LASCIANDO ROMA
(SATIRA III)
La partenza di un vecchio amico mi rattrista
ma non posso che approvare la sua scelta
di stabilirsi nella vuota Cuma offrendo
così un cittadino alla Sibilla. Porta di Baia,
spiaggia gradevole è Cuma e ritiro accogliente.
Io stesso alla Suburra preferirei Procida.
Per quanto desolato e misero, esiste
un luogo che non sia preferibile al terrore
continuo degli incendi e del crollo dei tetti
e ai pericoli infiniti di questa città terribile,
ai poeti che leggono versi anche ad agosto?
Mentre caricano la casa tutta su un carro
l’amico si trattiene un momento con me
sotto gli archi umidi di porta Capena.
Dove Numa di notte incontrava l’amica
e oggi il tempio e il bosco della fonte sacra
sono presi in affitto da certi giudei
padroni di un unico bene: un cestello di fieno
(difatti per legge ogni albero paga una tassa
e da quando ne scacciarono le Camene
la selva è ridotta in miseria), nella valletta
di Egeria tra caverne scavate scendiamo,
là dove sentiremmo più forte la presenza
del nume della fonte se l’erba tuttora
incorniciasse di verde l’acqua corrente
e i marmi non deturpassero il tufo originario;
là Umbricio mi dice:
«A Roma non c’è posto
per un onesto lavoro né compenso alle fatiche,
la roba oggi vale meno di ieri e domani
varrà ancora meno, per questo ho deciso
di andarmene a Cuma dove Dedalo depose
le ali stanche. Finché la mia canizie
non si nota e la vecchiaia incipiente
non mi toglie vigore, finché ancora Lachesi
per me ha filo da torcere e mi reggo
sulle gambe senza bastone, via da qui!
Ci vivano mercanti e affaristi , ci resti
chi cambia nero in bianco o vince appalti
per la pulizia di templi fiumi e porti,
chi è capace di spurgare fogne, di portare
cadaveri al rogo, di vendere teste all’asta,
quelli che un tempo suonavano il corno
nelle arene di provincia, famigerati in tutti
i paesi, che ora si permettono d’offrire
spettacoli gladiatòri e quando la gentaglia
lo vuole per compiacerla pollice verso
decidono morte. Poi tornano agli appalti
di latrine. Perché no? La Fortuna capricciosa
si diverte ogni tanto a portare al successo
gente così. Perciò a Roma io che ci faccio?
A mentire non riesco, a lodare un cattivo
libro o a consigliarne la lettura nemmeno,
dei movimenti degli astri non so niente,
il funerale di un padre non voglio né posso
prometterlo, viscere di rana? mai studiate,
portare a una donna sposata i messaggi
dell’amante? lo sanno fare in tanti, ma non io.
Tenere mano a un ladro, in nessun caso
io potrei farlo; ecco perché quando esco
di casa nessuno m’accompagna, peggio che
se fossi monco o con un braccio paralizzato,
peggio che se fossi un buono a nulla. Solo
chi è complice di qualcuno o sa avere
un animo fervente di segreti indicibili
oggi si fa amici. Chi ti fa una confidenza
in buona fede non pensa di doverti qualcosa
perciò non ti dà niente. A Verre invece
sta a cuore solo chi può denunciarlo
in ogni momento. Nemmeno tutto l’oro
che la sabbia del Tago fangoso trascina in mare
è così importante da perderci il sonno
o da farti accettare regali che un giorno
dovrai tristemente lasciare o che possano
suscitare la diffidenza di un amico potente.
La gente più gradita ai nostri ricchi,
che io cerco di evitare, romani, basta poco
a dire. Non sopporto una Roma tutta greca!
E in questa feccia quanti sono dopotutto
gli autentici achei? Già da un pezzo
l’Oronte siriano sfocia nel Tevere e trascina
con sé lingua costumi flautisti e corde oblique,
tamburi esotici e giovani prostitute del Circo.
Chi le trova di suo gusto, queste puttane
esotiche con la mitra dipinta, si faccia sotto.
Quirino, il tuo bracciante ora calza scarpette
eleganti e al collo ben curato s’appende
medaglie. Chi dall’alta Sicione e chi da Amìdone
o Andro, uno da Samo un altro da Tralli
o Alabanda, dànno tutti l’assalto all’Esquilino
o al colle che prende nome dal vimine: oggi
per insinuarsi nell’intimità delle grandi case
e domani per esserne padroni. Mente sveglia
audacia e sfrontatezza lingua pronta,
più impetuosi d’Iseo: sono così. In ognuno
c’è un uomo tuttofare: grammatico retore
geometra pittore massaggiatore funambolo
augure medico e mago, tutto sa fare
il grecuccio affamato: chiedigli di volare,
volerà. Ma del resto non era né mauro
né sarmata o trace quel tale che mise le penne:
no, era ateniese di Atene.
Così non dovrei
evitare le loro porpore, io? Anzi dovrei
sopportare che uno portato a Roma
dallo stesso vento che porta prugne e fichi
firmi prima di me nei contratti o che a cena
si sistemi in un posto migliore del mio?
Che la nostra infanzia abbia respirato
sotto il cielo dell’Aventino e sia stata nutrita
con olive sabine non conta più niente?
Previdenti e adulatori, lodano i discorsi
del primo imbecille, la brutta faccia dell’amico
comparandone il collo troppo lungo
a quello d’Ercole che solleva Anteo da terra,
ne ammirano la voce anche se più sgraziata
e straziante di quella del gallo che becca
la gallina. Anche noi potremmo farlo,
ma a quelli la gente crede. Sulla scena,
chi interpreta meglio Taide o una moglie
o Doride discinta? Sembra che a recitare
non sia un attore ma proprio una donna
piatta nel basso ventre e con la fessa.
Neanche Antioco è così bravo né Stratòcle
o Demetro o Emo l’effeminato: una nazione
di commedianti. Se ridi ecco un greco
che ride più forte, se un amico piange
giù a piangere benché gli importi poco,
se fa freddo e domandi un po’ di fuoco
lui indossa il mantello, se dici ‘fa caldo’
già suda. Non siamo mai pari perché
è sempre in vantaggio chi di giorno o di notte
cambia faccia secondo quella degli altri,
sempre pronto a un applauso di gioia,
a osannare l’amico che ha fatto un gran rutto
o una lunga pisciata o gli è riuscito un bel
rimbombo sul fondo di un pitale dorato.
Per essi non c’è niente di sacro o al riparo
della loro libidine: la padrona di casa
la figliola vergine il fidanzatino imberbe
il ragazzino ancora ingenuo: nessuno.
E se questi non ci sono sbattono sul letto
la nonna dell’amico. Conoscono i segreti
di casa e si fanno temere. Non sono dicerie:
il vecchio stoico lo scellerato delatore
che fece uccidere Bàrea, allievo e amico,
era nato e cresciuto dove caddero le penne
del cavallo della Gòrgone.
Per un romano non c’è posto dove impera
questa gente che per vizio innato s’accaparra
l’amico e non lo divide con nessuno.
Basta che uno di loro versi solo una goccia
del veleno che possiedono per natura
o per dote patria in un orecchio meschino
e mi mettono alla porta, la mia opera è presto
scordata. Non c’è un altro posto dove abbia
meno importanza perdere un amico. E del resto,
non prendiamoci in giro, che merito può avere
o che rispetto il poveraccio che si butta
addosso la toga e si precipita in piena notte
se certi pretori scapicollano il littore
a spiare il risveglio di Modia o di Albina
perché a darle il buongiorno non li preceda
un collega? Il figliolo di un uomo libero
fa la scorta allo schiavo di un ricco, qualcuno
regala a Calvina o a Catiena uno stipendio
intero di tribuno per ansimare una o due volte
su di loro. Tu invece quando hai voglia
di una puttana curata e ben vestita
ti fai prendere dai dubbi e non sai deciderti
a far scendere Chione dalla sua lettiga.
Trova se ci riesci in tutta Roma un testimone
onesto come chi un giorno fu degno
d’ospitare la dèa dell’Ida. Da Numa in persona
o da quello che salvò Minerva terrorizzata
dal fuoco del tempio vorranno sapere
chi sono e cosa fanno, poi per ultima cosa
quali sono i loro costumi. Quanti schiavi
mantiene? Quanti ettari di terra possiede?
E sono grandi, sono ricchi i piatti in cui cena?
Reputazione e credito dipendono dai soldi
che uno ha in banca. Se non hai denaro,
puoi giurare sugli dèi ma tutti penseranno
che menti e che non hai timor di dio.
E se per caso hai il mantello sdrucito
o vi si nota un rattoppo, se hai la toga
fuori moda o un buco in una scarpa
il riso si spreca: la miseria ti regala il ridicolo…
“Vergogna! Fuori chi non ha diritto di sedersi
nei posti riservati ai cavalieri e ai figli dei ruffiani,
anche se generati in un bordello. Tra rampolli
di gladiatori e maestri d’armi può applaudire
solo il figlio di un banditore ben nutrito”.
Così volle Otone, quell’inetto, per separarci.
Un genero di più basso rango o che porti
una dote inadeguata a quella della sposa
non piace a nessuno. S’è mai visto il nome
di un poveraccio scritto in un testamento?
E uno senza soldi può essere ammesso
alla carica di edile? Già da un pezzo i romani
in bolletta dovrebbero essere emigrati
in blocco perché senza un patrimonio
qui non fai molta strada. Un appartamentino
costa un occhio. Così mantenere dei servi
o permettersi una cenetta fuori. Mangiare
in piatti di terracotta tra i marsi e i sabini
è normale, ma qui ancora se ne vergognano.
Ammetterai che in mezza Italia ormai la toga
non s’indossa che da morti: portano tutti
gli stessi vestiti. Perfino nelle feste e a teatro,
dove si corre a rivedere la solita farsa
e le smorfie delle maschere spaventano
i bambini in braccio alle madri, vestono
tutti allo stesso modo. Solo i magistrati,
per rispetto alla carica, indossano tuniche
bianche. A Roma ci si veste per sembrare
più ricchi e per farlo si è disposti perfino
a ficcare le mani nelle tasche altrui.
È vizio comune pretendere di vivere
da gran signori senza avere un soldo.
A Roma tutto ha un prezzo, perfino i saluti
distratti e gli sguardi indifferenti. Cosso
è in bagno a farsi la barba? Veiento festeggia
un pupillo? Mentre aspetti, i loro servi
t’offrono focacce ma devi pagarle. Fa rabbia
ma è il destino dei clienti di certi ricconi.
Nella fresca Preneste o a Bolsena, tra verdi
colline boscose, nella quieta Gabi o nella rocca
di Tivoli chi vive nel terrore che gli crolli
addosso la casa? Invece noi abitiamo
in una città che sta in piedi su travi malferme
perché l’amministratore non fa rinforzare
i muri pericolanti e quando ha richiuso
qualche vecchia fenditura ci dice di dormire
tranquilli, lasciandoci con quella continua
minaccia sulla testa. Non è meglio vivere
dove non c’è il pericolo d’incendi e la notte
puoi dormire senza paura? senza che qualcuno
chiami i pompieri e intanto metta in salvo
i suoi stracci? Tu lo ignori ma sotto i tuoi piedi
il terzo piano è in fiamme e mentre in basso
già si sparge il terrore chi ha solo le tegole
a ripararlo dalla pioggia, lassù dove covano
le colombelle, benché ultimo è destinato
a morire arrostito. Cordo aveva un lettuccio
troppo piccolo anche per Procula la nana,
sei orcioli su una credenza, una brocca
sotto un tavolino di marmo sorretto
da un Chirone piegato; in una vecchia cesta
conservava certi libretti greci dai quali
i topi ignoranti rodevano i carmi divini.
Quindi Cordo, chi lo nega? non aveva niente.
Ma adesso ha perso anche quel niente.
E per colmo di sventura, benché nudo
e affamato, nonostante le sue preghiere,
nessuno gli darà da mangiare o gli offrirà
un riparo per la notte. Invece se crolla
il palazzo di Asturico le matrone si scarmigliano,
i patrizi si vestono a lutto e il pretore rinvia
le udienze: tutti piangono per la città
sciagurata e se la prendono col fuoco.
Il palazzo brucia ancora e già c’è chi accorre
con marmi nuovi, chi porta denaro, chi offre
altre statue, capolavori di Eufranore
o Policleto, una signora dona vecchi gioielli
asiatici, un tale libri e scaffali dove metterli,
chi un busto di Minerva chi un moggio d’argento.
Persico il riccone raccoglie più di prima
e anche roba più bella: c’è da credere
che abbia dato lui stesso fuoco a casa.
Se sei forte abbastanza per rinunciare
agli spettacoli del circo, a Sora a Fabrateria
o a Frosinone e al prezzo che qui paghi
in un anno per un buco senza luce,
c’è pronta per te una bella casa con un orto
e un piccolo pozzo dal quale senza corda
puoi cogliere l’acqua per irrigare le piantine.
Puoi coltivare l’orticello e viverci bene,
ricavandone verdure a sufficienza per tutti
i vegetariani del luogo. Non è poco, dovunque
in qualunque angolo di mondo, poter dire
di possedere anche solo una lucertola.
A Roma puoi ammalarti e morire d’insonnia
perché il cibo indigesto ti brucia lo stomaco.
Non c’è casa in affitto dove puoi dormire:
lo permettono solo tanti soldi. E la colpa
principale è dei carri che in vicoli stretti
come budelli fanno avanti e indietro
e delle mandrie che si fermano facendo
un tal fracasso che sveglierebbe anche Druso
o un vitello marino. Quando esce per affari,
trasportato sulla lettiga il ricco passa
tra la gente che si scansa come una liburna
veloce: lì dentro legge e scrive, magari dorme:
le tendine abbassate gli conciliano il sonno.
E arriva sempre prima di me: anch’io vado
di fretta ma l’onda della folla che mi precede
mi rallenta e quella che mi segue m’incalza
alle reni: chi mi dà una gomitata, chi mi picchia
con un asse di legno, chi mi dà in testa
una trave, chi una botte. Le gambe sono presto
tutte imbrattate di fango, suole enormi
mi pestano i piedi a ogni passo e un soldato
mi trafigge l’alluce coi chiodi degli scarponi.
Intorno alla sportula guarda che fumo
e che calca! Convitati a centinaia e ognuno
si porta dietro la cucina. A stento Corbulone
riuscirebbe a tenere i grandi vasi e tutti
gli arnesi che un piccolo schiavo infelice
col collo teso regge in bilico sulla testa
e mentre corre tiene acceso il fornelletto.
Le tuniche rammendate si strappano di nuovo.
Ecco passare un lungo abete traballante
sopra un carro, seguito subito da un pino
su un altro carro: ondeggiando sulla gente
tutt’e due minacciano di cadere. Se l’asse
di uno dei grandi carri carichi di marmi
della Liguria si rompe e il monte di marmo
si rovescia sui passanti, mi dici cosa resta
dei corpi? Chi ritrova più membra e ossa?
I cadaveri stritolati della gente svaniscono
come aria. In famiglia intanto lavano
tranquillamente i piatti, soffiando sul fuoco
lo ravvivano, fanno risuonare le striglie ingrassate
e riempita d’olio la boccetta preparano i lini.
Ma mentre i servi sistemano ogni cosa
il morto è già seduto sulla riva dello Stige
fangoso e, novizio coi capelli dritti, di fronte
al cupo nocchiero dispera salire sulla nave
perché in bocca non ha l’obolo richiesto.
Pensa a tutti i pericoli della notte; all’altezza
tra te e i cornicioni dei tetti: può cadere
una tegola e spaccarti la testa, ai vasi rotti
che spesso cadono dalle finestre: visto
che segni sul marciapiede? Se vai fuori a cena
senza fare testamento diranno che non ti curi
degli incidenti imprevisti perché sei pigro
e imprevidente. Puoi morire tante volte
quante finestre affacciano sulla strada
per la quale stai passando. Devi augurarti
devi sperare che le finestre si accontentino
di versarti sulla testa soltanto il contenuto
dei loro catini. Un ubriaco prepotente,
in pena perché non ha ancora preso a botte
qualcuno, che urla e piange come Achille
l’amico morto, che si gira e rigira nel letto
non riuscendo a dormire, ti si para davanti
cercando la rissa che gli faccia venir sonno.
Ma né il vino né la rabbia gli impediscono
di stare prudentemente alla larga da quel tale
che un mantello di porpora o un gruppo
di gente al seguito con torce o lampade
di bronzo consiglia di non molestare.
Di me, che cammino alla luce della luna
o al lume di candela che riparo con la mano
non ha né paura né rispetto e mi blocca
con arroganza. È l’inizio della rissa, se è rissa
quando mena uno solo e l’altro le prende.
Meglio fermarmi. Di fronte a un tale pazzo
scatenato, come posso difendermi? Urla.
‘Da dove vieni?’ vuol sapere. ‘Con chi
sei stato a cena? Rispondi o ti prendo
a calci in culo. Dove vai? Dove pensi
di rintanarti? In quale buco ti ritrovo?’
Perché se cerchi di scappare, giù botte!
E magari poi ti cita anche in giudizio.
Ecco la libertà dei poveracci: supplicare
d’esser lasciato in pace e di tornare a casa
tutto intero. E c’è di peggio! Puoi correre
pericoli anche più seri. Quando case
e taverne sono chiuse e silenziose,
le porte serrate, rischi che qualcuno
ti piombi addosso dal buio con un coltello
e ti finisca in fretta per ripulirti di tutto.
Ogni volta che le guardie presidiano
la palude Pontina o la pineta Gallinaria
i briganti invadono Roma come una riserva.
C’è un’incudine ormai, c’è una fornace
dove non si forgino catene per i ceppi?
Fra un po’ mancherà il ferro per le zappe,
per i vomeri e i sarchielli. Che fortuna
ai tempi dei nostri bisnonni dei re dei tribuni
quando a Roma bastava solo un carcere!
Potrei continuare, ma s’è fatto tardi.
Il sole sta calando e le giumente chiamano.
Devo andare. Il carrettiere già da un pezzo
mi fa cenno col bastone per dirmi ch’è ora.
Perciò addio! Ogni tanto ricordami.
E tutte le volte che a rimetterti in forze
andrai nella tua Aquino fammelo sapere
e io verrò a trovarti. Metterò gli scarponi
e a piedi da Cuma verrò alla tua fredda
campagna e se non si vergogneranno
di me ascolterò volentieri i tuoi versi ».
Traduzione di Francesco Dalessandro
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