DUE
FUGHE
2 - VIVERE CLANDESTINO
Una
targa, sulla via di Petritxol, a Barcellona, ricorda la casa dove visse Leandro
Fernández de Moratín. Furono anni duri per Moratín, che vegetava nascosto, con
la sensazione d’essere vivo per miracolo in un mondo assolutamente barbaro e
ostile, quale hanno spesso sperimentato gli intellettuali spagnoli. Quando per
le strade di Madrid la gente grida “Vivan
las caenas[1]”,
un uomo che s’è dedicato a cose come tradurre Shakespeare e Molière, non ha
certo molte possibilità di non lasciarci la pelle.
Da
Barcellona, il 17 gennaio del 1816, Moratín scriveva all’amico Juan Antonio
Melón. Nella lettera ci sono alcune righe davvero impressionanti, nelle quali c’è
un certo apprezzamento per il modo di fare dei catalani, che però illustrano in
modo raccapricciante – e probabilmente molto fedele – la sensazione di sentirsi
scomodo e mal accetto che può sperimentare una persona civile quando si scatena
la brutalità celtiberica. “La mia
decisione – scrive Moratín da Barcellona – è quella di non muovermi da qui, di non cambiare questa gente per
nessun’altra di Spagna, se si deve vivere e morire con essa. In tal caso è
necessario fare una vita oscurissima e ritirata; non parlare, non scrivere, non
pubblicare, non dare nessun segno della mia esistenza; e questo, fra le persone
più tolleranti, meno pettegole, meno moleste di tutta la penisola; ove ognuno
attende ai suoi affari e interessi e non si mischia con gli estranei, cosa che
non capita altrove”.
A un
certo punto, André Breton diede ai surrealisti una consegna: “passare alla
clandestinità”. Ma una cosa è scegliere d’essere uno scrittore clandestino
prima di diventare uno scrittore ufficiale e riconosciuto – e questo era il
senso della consegna di Breton –, un’altra cosa (come nell’ammirevole poesia di
Gabriel Ferrater “La vita furtiva” che spesso è stata letta equivocamente come
una poesia politica) è avere la sensazione fondamentale di assedio e accerchiamento
che può dare l’esistenza quotidiana; e un’altra ancora, e ben diversa, è
scegliere il silenzio come Moratín, perché questa scelta amara è l’unica
permessa dal trionfo della stoltezza. Un silenzio così risulta più forte e più
patetico di qualsiasi accusa.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da Dietario, Seix Barral, 1984
[1] Viva
le catene. La frase si fa risalire all’anno 1814 ed è il
grido con il quale il popolo, in opposizione al grido Viva la libertà, volle esprimere la propria adesione al re Fernando
VII, quando, in quell’anno, impose il potere assoluto.
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