IL TEMPO È LA PIETÀ DELL’ETERNO
Il
tempo è diviso in
secondi
minuti ore anni
e
secoli. Prendi uno
solo
di essi e aggiungici
ciò
che contiene al mondo.
Ogni
divisione contiene
quasi
lo stesso di un’altra.
Cosa
puoi dire in una poesia?
Passati
i quaranta, hai detto tutto.
La
nera quercia nana spunta
dalla
roccia ai miei piedi.
Forse
ha duecento anni,
ma
il fusto non è più grosso
del
mio polso, la cima non
m’arriva
alla spalla. Alle sue
spalle
il sole del tardo pomeriggio
ne
inonda di luce le foglie come
un
albero di gemme, come l’albero
magico
dei gioielli nelle storie
orientali.
La roccia sotto di essa
cade
a strapiombo per cinque-
cento
piedi, fino a un pino solitario,
carbonizzato;
poi per altri mille
fino
ad un fiume in piena,
tumultuoso.
Oltre quello, si stende
lo
spazio baluginante; volute di colline
boscose
offuscantisi pian piano;
poi,
quasi invisibili nella
calura
pulsante, le terre
basse
della San Joaquin Valley
ribollente
di vita e fastidi.
Le
nuove foglie verde pallido scintillano
nell’aria
tremolante. Nerazzurra,
cresta
e becco appuntiti, una ghiandaia
si
posa per un attimo in mezzo
ad
esse poi si tuffa, giù,
attraverso
l’afoso pomeriggio di giugno.
Lontano,
la città si contorce
bruciando
in un fuoco di trascendenza
e
merci. Le viscere
degli
uomini si torcono tra i poli
di
antitesi insensate.
La
santità del reale
è
sempre là, accessibile
in
totale immanenza. I nodi
della
trascendenza si aggrumano
in
te che esperimenti
ed
in colui che ama.
Quando
le prime gemme
spuntano
sui meli e la luna
primaverile
nuota in smisurati
chiari
abissi di luce palpabile,
io
mi siedo vicino alla cascata.
I
gufi si chiamano l’un
l’altro
all’infinito
nella
notte calda.
Nere
rocce bagnate brillano debolmente.
Di
vita umida odora il muschio riccio.
La
cascata è una fune
di
musica, una serpe maculata
di
bianco e nero nella foresta
lunare.
Le cosce della dea
mi
stringono. La luna sale tra
i
dirupi dei monti e una nube di luce
si
diffonde intorno a me, come
un
profumo risplendente. Quando poi
la
luna se ne va e torno a sentire
i
gufi rumorosi, m’inginocchio a bere
la
dolce acqua dei vortici freddi.
Tutto
il giorno sul canyon s’accumulano nubi.
A
mezzogiorno le alte cime sono scomparse.
Il
tuono brontola in lontananza.
D’improvviso
il canyon sparisce.
Sulla
stretta sporgenza, il campeggio
è
isolato in un turbine di nebbia.
Anche
i pini più prossimi diventano indistinti,
perduti
nel grigiore.
Una
folgore gialla erompe, fuoco tra
fumo,
e infiamma la nebbia.
Il
tuono esplode ai miei piedi.
Sibilando,
la pioggia si riversa fra
gli
aghi di pino. Tra i rossi tronchi
cadono
chicchi bianchi di grandine.
Picchiettano
sulla tenda. Ne raccolgo
qualcuno
e lo guardo sciogliersi sul palmo
della
mano. Gli uccelli, come fa sera,
arruffano
le penne e volano cauti
di
ramo in ramo, cantando
poche
note; nel crepuscolo arancione
verdi
e rade gocce di pioggia cadono.
Le
nuvole per tre giorni si sono ammassate.
E
la pioggia ha accerchiato le montagne.
Fra
non molto cadrà sul
Black
Rock Pass, traverserà
i
Kaweahs rossi e poi
la
bianca Whitney Range. Ma
qui
al lago non cade
e
l’afa diventa opprimente.
Nuoto
con indolenza. L’acqua
stessa
sembra più pesante.
L’aria
è piena di zanzare.
Dopo
un pranzo svogliato mi siedo
a
riva a leggere le sagge poesie
di
Charles Cros. All’improvviso
s’alza
il vento. La tenda sbatte rumorosa.
Polvere
e rami, aghi di pino volano
in
ogni dove. Poi il vento
cade
e scende la pioggia sul lago.
Sulle
onde brevi, le gocce tintinnano
come
le campanelle a vento giapponesi
che
mi piacevano tanto da ragazzo.
Dopo
un’ora la pioggia è finita.
Nella
chiara frescura della sera,
dal
prato a un miglio di distanza,
odo
la campana del somaro.
Gridandomi
sulla testa, i caprimulghi
si
tuffano: virando le ali vibrano.
Un
cervo scende fino all’acqua.
Gli
alti passi sono chiusi dalla neve.
Sono
la prima persona in questa stagione.
Non
c’è nessun altro. Solo io
in
mezzo a centinaia di montagne.
Le
cinque, nella sera di mezz’agosto:
la
lunga luce solare si dora
sull’erba
verdecupo e fiori
rossi
rilucono sul prato.
Mi
fermo dove un meandro
del
ruscello fa una pozza profonda.
L’acqua
è di un verde scuro,
però
perfettamente trasparente.
Una
piccola nube, non più grande
della
mia testa, con centinaia
di
moscerini, si libra densa in alto.
Sulla
riva, due piccoli ranocchi.
Nell’acqua,
scarafaggi,
idre,
cimici d’acqua, le larve
di
vari insetti. In superficie
nuotano
le notonette.
Capisco
che il colore
stesso
dell’acqua è dovuto
a
milioni di verdi macchie
attive
di vita. È come se
scrutando
una macchia d’inchiostro
si
scoprisse di fissare
la
Via Lattea.
Il
profondo riverbero
del
mio essere con tutta
questa
pienezza di vita
mi
lascia scosso e stordito.
Attraverso
lentamente
il
prato mentre i cervi alzano il capo
e
mi osservano indolenti.
Sull’altopiano,
qui dove
non
viene mai nessuno, vicino
a
questo lago di monti specchiati,
ore
giorni e settimane
trascorrono
senza un mutamento.
Anche
i rari temporali passano
per
scaricarsi sui picchi.
Nell’acqua
non ci sono pesci.
Orsi
e cervi, nei boschi, sono pochi.
Solo
l’azzurra damigella
vola
lucente sul canneto
tutto
il giorno, e su in alto la sera
i
caprimulghi. Sospeso
nell’aria
acqua tempo
più
trasparenti, io
assumo
una specie d’essenza
cristallina.
In questo traslucido
e
immenso qui ed ora, se mai,
dovrebbe
essere visibile la forma
della
persona, la sua geometria
e
cristallografia, la sua
astronomia.
Il bene
e
il male della mia vicenda
trascorrono.
Li riconosco
e
so valutarli. Se ne vanno
per
primi, insieme a tutti
gli
altri fatti personali,
sensazioni
e desideri.
Alla
fine non resta che
la
conoscenza, anch’essa
un
vasto cristallo che racchiude
l’infinito
cristallo d’aria acqua
roccia.
Ambedue i cristalli
sono
perfettamente
silenziosi.
Di loro non c’è niente
da
dire. Proprio
niente.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da The Complete Poems of Kenneth Rexroth, Copper Canyon Press, 2003