Oggetto e circostanza, raccolta in via di pubblicazione
lunedì 11 agosto 2014
Kenneth Rexroth
SOLITUDINE
Pensando a te che trabocchi
di solitudine. Ascoltando la
tua voce dire dal registratore
“Solitudine”. La parola, la voce,
stracolma di essa, ed io,
con te lontana, così perduto
in essa – perduto in solitudine
e pena. Nere e insopportabili,
pensandoti con ogni fibra
della mia carne, in ogni istante
del giorno e della notte.
Oh, amore, col tempo,
abbiamo dimenticato l’amore,
sedendo vicini, ma soli.
Abbiamo mangiato insieme,
ognuno solo dietro il proprio piatto,
nascondendoci dietro i bambini,
e insieme abbiamo dormito
in un letto solitario. Ora a te
il mio cuore si volge, finalmente
sveglio, pentito, perduto
nella solitudine finale. Parla
con me. Discuti con me.
Rompi il nero silenzio. Parla
di un albero pieno di foglie,
di un uccello che vola, della luna
nuova al tramonto, di una
poesia, un libro, una persona –
tutti i discorsi qualunque
coi quali la tua voce
sonora e tranquilla mi cura.
La parola libertà. La parola pace.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
Pensando a te che trabocchi
di solitudine. Ascoltando la
tua voce dire dal registratore
“Solitudine”. La parola, la voce,
stracolma di essa, ed io,
con te lontana, così perduto
in essa – perduto in solitudine
e pena. Nere e insopportabili,
pensandoti con ogni fibra
della mia carne, in ogni istante
del giorno e della notte.
Oh, amore, col tempo,
abbiamo dimenticato l’amore,
sedendo vicini, ma soli.
Abbiamo mangiato insieme,
ognuno solo dietro il proprio piatto,
nascondendoci dietro i bambini,
e insieme abbiamo dormito
in un letto solitario. Ora a te
il mio cuore si volge, finalmente
sveglio, pentito, perduto
nella solitudine finale. Parla
con me. Discuti con me.
Rompi il nero silenzio. Parla
di un albero pieno di foglie,
di un uccello che vola, della luna
nuova al tramonto, di una
poesia, un libro, una persona –
tutti i discorsi qualunque
coi quali la tua voce
sonora e tranquilla mi cura.
La parola libertà. La parola pace.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
venerdì 8 agosto 2014
Luigi Di Ruscio
LO SPIRITO MI ILLUMINAVA
lo spirito mi illuminava soprattutto quando correvo
la gioia amorosa mi ingoiava completamente
vennero la notte e le tenebre
un angelo mi inseguiva felice
scelto tra i più veloci e scattanti con lunghissime ali
che mi gettava in continua inquietudine
di certi anni ricordo solo il chiarore del sole
e una pioggia felice che batteva sulla lamiera ondulata
e avevo a disposizione giornate eterne
in un silenzio che solo la mia penna scalfisce
mentre la lucciola festiva sugli sprofondi della notte
tesse la sua danza felice
tutto si raccoglieva e aggrumava
ogni buco ha un nome
tutto si animava ad ogni boccata d’aria respirata
e non saranno necessari neppure i ritorni
tutto si è incarnato per sempre
avrò tutto davanti agli occhi
con la stessa lucida straziante gioia
da Enunciati, Stamperia dell’Arancio, 1993
lo spirito mi illuminava soprattutto quando correvo
la gioia amorosa mi ingoiava completamente
vennero la notte e le tenebre
un angelo mi inseguiva felice
scelto tra i più veloci e scattanti con lunghissime ali
che mi gettava in continua inquietudine
di certi anni ricordo solo il chiarore del sole
e una pioggia felice che batteva sulla lamiera ondulata
e avevo a disposizione giornate eterne
in un silenzio che solo la mia penna scalfisce
mentre la lucciola festiva sugli sprofondi della notte
tesse la sua danza felice
tutto si raccoglieva e aggrumava
ogni buco ha un nome
tutto si animava ad ogni boccata d’aria respirata
e non saranno necessari neppure i ritorni
tutto si è incarnato per sempre
avrò tutto davanti agli occhi
con la stessa lucida straziante gioia
da Enunciati, Stamperia dell’Arancio, 1993
mercoledì 6 agosto 2014
Roberto Friol
INVENTARIO DELL’ALBA
Le monete dell’alba riconto:
le mani ho vuote.
Di che mi lagno! non fuggii
mill’anni dal mio volto?
Son sempre qui... e gli uccelli
posano sul mio verso come su un ramo familiare.
Io li saluto in raffiche
mentre arde il volto della poesia.
Di che mi lagno! sono ancora qui.
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da Poesie, Alfabetica, 1991
Le monete dell’alba riconto:
le mani ho vuote.
Di che mi lagno! non fuggii
mill’anni dal mio volto?
Son sempre qui... e gli uccelli
posano sul mio verso come su un ramo familiare.
Io li saluto in raffiche
mentre arde il volto della poesia.
Di che mi lagno! sono ancora qui.
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da Poesie, Alfabetica, 1991
lunedì 4 agosto 2014
Wallace Stevens
DOMENICA MATTINA
I
Compiacimenti di peignoir, e sul tardi
Caffè ed arance su una sedia al sole,
La verde libertà di un pappagallo,
Sopra un tappeto, uniti per disperdere
Il riverente silenzio di un antico sacrificio.
Lei sogna un po’, risente l’intrusione
Cupa della vecchia sciagura
In un calmo abbuiarsi tra luci equoree.
Le arance aspre, le splendenti ali verdi
Sembrano parte di un corteo funebre
Che si snoda su liquida distesa senza suono.
Il giorno è una liquida distesa senza suono,
Placata sotto i passi dei suoi piedi sognanti
Vòlti oltremare, verso la silenziosa Palestina
Regno del sangue e del sepolcro.
II
Perché concedere i suoi tesori ai morti?
Che divinità è se può venire solo
In ombre silenziose oppure in sogno?
Possibile che nel tepore del sole,
Nei frutti aspri e nelle splendenti ali verdi,
O in ogni balsamo e bellezza terrena non trovi
Cose da amare come l’idea del cielo?
È in lei che deve vivere il divino:
Passioni da pioggia e umori dalle nevicate,
Solitarie afflizioni, indomabili
Entusiasmi al fiorire del bosco; emozioni
A folate sulle strade umide nelle notti
D’autunno; ogni gioia, ogni pena, ricordando
Le gemme estive e i rami invernali.
Queste misure nell’intimo le sono destinate.
III
Giove ebbe nelle nubi la sua origine disumana.
Non lo allattò una madre, né la terra soave
Concesse munifici moti alla sua mente mitica.
Passò tra noi come un re che parlando
Solo passi, solenne, tra i suoi sudditi,
Finché il nostro sangue immacolato, fuso
Col cielo, fu tale ricompensa al desiderio
Che i sudditi lo scorsero in una stella.
Fallirà o riuscirà il nostro sangue
A tramutarsi in sangue di paradiso? E la terra
Sarà tutto il paradiso che noi conosceremo?
Più che ora, allora il cielo sarà amico
Nostro. In parte fatica, in parte pena,
Secondo in gloria solo all’amore eterno.
Non questo azzurro ostile e indifferente.
IV
Dice: “Mi piace che gli uccelli appena svegli,
Ma prima di volare, provino la realtà
Dei campi nebbiosi coi loro dolci quesiti;
Ma una volta partiti gli uccelli se non tornano
Quei campi assolati, dov’è il paradiso?”.
Non c’è nessun antro di profezia,
Nessuna remota chimera della tomba,
Neanche inferi dorati o melodiosa
Isola, dove le anime trovino dimora,
Né immaginario sud, né nubilosa
Palma, lungo i pendii del cielo, che resista
Come il verde d’aprile o che resista
Come il ricordo in lei degli uccelli al risveglio,
O il desiderio d’una sera di giugno che viri
Al compimento d’ala della rondine.
V
Dice: “Ma nel piacere sento ancora il bisogno
D’una felicità che sia immortale”.
La morte è madre di bellezza; lei,
E lei sola, esaudirà i nostri sogni
E desideri. Benché sparga le foglie
Del certo oblio sui nostri sentieri,
Lungo i sentieri del dolore e i molti
Dove risuonano i clamori del trionfo
O l’amore sussurra appena tenerezze; è lei
Che fa trasalire il salice nel sole
Per ragazze sedute a rimirare l’erba
Abbandonata ai loro piedi, e che spinge i ragazzi
A riempire di nuovo i vassoi dimenticati
Di pere e susine. Le ragazze assaggiandone
Si smarriscono commosse tra le foglie sparse.
VI
Ma la morte non muta in paradiso?
E il frutto maturo non cade? I rami
Pendono sempre carichi in quel cielo sereno
E immutabile ma così simile alla terra mortale,
Con fiumi come i nostri sempre in cerca
Di mari introvabili e coste che recedono
Con angoscia inespressa sempre intatte?
Perché piantare il pero sulle sponde
Del fiume o profumarle col susino fragrante?
Ah, portano lassù questi colori,
I serici tessuti delle nostre sere;
Pizzicano le corde dei nostri liuti insulsi!
La morte, mistica madre di bellezza:
Nel suo grembo bruciante immaginiamo
Le nostre madri terrene in un’attesa insonne.
VII
Uomini in cerchio, agili e turbolenti,
Un mattino d’estate salmodieranno un’orgia
Di tempestosa devozione al sole;
Non come a un dio, ma al dio che tra loro
Nudo sorgesse come una fonte selvaggia.
Scaturito dal sangue il loro canto
Salendo al cielo sarà canto di paradiso;
Voce per voce in esso entrerà il vento
Del lago in cui il loro dio gioisce,
Alberi come serafini e colline
Da cui l’eco del coro a lungo si riverbera.
Essi sapranno bene la divina comunione
Dei mortali con un mattino estivo.
Da dove vennero e in che luogo andranno
Lo dirà la rugiada ai loro piedi.
VIII
Di una voce, sull’acqua senza suono,
Lei ode il grido: “La tomba in Palestina
Non è luogo per spiriti indugianti
Ma è il sepolcro dove Gesù giace”.
Viviamo nell’antico disordine del sole,
L’antico vincolo del giorno e della notte,
Solitudine d’isola, incustodita, libera
Sulla liquida distesa senza scampo.
Il cervo s’aggira per i monti, fischia
Spontaneamente intorno a noi la quaglia;
Dolci bacche maturano in solitudine,
E saltuari colombi nel cielo
Vuoto della sera passano ondulando
E cullandosi ambiguamente in volo
Sprofondano nel buio, ad ali stese.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da Domenica mattina, Edizioni Il Labirinto, 1998
Nel 59° anniversario della morte di Wallace Stevens (2 ottobre 1879 - 2 agosto 1955).
I
Compiacimenti di peignoir, e sul tardi
Caffè ed arance su una sedia al sole,
La verde libertà di un pappagallo,
Sopra un tappeto, uniti per disperdere
Il riverente silenzio di un antico sacrificio.
Lei sogna un po’, risente l’intrusione
Cupa della vecchia sciagura
In un calmo abbuiarsi tra luci equoree.
Le arance aspre, le splendenti ali verdi
Sembrano parte di un corteo funebre
Che si snoda su liquida distesa senza suono.
Il giorno è una liquida distesa senza suono,
Placata sotto i passi dei suoi piedi sognanti
Vòlti oltremare, verso la silenziosa Palestina
Regno del sangue e del sepolcro.
II
Perché concedere i suoi tesori ai morti?
Che divinità è se può venire solo
In ombre silenziose oppure in sogno?
Possibile che nel tepore del sole,
Nei frutti aspri e nelle splendenti ali verdi,
O in ogni balsamo e bellezza terrena non trovi
Cose da amare come l’idea del cielo?
È in lei che deve vivere il divino:
Passioni da pioggia e umori dalle nevicate,
Solitarie afflizioni, indomabili
Entusiasmi al fiorire del bosco; emozioni
A folate sulle strade umide nelle notti
D’autunno; ogni gioia, ogni pena, ricordando
Le gemme estive e i rami invernali.
Queste misure nell’intimo le sono destinate.
III
Giove ebbe nelle nubi la sua origine disumana.
Non lo allattò una madre, né la terra soave
Concesse munifici moti alla sua mente mitica.
Passò tra noi come un re che parlando
Solo passi, solenne, tra i suoi sudditi,
Finché il nostro sangue immacolato, fuso
Col cielo, fu tale ricompensa al desiderio
Che i sudditi lo scorsero in una stella.
Fallirà o riuscirà il nostro sangue
A tramutarsi in sangue di paradiso? E la terra
Sarà tutto il paradiso che noi conosceremo?
Più che ora, allora il cielo sarà amico
Nostro. In parte fatica, in parte pena,
Secondo in gloria solo all’amore eterno.
Non questo azzurro ostile e indifferente.
IV
Dice: “Mi piace che gli uccelli appena svegli,
Ma prima di volare, provino la realtà
Dei campi nebbiosi coi loro dolci quesiti;
Ma una volta partiti gli uccelli se non tornano
Quei campi assolati, dov’è il paradiso?”.
Non c’è nessun antro di profezia,
Nessuna remota chimera della tomba,
Neanche inferi dorati o melodiosa
Isola, dove le anime trovino dimora,
Né immaginario sud, né nubilosa
Palma, lungo i pendii del cielo, che resista
Come il verde d’aprile o che resista
Come il ricordo in lei degli uccelli al risveglio,
O il desiderio d’una sera di giugno che viri
Al compimento d’ala della rondine.
V
Dice: “Ma nel piacere sento ancora il bisogno
D’una felicità che sia immortale”.
La morte è madre di bellezza; lei,
E lei sola, esaudirà i nostri sogni
E desideri. Benché sparga le foglie
Del certo oblio sui nostri sentieri,
Lungo i sentieri del dolore e i molti
Dove risuonano i clamori del trionfo
O l’amore sussurra appena tenerezze; è lei
Che fa trasalire il salice nel sole
Per ragazze sedute a rimirare l’erba
Abbandonata ai loro piedi, e che spinge i ragazzi
A riempire di nuovo i vassoi dimenticati
Di pere e susine. Le ragazze assaggiandone
Si smarriscono commosse tra le foglie sparse.
VI
Ma la morte non muta in paradiso?
E il frutto maturo non cade? I rami
Pendono sempre carichi in quel cielo sereno
E immutabile ma così simile alla terra mortale,
Con fiumi come i nostri sempre in cerca
Di mari introvabili e coste che recedono
Con angoscia inespressa sempre intatte?
Perché piantare il pero sulle sponde
Del fiume o profumarle col susino fragrante?
Ah, portano lassù questi colori,
I serici tessuti delle nostre sere;
Pizzicano le corde dei nostri liuti insulsi!
La morte, mistica madre di bellezza:
Nel suo grembo bruciante immaginiamo
Le nostre madri terrene in un’attesa insonne.
VII
Uomini in cerchio, agili e turbolenti,
Un mattino d’estate salmodieranno un’orgia
Di tempestosa devozione al sole;
Non come a un dio, ma al dio che tra loro
Nudo sorgesse come una fonte selvaggia.
Scaturito dal sangue il loro canto
Salendo al cielo sarà canto di paradiso;
Voce per voce in esso entrerà il vento
Del lago in cui il loro dio gioisce,
Alberi come serafini e colline
Da cui l’eco del coro a lungo si riverbera.
Essi sapranno bene la divina comunione
Dei mortali con un mattino estivo.
Da dove vennero e in che luogo andranno
Lo dirà la rugiada ai loro piedi.
VIII
Di una voce, sull’acqua senza suono,
Lei ode il grido: “La tomba in Palestina
Non è luogo per spiriti indugianti
Ma è il sepolcro dove Gesù giace”.
Viviamo nell’antico disordine del sole,
L’antico vincolo del giorno e della notte,
Solitudine d’isola, incustodita, libera
Sulla liquida distesa senza scampo.
Il cervo s’aggira per i monti, fischia
Spontaneamente intorno a noi la quaglia;
Dolci bacche maturano in solitudine,
E saltuari colombi nel cielo
Vuoto della sera passano ondulando
E cullandosi ambiguamente in volo
Sprofondano nel buio, ad ali stese.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da Domenica mattina, Edizioni Il Labirinto, 1998
Nel 59° anniversario della morte di Wallace Stevens (2 ottobre 1879 - 2 agosto 1955).
venerdì 1 agosto 2014
Ezra Pound
DE AEGYPTO
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Ho visto la Signora della Vita,
Io, proprio io, che volo con le rondini.
Verde e grigia è la sua veste,
Trascinata dal vento.
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Manus animam pinxit,
Ho la penna in mano
Per scrivere la parola accetta...
Sulla mia bocca è il puro canto!
Ma quale bocca può ricevere,
Il canto del Loto di Kumi?
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Io sono la fiamma generata dal sole,
Io, proprio io, che volo con le rondini.
Sulla mia fronte sta la luna,
L’aria spira sotto le mie labbra.
La luna è una grande perla in acque di zaffiro,
E l’acqua scorre fresca alle mie dita.
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Traduzione di Mary de Rachewiltz
Da Opere scelte, Meridiani Mondadori, 1970
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Ho visto la Signora della Vita,
Io, proprio io, che volo con le rondini.
Verde e grigia è la sua veste,
Trascinata dal vento.
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Manus animam pinxit,
Ho la penna in mano
Per scrivere la parola accetta...
Sulla mia bocca è il puro canto!
Ma quale bocca può ricevere,
Il canto del Loto di Kumi?
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Io sono la fiamma generata dal sole,
Io, proprio io, che volo con le rondini.
Sulla mia fronte sta la luna,
L’aria spira sotto le mie labbra.
La luna è una grande perla in acque di zaffiro,
E l’acqua scorre fresca alle mie dita.
Io sono colui che conosce le vie
Del firmamento, e il mio corpo è formato dal vento.
Traduzione di Mary de Rachewiltz
Da Opere scelte, Meridiani Mondadori, 1970
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