IL RACCONTO DEL MARITO
I
Di notte scivola fra materasso e sonno
si arrotola su un fianco
stringe le palpebre come per un dolore
e dietro gli occhi la cerca.
Prima che se ne andasse, quando ancora riusciva a parlare
in un sussurro gli ha detto: – tutte le sere, dal letto
chiamami con la malattia della tua voce,
fammi rientrare...
II
il mare greco si gonfiava di schiuma, il pergolato d’uva maturava
al sole
era seduta in un angolo d’ombra dentro un chimono lucido di
seta
e con l’indolenza di una sonnambula
alzando il viso liberava gli occhi dal buio dei capelli
tutt’intorno il silenzio della mattina prima che lo strepitoso
vociare
della torma estiva irrompesse con le sue corna d’ariete
versando il caffè nelle tazzine il chimono si piegava, si rialzava
usciva e rientrava in un largo di sole
sul mare il taglio spumoso di un traghetto andava e tornava
III
Di notte, arrotolato su un fianco, dentro la stanza senza più colori
non vede le scene memorabili del loro amore
vede il mare greco, le mani tenere e dure che sfogliano il giornale
il chimono fluttuante dalle spalle ai piedi
poi vede la sua faccia capovolta nell’obiettivo della
nikon, cercare ispirazione dalla luce
e la bocca di lei che sorridendo
dice: – a cosa serve una foto? ti basteranno gli occhi per
ricordare.
Da Di questo mondo, Aragno, 2013
venerdì 31 gennaio 2014
mercoledì 29 gennaio 2014
Salvatore Ritrovato
DOMANI
Era un dicembre di tanti anni fa
e un’alba come questa la sentivo
nascere dalla strada
quando ancora dorme la casa,
portarmi nel suo limbo
di soffi chiari e lenti,
a voci che mi accerchiano;
e nell’acqua che sale in cielo e piove
nelle ore corte del giorno
e si raccoglie nelle fogne,
si fa rugiada, imperla poi le foglie
le tegole, scorre sui vetri,
perdersi infine come l’ho lasciata.
Per te canto l’ombra all’ingresso
della magnolia e il nespolo
a ovest che prende freddo
e la grondaia che l’accarezza;
per te, quando mi chiami
presto e vorrei finire allora
allora la poesia di un solo verso,
invisibile, alla finestra.
Ma sono già le otto e piove e torno a letto.
Segue un bisbiglio dal pozzo
di luce, una hit parade
movimenti aerei di fune
nella nebbia, lo schiocco
inerte di mollette,
al tavolo che apparecchio
tra caffè e biscotti secchi.
L’anno nuovo torna nel suo vecchio
parallelo passato, ogni ombra
nell’iride di uno specchio,
queste parole in un abisso
silenzioso e domestico,
quello che nuotava dentro
nella tua pancia,
suo orizzonte segreto,
piccolo bastimento
girino da niente, batticuore;
la vita mi sorprende.
Ma t’imploro non dire altro,
ballata senza rima,
se torno in cucina e ancora dorme;
cerco le chiavi e gli occhiali
persi in un’altra casa, il tempo manca
mancando ci rimorde.
Vedrai laggiù che cieli azzurri e mari,
le dirai, domani.
Da L’angolo ospitale, La vita felice, 2013
Era un dicembre di tanti anni fa
e un’alba come questa la sentivo
nascere dalla strada
quando ancora dorme la casa,
portarmi nel suo limbo
di soffi chiari e lenti,
a voci che mi accerchiano;
e nell’acqua che sale in cielo e piove
nelle ore corte del giorno
e si raccoglie nelle fogne,
si fa rugiada, imperla poi le foglie
le tegole, scorre sui vetri,
perdersi infine come l’ho lasciata.
Per te canto l’ombra all’ingresso
della magnolia e il nespolo
a ovest che prende freddo
e la grondaia che l’accarezza;
per te, quando mi chiami
presto e vorrei finire allora
allora la poesia di un solo verso,
invisibile, alla finestra.
Ma sono già le otto e piove e torno a letto.
Segue un bisbiglio dal pozzo
di luce, una hit parade
movimenti aerei di fune
nella nebbia, lo schiocco
inerte di mollette,
al tavolo che apparecchio
tra caffè e biscotti secchi.
L’anno nuovo torna nel suo vecchio
parallelo passato, ogni ombra
nell’iride di uno specchio,
queste parole in un abisso
silenzioso e domestico,
quello che nuotava dentro
nella tua pancia,
suo orizzonte segreto,
piccolo bastimento
girino da niente, batticuore;
la vita mi sorprende.
Ma t’imploro non dire altro,
ballata senza rima,
se torno in cucina e ancora dorme;
cerco le chiavi e gli occhiali
persi in un’altra casa, il tempo manca
mancando ci rimorde.
Vedrai laggiù che cieli azzurri e mari,
le dirai, domani.
Da L’angolo ospitale, La vita felice, 2013
lunedì 27 gennaio 2014
Alberto Toni
BIRD-WATCHING
L’upupa in giardino mi porta la poesia:
soltanto un frammento, l’equilibrio
dei sensi, la tenuta dell’occhio per quel tanto
che basta. Poi resta fissa nell’occhio
la cerimonia, come una danza di guerrieri.
È il tempo minimo, la sua visita nel verde,
nella pausa che sibila distanze. È l’evento
tra i tanti scacchi dell’ombra, dura quel
tanto che basta e il mondo si rinomina,
batte.
Da Polvere, sassi, oli, Edizioni Il Bulino, 2012
L’upupa in giardino mi porta la poesia:
soltanto un frammento, l’equilibrio
dei sensi, la tenuta dell’occhio per quel tanto
che basta. Poi resta fissa nell’occhio
la cerimonia, come una danza di guerrieri.
È il tempo minimo, la sua visita nel verde,
nella pausa che sibila distanze. È l’evento
tra i tanti scacchi dell’ombra, dura quel
tanto che basta e il mondo si rinomina,
batte.
Da Polvere, sassi, oli, Edizioni Il Bulino, 2012
venerdì 24 gennaio 2014
Roberto Pazzi
L’ELEGANZA
Gli stili delle epoche, i sovrani
che non mutano nome ma numero
nella successione al trono,
sono gli anni del corpo.
Le prove del sarto ritagliano,
su stoffe che non copriranno
per sempre, il disegno d’una
figura incapace di pose
per l’artigiano severo
che fascia e cuce e rammenda
i guasti del tempo.
C’è, dentro quell’irrequietezza
davanti allo specchio,
il sogno di un’eleganza
definitiva,
liberata dalla civetteria
della storia.
Da Calma di vento, Garzanti, 1987
Gli stili delle epoche, i sovrani
che non mutano nome ma numero
nella successione al trono,
sono gli anni del corpo.
Le prove del sarto ritagliano,
su stoffe che non copriranno
per sempre, il disegno d’una
figura incapace di pose
per l’artigiano severo
che fascia e cuce e rammenda
i guasti del tempo.
C’è, dentro quell’irrequietezza
davanti allo specchio,
il sogno di un’eleganza
definitiva,
liberata dalla civetteria
della storia.
Da Calma di vento, Garzanti, 1987
mercoledì 22 gennaio 2014
Luigi Amendola
PIOVEVA, IN UN ANGOLO D’OTTOBRE
Pioveva, in un angolo d’ottobre
giorni addietro, a Roma.
La voce di Marco copriva
lo sciacquìo monotono
delle pozze e dei ricordi.
— Ci pensi, Luigi,
l’autunno in campagna,
i ceppi accesi, un bracco ai piedi
e tra le mani Goethe... —.
Ma commediante, guitto per condizione
o scherno, io tacevo.
— È vero... — replicai, dopo,
nel chiuso della memoria
il culto deleterio del non detto.
— ... quasi sempre
un dubbio d’opportunità m’assale
ad ogni ipotesi di fuga —.
(inedita)
Pioveva, in un angolo d’ottobre
giorni addietro, a Roma.
La voce di Marco copriva
lo sciacquìo monotono
delle pozze e dei ricordi.
— Ci pensi, Luigi,
l’autunno in campagna,
i ceppi accesi, un bracco ai piedi
e tra le mani Goethe... —.
Ma commediante, guitto per condizione
o scherno, io tacevo.
— È vero... — replicai, dopo,
nel chiuso della memoria
il culto deleterio del non detto.
— ... quasi sempre
un dubbio d’opportunità m’assale
ad ogni ipotesi di fuga —.
(inedita)
lunedì 20 gennaio 2014
Jean-Claude Izzo
LE PIETRE CHIUDONO LO SPAZIO
Le pietre chiudono lo spazio,
lo imprigionano:
attraverso facciate sventrate
il cielo cerca la sua via d'uscita.
Risuonano passi: i miei, instancabili.
Ombra di guardia
in questo giorno senz’ombra,
veglio.
La luce è triste,
assetata dei suoi sogni.
E i sogni sopravvivono all’immobilità.
I miei passi suonano a morto,
battono il tempo della memoria
per farne sprigionare il sangue.
Traduzione inedita di Annalisa Comes
da Loin de tous rivages, Les Editions du Ricochet, 1997
Le pietre chiudono lo spazio,
lo imprigionano:
attraverso facciate sventrate
il cielo cerca la sua via d'uscita.
Risuonano passi: i miei, instancabili.
Ombra di guardia
in questo giorno senz’ombra,
veglio.
La luce è triste,
assetata dei suoi sogni.
E i sogni sopravvivono all’immobilità.
I miei passi suonano a morto,
battono il tempo della memoria
per farne sprigionare il sangue.
Traduzione inedita di Annalisa Comes
da Loin de tous rivages, Les Editions du Ricochet, 1997
venerdì 17 gennaio 2014
John Keats
AL SONNO
Tu che soffice imbalsami la quieta mezzanotte,
e con abili dita benigne nel buio, riparo
alla luce, chiudi i nostri occhi già paghi,
scesi nell’ombra di un divino oblio;
sonno consolatore, chiudi se ti piace
a metà di quest’inno i miei occhi cedevoli,
o aspetta l’amen, prima che il papavero
sparga intorno al mio letto cullanti carità;
poi salvami, o lucido il giorno passato
sul mio cuscino resterà, recando affanni;
salvami dalla vigile coscienza – talpa
sotterranea – che col buio si fa forte;
poi abile gira la chiave nella toppa oliata
e lo scrigno silenzioso dell’anima serra.
Traduzione di Francesco Dalessandro
John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972
Tu che soffice imbalsami la quieta mezzanotte,
e con abili dita benigne nel buio, riparo
alla luce, chiudi i nostri occhi già paghi,
scesi nell’ombra di un divino oblio;
sonno consolatore, chiudi se ti piace
a metà di quest’inno i miei occhi cedevoli,
o aspetta l’amen, prima che il papavero
sparga intorno al mio letto cullanti carità;
poi salvami, o lucido il giorno passato
sul mio cuscino resterà, recando affanni;
salvami dalla vigile coscienza – talpa
sotterranea – che col buio si fa forte;
poi abile gira la chiave nella toppa oliata
e lo scrigno silenzioso dell’anima serra.
Traduzione di Francesco Dalessandro
John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972
mercoledì 15 gennaio 2014
Alessandro Ricci
SI COSTRUISCONO ZATTERE
Si costruiscono zattere anche
per non salvarsi, per non
raggiungere approdi ma
perderli, e lo si fa
intenti, odiandosi quasi
serenamente, sapendo che
Penelope non aspetta
al di là del mare,
e nient’altro
che mare
c’è.
(inedita)
Si costruiscono zattere anche
per non salvarsi, per non
raggiungere approdi ma
perderli, e lo si fa
intenti, odiandosi quasi
serenamente, sapendo che
Penelope non aspetta
al di là del mare,
e nient’altro
che mare
c’è.
(inedita)
lunedì 13 gennaio 2014
Ligdamo
ELOGIO DEL VINO
Splendido vieni, Bacco (ed in eterno
viva il mistero della vite, cinta
d’edera sia la fronte), e col rimedio
della coppa allontana il mio dolore:
spesso, vinto, così cadde l’amore.
Spilla vino, ragazzo, e col falerno
schietto riempi i bicchieri. Via gli affanni,
genia crudele, via le angosce! Apollo
rifulga qui coi suoi cavalli alati.
Voi, amici, assecondatemi e nessuno
rifiuti di seguirmi; e chi volesse
sfuggire la battaglia con il vino
sia tradito in segreto dall’amata.
Ti arricchisce nell’animo, e il superbo
l’abbatte, questo dio, e lo dà in balia
della sua donna; vince tigri armene,
vince fulve leonesse, questo dio,
anche ai violenti intenerisce il cuore.
L’amore ti fa questo, ed è capace
anche di peggio; perciò preferite
ciò che vi dona Bacco: a chi di voi
piace il bicchiere vuoto? Non inganna
nessuno, Bacco, e non guarda mai storto
chi col vino lo celebra. Si adira
solo con chi non beve. Perciò beva
chi lo teme. Le pene che minaccia,
e con che forza, lo attesta la madre
cadmèa con la sua preda insanguinata.
Lungi da noi questa minaccia: l’ira
del dio la senta lei, se è meritata.
Ma cosa invoco, folle? Questi voti
li disperdano i venti con le nubi
del cielo. Anche se non mi pensi
più, sii felice, Neèra, e luminosa
la tua sorte. Ora voglio, spensierato,
dedicarmi alla mensa, in questo giorno
finalmente sereno. Ah, simulare
la gioia che non c’è com’è difficile!,
e divertirsi quando il cuore è triste;
il sorriso è una smorfia sulle labbra
di chi mente e i discorsi ebbri hanno un suono
falso, se sei turbato. Ma perché
mi lamento, infelice? Andate via,
turpi angosce: Lenèo padre detesta
parole malinconiche. Ragazza
cretese che piangesti, abbandonata
in mezzo al mare ignoto, gli spergiuri
di Teseo: ti cantò Catullo e disse
del tradimento dell’ingrato. Un monito:
fortunato chi impara dal dolore
degli altri a non soffrire. Da due braccia
gettate intorno al collo, da chi giura
e spergiura, guardatevi. Begli occhi,
belle bugie. Ma spergiuri di amanti
Giove stesso non cura e li abbandona
al vento. Perché allora mi lamento
delle false parole, di promesse
non mantenute? Via da me, vi prego,
discorsi troppo seri. Lunghe notti
vorrei tenerti tra le braccia e lunghi
giorni viverti accanto, con te, perfida
e con me ostile ma senza mia colpa,
perfida, ma, benché perfida, cara.
Bacco ama la sua naiade: coppiere,
perché sei così lento? L’acqua Marcia
temperi il vino vecchio. La ragazza
volubile ha lasciato la mia mensa
desiderando chissà quale letto?
Non passerò la notte a tormentarmi
e a sospirare. Su, ragazzo, versa
un vino forte, puro. Già da tempo,
profumate le tempie con il nardo
di Siria, avrei dovuto incoronarmi
di ghirlande.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Splendido vieni, Bacco (ed in eterno
viva il mistero della vite, cinta
d’edera sia la fronte), e col rimedio
della coppa allontana il mio dolore:
spesso, vinto, così cadde l’amore.
Spilla vino, ragazzo, e col falerno
schietto riempi i bicchieri. Via gli affanni,
genia crudele, via le angosce! Apollo
rifulga qui coi suoi cavalli alati.
Voi, amici, assecondatemi e nessuno
rifiuti di seguirmi; e chi volesse
sfuggire la battaglia con il vino
sia tradito in segreto dall’amata.
Ti arricchisce nell’animo, e il superbo
l’abbatte, questo dio, e lo dà in balia
della sua donna; vince tigri armene,
vince fulve leonesse, questo dio,
anche ai violenti intenerisce il cuore.
L’amore ti fa questo, ed è capace
anche di peggio; perciò preferite
ciò che vi dona Bacco: a chi di voi
piace il bicchiere vuoto? Non inganna
nessuno, Bacco, e non guarda mai storto
chi col vino lo celebra. Si adira
solo con chi non beve. Perciò beva
chi lo teme. Le pene che minaccia,
e con che forza, lo attesta la madre
cadmèa con la sua preda insanguinata.
Lungi da noi questa minaccia: l’ira
del dio la senta lei, se è meritata.
Ma cosa invoco, folle? Questi voti
li disperdano i venti con le nubi
del cielo. Anche se non mi pensi
più, sii felice, Neèra, e luminosa
la tua sorte. Ora voglio, spensierato,
dedicarmi alla mensa, in questo giorno
finalmente sereno. Ah, simulare
la gioia che non c’è com’è difficile!,
e divertirsi quando il cuore è triste;
il sorriso è una smorfia sulle labbra
di chi mente e i discorsi ebbri hanno un suono
falso, se sei turbato. Ma perché
mi lamento, infelice? Andate via,
turpi angosce: Lenèo padre detesta
parole malinconiche. Ragazza
cretese che piangesti, abbandonata
in mezzo al mare ignoto, gli spergiuri
di Teseo: ti cantò Catullo e disse
del tradimento dell’ingrato. Un monito:
fortunato chi impara dal dolore
degli altri a non soffrire. Da due braccia
gettate intorno al collo, da chi giura
e spergiura, guardatevi. Begli occhi,
belle bugie. Ma spergiuri di amanti
Giove stesso non cura e li abbandona
al vento. Perché allora mi lamento
delle false parole, di promesse
non mantenute? Via da me, vi prego,
discorsi troppo seri. Lunghe notti
vorrei tenerti tra le braccia e lunghi
giorni viverti accanto, con te, perfida
e con me ostile ma senza mia colpa,
perfida, ma, benché perfida, cara.
Bacco ama la sua naiade: coppiere,
perché sei così lento? L’acqua Marcia
temperi il vino vecchio. La ragazza
volubile ha lasciato la mia mensa
desiderando chissà quale letto?
Non passerò la notte a tormentarmi
e a sospirare. Su, ragazzo, versa
un vino forte, puro. Già da tempo,
profumate le tempie con il nardo
di Siria, avrei dovuto incoronarmi
di ghirlande.
Traduzione di Francesco Dalessandro
venerdì 10 gennaio 2014
Isabella Morra
ECCO CH’UNA ALTRA VOLTA, O VALLE INFERNA
Ecco ch’una altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.
Ogni monte udirammi, ogni caverna,
ovunqu’io arresti, ovunqu’io mova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi,
cresce ogn’or il mio mal, ogn’or l’eterna.
Deh, mentre ch’io mi lagno e giorno e notte,
o fere, o sassi, o orride ruine,
o selve incolte, o solitarie grotte,
ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d’altro miserando fine.
Ecco ch’una altra volta, o valle inferna,
o fiume alpestre, o ruinati sassi,
o ignudi spirti di virtute e cassi,
udrete il pianto e la mia doglia eterna.
Ogni monte udirammi, ogni caverna,
ovunqu’io arresti, ovunqu’io mova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi,
cresce ogn’or il mio mal, ogn’or l’eterna.
Deh, mentre ch’io mi lagno e giorno e notte,
o fere, o sassi, o orride ruine,
o selve incolte, o solitarie grotte,
ulule, e voi del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d’altro miserando fine.
mercoledì 8 gennaio 2014
Sandro Penna
GUARDANDO UN RAGAZZO DORMIRE
Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
Ma più belli di te ragazzi ancora
dormiranno nel sole in riva al mare.
Ma non saremo che noi stessi ancora.
da Tutte le poesie, Garzanti
Tu morirai fanciullo ed io ugualmente.
Ma più belli di te ragazzi ancora
dormiranno nel sole in riva al mare.
Ma non saremo che noi stessi ancora.
da Tutte le poesie, Garzanti
lunedì 6 gennaio 2014
John Keats
IN RISPOSTA A UN SONETTO CHE FINIVA COSÌ:
Azzurro – la vita del cielo – dominio
di Cinzia – e vasto palazzo del sole,
tenda d’Espero e di tutta la sua corte,
grembo di nubi d’oro, grige, nere.
Azzurro – la vita delle acque – oceano,
fiumi vassalli, laghi innumerevoli:
infuriano e schiumano agitati, ma nel cupo
azzurro originario troveranno pace.
Azzurro – dei verdi boschi cugino gentile,
sposo del verde nei fiori più soavi:
nontiscordardime – campanula – violetta,
regina di riserbo. Quali strani poteri
possiedi, e non sei che ombra! Ma immensi
se vivi in occhi animati dal destino.
Traduzione di Francesco Dalessandro
John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972
Sono molto più amati gli occhi scuri
di quelli che copiano la corolla del giacinto –
di J. H. Reynolds
Azzurro – la vita del cielo – dominio
di Cinzia – e vasto palazzo del sole,
tenda d’Espero e di tutta la sua corte,
grembo di nubi d’oro, grige, nere.
Azzurro – la vita delle acque – oceano,
fiumi vassalli, laghi innumerevoli:
infuriano e schiumano agitati, ma nel cupo
azzurro originario troveranno pace.
Azzurro – dei verdi boschi cugino gentile,
sposo del verde nei fiori più soavi:
nontiscordardime – campanula – violetta,
regina di riserbo. Quali strani poteri
possiedi, e non sei che ombra! Ma immensi
se vivi in occhi animati dal destino.
Traduzione di Francesco Dalessandro
John Keats, Poetical Works, Oxford University Press, 1972
venerdì 3 gennaio 2014
William Shakespeare
NÉ MARMO NÉ DORATI MONUMENTI DI PRÌNCIPI
Né marmo né dorati monumenti di prìncipi
a queste rime possenti sopravviveranno;
tu, in esse contenuto, splenderai più luminoso
che su lurida pietra dal sudicio tempo imbrattata.
La guerra che devasta abbatterà statue
e le sommosse scalzeranno muraglie
ma né spada di Marte né incendi furiosi
arderanno vive prove della tua memoria.
Contro morte e inimicizia che il ricordo cancella
avanzerai, e per sempre la tua lode
avrà sede negli occhi d’ogni futura età
che fino all’estrema rovina consumerà il mondo.
E fin quando al Giudizio anche tu risorgerai,
qui, negli occhi degli amanti, vivo abiterai.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Né marmo né dorati monumenti di prìncipi
a queste rime possenti sopravviveranno;
tu, in esse contenuto, splenderai più luminoso
che su lurida pietra dal sudicio tempo imbrattata.
La guerra che devasta abbatterà statue
e le sommosse scalzeranno muraglie
ma né spada di Marte né incendi furiosi
arderanno vive prove della tua memoria.
Contro morte e inimicizia che il ricordo cancella
avanzerai, e per sempre la tua lode
avrà sede negli occhi d’ogni futura età
che fino all’estrema rovina consumerà il mondo.
E fin quando al Giudizio anche tu risorgerai,
qui, negli occhi degli amanti, vivo abiterai.
Traduzione di Francesco Dalessandro
mercoledì 1 gennaio 2014
Francesco Dalessandro
CAPODANNO, 1984
a Sandro, da una stanza vuota
Molto in ritardo sull’anno, sul vento.
Così giunse il dolore, alle tre.
Ancora intronavano l’aria
gli scoppi i colpi secchi
dei mortaretti
e sfioccavano vampe
versicolori sopra la magnolia
e sull’abete che la tramontana
spiumava d’aghi;
stormiva
l’aiuola intera e con
suono più grave la
memoria.
Io temevo
per l’ortensia e i rametti
dei gerani, le gemme
amicali
trapiantate da poco.
Nel cortile
ventoso in quella notte
di freddo in quel principio
d’anno qualcuno si
amava, due, al riparo
delle macchine in sosta, due creature
in amore.
«La femmina – è la gatta
sempre paurosa – è lei
che spinge e si contrae
così ardente così
rapida contro il ventre
del maschio, il gatto fulvo
che si tende e la tiene
che la preme, sì è lei
che si lagna...».
Mi abitava in quell’ora
un’ansia stizzosa
e petulante che un bicchiere o
due di troppo del rosso
di Pavona m’avevano
accresciuto; in più adesso
un oscuro desiderio, mediamente
perfetto tra rimpianto e
rancore, mi si svelava.
Appeso
con lo sguardo a una finestra,
da un amore che era morto
o da uno
che rinasceva avrei
voluto evadere.
Fu allora
che formulai non so
come nato il pensiero:
«Ho la forma
della mia vita
anch’io, come le anguille
di Lowry».
Poi, vedendo
lo storto ritratto che di me si
rifletteva sul vetro:
«Vivo curvo
in me stesso. Non guardo
mai dove la realtà
per difetto di rima
si deforma. Mi guardo
la punta delle scarpe.
Vivo curvo
e miope.
Ma ogni cosa
è la forma che ha».
Il cancello fischiò, si ri-
chiuse sbattendo.
Una coppia
rientrava.
Ebbi pudore di
farmi vedere sporto
alla finestra illuminata.
Mi
tenni dietro la tenda, attesi che
girassero l’angolo.
Calava
poco a poco anche il vento.
La magnolia e l’abete –
due sentinelle, due
ombre in attesa del-
l’alba (la prima del-
l’anno nuovo, oramai
vicina), intirizzite –
montavano la guardia.
Un’acqua sottile
prese a cadere e dopo
un po’ la festa parve
a tutti finita.
Io pensavo
a Lowry, non so bene
perché, in quell’inizio
d’anno, in quella nottata
così perfetta per
gelo, per sofferenza
e volontà d’amore;
pensavo a te –
e tra i vivi
ai meno vivi –
a noi, a chi ha virato
i quaranta o vi è
prossimo.
«A quarant’anni
si è detto tutto? Si è
fatto…»
– Niente.
A te, perché fratello
e poeta, così confusamente
dicevo:
«Ecco la stanza
vuota. Da qui parliamo
ai morti. Ha ragione
Caproni. E io se guardo
non vedo che
sedie vuote e vuote
parole ascolto:
dunque
se non ai morti al-
meno agli assenti, fossero
solo persi di vista
o addormentati nel-
l’altra stanza e di tutto
che accade ignari, o
lontani, oltre le balze del
Pineto immerso nel
buio, ma chissà dove, o
via da questa
città che finalmente
a ridosso dell’alba
trova pace».
Cessata
l’acquerùgiola e morto
col tre coi botti di san
Silvestro anche l’errore,
la calma era adesso un perfetto
ancoraggio.
«Ma fosse
destinato anche solo
a chi mi ama vorrei
scrivere solo un piccolo
e perfetto poema
sulla felicità, su due martin
pescatori –
ma Lowry
era infelice più di me,
meno di me legato
alla gabbia –
vorrei
anch’io, come Vigil Forget,
essere ben disposto
verso il presente e amarlo,
ma non posso».
Non un suono muoveva
l’aria. A un passo, il mattino
d’una guasta domenica di freddo
saliva: avrebbe sostato
in un osanna di parole, si
sarebbe disperso tra corimbi
e grappoli di neri
cirri, molto più tardi
sarebbe ridisceso
pigramente
a smemorarsi.
Contrariamente all'abitudine, alla poesia segue una notizia. Chi non ha pazienza, può non leggerla: nulla perderà. Chi lo facesse e volesse commentarne le considerazioni, o commentare la poesia (specialmente i nostri 59 lettori più fedeli), farebbe cosa grata all'autore, che certo ne trarrebbe spunti di riflessione.
Notizia
Scrissi questa poesia trent’anni fa, durante i primi mesi del 1984; con molta lentezza, mi sembra di ricordare, su un taccuino (che non ho più ritrovato) dove i versi si alternavano a riflessioni e appunti vari.
Qualche cenno su quegli anni. Il 1983 era stato l’anno della prima inchiesta giudiziaria a carico di Silvio Berlusconi e della prima volta che un socialista, Bettino Craxi, diventava presidente del consiglio: due nomi, un sodalizio. L’ultimo avvenimento pubblico dell’anno fu il funerale di Umberto Terracini, un padre della patria, dimenticato e infine osteggiato dal PCI: il feretro, davanti a Montecitorio, venne seguito da pochissime persone.
Immediatamente dopo, siamo nell’anno dell’incubo orwelliano – che almeno per noi tarderà quasi un altro decennio –; nell’anno del “decisionismo” craxiano: per contrastare un’inflazione al 15% e uno dei più alti indebitamenti di tutto l’Occidente (i BOT sono al 18% annuo e rendono addirittura conveniente riportare in Italia i capitali clandestinamente esportati all’estero), accollandone tutte le responsabilità agli operai e ai loro sindacati, il socialista Craxi taglia per decreto quel minimo meccanismo di difesa chiamato “scala mobile” (che, con aumenti automatici, adegua il salario ad ogni punto in più d’inflazione).
Il 1984, sarà anche l’anno del boom della borsa, della nascita dei consulenti e dei promotori finanziari, che, per raccogliere capitali, arrivano ad offrire rendimenti fino al 20%, superiori a quelli dei BOT; sarà l’anno in cui Berlusconi compra Italia 1 e Rete 4, Craxi le salva con un decreto e Dell’Utri spiega così l’abc di quel successo: «La A di amicizia, la B di Berlusconi e la C di culo»; l’anno della strage mafiosa del rapido “904”, dell’uccisione (ordinata dal mafioso Nitto Santapaola) di Giuseppe Fava e del “colpo del secolo” (la rapina altamente simbolica da 35 miliardi di lire alla Brink Securmark, di proprietà di Sindona); l’anno del primato del PCI alle seconde elezioni europee e della morte di Enrico Berlinguer; infine, sarà l’anno del successo di Uccelli di rovo sulla TV commerciale e della prima Piovra sulla TV pubblica, della pubblicazione di Seminario sulla gioventù di Aldo Busi e della prima parte de La camera da letto di Attilio Bertolucci.
Insomma, un anno di rilevanti avvenimenti pubblici; ma il mio “privato”, allora preponderante e doloroso, tutto lasciò sullo sfondo. La poesia, tuttavia, non voleva essere un elogio di quel “privato”, bensì la testimonianza (banale o no che possa essere dirlo) del passaggio da un anno cruciale (prima esaltante, poi infelice) della mia vita al successivo, amarissimo (eppure autentico spartiacque fra due diversi tempi del mio fare poesia: a ottobre del 1985 iniziai a scrivere L’osservatorio). La sua collocazione naturale (per tempo, tono, metro) era La salvezza, libro scritto in quegli anni e pubblicato solo nel 2006, ma, all’ultimo momento, la esclusi, insoddisfatto. Per essere chiari, non era del contenuto che dubitavo, ma della forma, o, meglio, della struttura del verso. In molte poesie coeve, incluse nel libro, i versi non hanno un ritmo sillabico, dunque la loro misura non è metrica, ma stabilita su una durata, o lunghezza, variabile, emotiva, che spezza in segmenti l’unità sintattica del discorso, spesso costituito da una sola frase. In questa poesia particolare, volevo che il verso avesse una estensione più elastica però anche più nervosa; che fosse massimamente mimetico delle “oscillazioni del fantasticare”, dei “soprassalti della coscienza” (definizioni di Baudelaire); tramite: un ritmo battente, spezzato, franto, a momenti singhiozzante, quasi strozzato (di persona ai limiti della lucidità, causa il vino, il sonno, il delirio d’amore o il dolore: a scelta), fatto perciò di pause lunghe, cesure decise, inarcature improvvise, impreviste, all’altezza di congiunzioni, articoli e preposizioni; d’indugi e frequenti ripetizioni.
Nel corso di questi trent’anni, la poesia è stata ripresa più di qualche volta; eppure, ogni volta scoprivo che articolazione della voce e articolazione del pensiero non coincidevano. Magari era solo colpa del trascorrere del tempo, ossia del fatto che io stesso, nel frattempo, ero cambiato. È stata spesso ritoccata, corretta, modificata (senza mai stravolgere la sua struttura di base), alla ricerca di un equilibrio vocale e di pensiero sempre sfuggente. A chi pensasse che tutto questo sia un po’ maniacale, non potrei dare torto. Però credo che anche in poesia la “libertà è coscienza della necessità” (è una frase di Georgij Plechanov); o, più semplicemente, che anche la libertà è soggetta a regole. Perciò ho cercato tanto a lungo quelle alle quali dovessero ubbidire i versi di questa poesia. La versione che qui si legge è l’ultima (la penultima si trova sul numero 7, ottobre 2010, di “Poliscritture”) in ordine di tempo; non so se è la definitiva.
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