LETTERA
AL PADRE
Caro
papà, ti scrivo in versi per le solite
ragioni
di stile ma non col dizionario
dei
sinonimi e senza
intenzioni
di pubblicazione
o
lettura.
Ti
scrivo credo per
vigliaccheria
– «Papà, c’è
l’inferno?»
– e perché non ho
dèi,
né cristi né madonne
più
importanti di te dall’altra
parte
della barricata. Non
credere
– ma spero che tu non
pensi,
che tu non senta – ch’io
faccia
subito, ora, quanto tu
hai
sempre temuto per me.
Che
paura viene.
Oggi
ho rallentato sulle pozzanghere
dell’Ardeatina,
ho provato i freni
più
volte dopo ogni
guado,
pulito i vetri di destra perché
completamente
appannati.
Però
mi sono chiesto:
«Se
uomini soddisfatti o comunque calmi
non
hanno saputo costruire cunette
e
tombini e rappezzi stradali
in
macadam bitumato – ricordi? –, come
posso
io col cuore più schiantato che
nel
momento della tua morte, non dico
amare
o produrre qualcosa
di
grande o rasserenarmi
alla
noia, ma fare il mio sciocco
lavoro,
rispondere alle domande
semplici
della gente, farmi
i
caffè?».
Caro
papà, io spero
proprio
che tu sia morto
del
tutto, che non provi quest’altro
dolore
che ti do. Parlo a te
giovane,
quando ’sta cosa non
m’era
avvenuta e tu già
la
temevi e ne eri triste
perpetuamente.
Ti
chiedo scusa,
scusa
sul serio. E ancora: se
mi
perdoni, se non ti riguarda, se
non
senti più né caldo,
né
freddo, papà, che cosa
devo
fare?
(inedita)
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