BERNARDO A CINQUE
ANNI
Il dolore è nel
tuo occhio timido
nella mano
infantile che saluta senza grazia,
il dolore dei
giorni che verranno
già pesa sulla tua
ossatura fragile.
In un giorno
d’autunno che dipana
quieto i suoi fili
di nebbia nel sole
il gioco s’è
fermato all’improvviso,
ti ha lasciato
solo dove la strada finisce
splendida per
tante foglie a terra
in una notte, sì
che a tutti qui
è venuto un
pensiero nella mente
della stagione che
s’accosta rapida.
Tu hai salutato
con un cenno debole
e un sorriso
patito, sei rimasto
ombra nell’ombra
un attimo, ora corri
a rifugiarti nella
nostra ansia.
da Le poesie, Garzanti 1990
commento di Pere Gimferrer
UNA SERA D’AUTUNNO
Conosciamo tutti le visioni del paesaggio
italiano degli ultimi giorni di guerra. Più che dai cinegiornali, molti di noi
le conoscono da certe immagini che, per qualche oscuro motivo, sembrano più
vere di qualunque notiziario: immagini grigiastre, contrastate, nel bianco e
nero forte, ruvido delle prime pellicole neorealiste di Rossellini. La gelida
quiete dei campi silenziosi sotto un cielo rannuvolato o un sole glorioso, il
silenzio diguazzante dell’acqua tra i giunchi e la mitraglia nelle strade –
come in una poesia di Salvatore Quasimodo: “…quel geranio acceso / su un muro
crivellato di mitraglia” –, lo sfregamento cupo del cuoio e i calci dei fucili,
tra ombre e rovine. Tutto questo ci passa negli occhi col rumore piacevole
della lontananza: senza dubbio pungente, che ferisce nell’intimo.
Dopo non molto, altre immagini, a colori,
sostituirono, o forse resero allegoriche, le vecchie immagini di Rossellini.
Adesso erano immagini di violento splendore, immagini di un sogno epico: carri
di fieno, attrezzi agricoli, assemblee popolari e fascisti in fuga nel silenzio
dei campi. Nella parte inferiore del casale, un uomo invecchiato anzitempo – il
padrone – è tenuto prigioniero da un ragazzino con una pistola, come in una
stampa d’illustrazione rivoluzionaria. Negli occhi del padrone di casa c’è una
stanchezza antica e il capo di quel gruppo di contadini armati gli risparmia la
vita, perché – dice – “il padrone è già morto”. Sullo sfondo, al vento della
pianura, ondeggia una grande bandiera rossa. Sono le immagini finali di Novecento, il film di Bernardo
Bertolucci. Benché storicamente
imprecise, hanno la persistenza irriducibile di un mito filmico, che s’impone
con la sua poeticità durante la proiezione.
Ma ora andiamo in Italia. È una sera
d’autunno dell’anno seguente la fine della guerra; l’autunno successivo alla
sequenza dell’insurrezione in Novecento.
L’Italia, ferita e stanca, vive in pace. Quella sera, ci sono fili di nebbia
nel chiarore moribondo del sole. Un bambino di cinque anni gioca per strada, al
limite dei campi, dove la strada finisce. All’improvviso interrompe il gioco e
il padre – un giovane uomo di trentacinque anni – lo lascia solo in quella zona
incerta, non più giorno ma non ancora notte, non più strada ma non ancora
campo, splendida nel silenzio delle foglie morte. In quella calma, si sente il
gelo d’una presenza torbida: l’arrivo della notte, la caduta della stagione nel
freddo e nell’oscurità, un crepuscolo del giorno e dell’anno che annuncia il
crepuscolo della vita. Solo, tra le foglie morte, nell’oscurità, sul limitare
della strada, il bambino ora muove la mano, salutando debolmente, senza grazia.
Ha occhi timidi e un sorriso patito. Lascerà presto quella regione d’ombra; è
come sorpreso dal presentimento dei dolori che devono venire, e che lo spinge a
rifugiarsi dove sono i grandi; anche loro, come lui, deboli e ansiosi in
quell’ora indecisa.
Ma tutto ciò non ci ricorda qualche altro
film? Sì, probabilmente ci ricorda la lontana tristezza, di paradiso perduto,
impossibile e già amaro, delle prime immagini de La Luna, quando s’alza in cielo – sul pallore d’una strada bianca,
mentre fa notte – il grande chiarore lunare, lattiginoso e svanito, di un
autunno irreale. Quel bambino de La Luna,
non è lo stesso che giocava ai margini della strada, sguazzando nell’oro
brunito e stinto delle foglie morte? Quel bambino, anni dopo, sognerà con le
immagini epiche di Novecento. Il
bambino si chiama Bernardo Bertolucci; è suo padre, il poeta Attilio
Bertolucci, a parlarci, in una poesia, di quella sera d’autunno del primo anno,
oscuro e ancora incerto, del dopoguerra italiano. Ora, sentiamo profondamente
il freddo di quell’autunno.
Traduzione
di Francesco Dalessandro
da Dietario,
Seix Barral 1984