venerdì 9 settembre 2016

Eloy Sánchez Rosillo

MELVILLE, NELLA DOGANA

Quanto più un uomo appartiene ai posteri, ovvero all’umanità intera, tanto più è sconosciuto ai suoi contemporanei... La gente riconosce più facilmente l’uomo utile nelle circostanze immediate o all’umore del momento al quale appartiene e nel quale vive e muore.
                                                                                                                                           Schopenhauer


Per diciotto lunghi anni,
giorno per giorno ho atteso a quest’ufficio inesorabile,
ormai mi sono quasi rassegnato al mio strano destino:
il tempo placa tutto, e la voce che fino a poco prima
mi spingeva insistente a porre fine
una volta per sempre a tutto questo
ora l’ascolto appena, e se a volte la sento
non mi faccio ingannare e m’aggrappo con forza
ai braccioli assennati di questa vecchia seggiola
e così mi sottraggo al canto di sirene ormai improbabili.
Pesano troppo gli anni e le miserie dell’età
– questi occhi intorpiditi, e la sfida delle ossa per                                                                                           /mantenermi in piedi –
impongono ai miei resti la loro orrida legge.
Benché io senta, in giorni come questo per esempio
– chissà perché, forse oggi è l’influenza
dell’autunno magnifico che spoglia i parchi
della città terribile –, l’accresciuta avversione
per l’impiego noioso e la tristezza dei suoi simboli
(gli oscuri arredi in legno dell’ufficio, la polvere
che ricopre le assurde carte archiviate,
e scolorite macchie d’inchiostro che negli anni
caddero sul paesaggio scomodo della mia vecchia cartella);
a lungo resto assorto e con invidia
penso alla silenziosa lucidità del povero Bartleby,
o agli indimenticabili giorni della lontana gioventù,
anni liberi – eppure disperati – di quando andai per mare
per trovare rimedio ai miei mali d’allora, idee confuse 
quando consideravo compiaciuto l’immagine
di me stesso suicida con una palla in testa.
Ora so che quegli anni furono forse i soli
che vissi veramente, con la pazzia e il coraggio
d’un essere divino e libero.
                                                 Poi il resto è stato morte,
o vita ricordata, forma diversa e triste
del lasciarsi morire, perché un ricordo di felicità
non è felicità, solo elegia
di uno spossessamento.
                                            E tutti i libri
che con dolore scrissi sono cenere
di quel fuoco intensissimo, relitti del naufragio
dell’insensata gioventù.
                                            Perciò, a volte mi chiedo:
valse la pena? Tutto l’impegno messo
nella carriera di scrittore, mestiere desolato
al quale consegnai il decennio più triste della vita,
più tardi abbandonato (non che lo consigliasse
il fallimento, perché scrissi sempre precisamente i libri
che la stupidità contemporanea con sufficienza ottusa                                                                                                        /destinava
al fallimento, ma perché l’oscuro territorio che un giorno mi                                                                                                  /proposi
d’esplorare era lì che finiva. È noioso
una stessa avventura viverla per due volte).
È tanto che non pubblico e solo quando sento
bisogno di parlare con me stesso
prendo la penna e scrivo qualche verso
destinato a nessuno, ma che serve
a me per non star solo nei deserti gelidi
della vecchiaia.
                             In essi e in certi libri
degli uomini che amo – soprattutto nelle opere
di William Shakespeare, solo comparabili
con la bellezza infinita dell’acqua azzurra
che navigai da giovane – trovo la compagnia
che prima non ebbi mai.
                                             E così serenamente
passano i giorni inarrestabili che mi avvicinano
al silenzio e alla pace dell’ombra tanto attesa.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Hilo de oro, Antología poética, 1974-2011, Catedra, 2014

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