La notte prima dell'imbarco
Bisogna dormire in questa casa, ci hanno
lasciati qui, con un appuntamento:
al molo, domattina.
Dalla finestra
sulla strada, si vedono alberi, gli stessi
che nel giardino, è facile confondersi,
di dentro, di fuori, lo stesso rosa
dei grandi petali.
Solo un azzurro.............................
................................questo giardino,
..............una strada
una casa
e in quella casa un giardino, forse questo.
Un'àncora i tuoi occhi, accanto ad essi
io sto al sicuro, essi la vera casa
sono,
non queste pareti posticce, verniciate
in fretta proprio prima che arrivassimo
- non separano neppure due sfumature
di rosa,
né un emisfero dall'altro e neanche i cieli,
nemici, dell'orsa e del piccolo carro -.
Non mi riparano, i tuoi occhi, dalla rugiada
e neppure dal tempo,
non potranno evitarmi la morte e tuttavia
sono rifugio certo, talismano,
accanto ad essi io mi credo al sicuro.
O meglio
mi importa meno quel che succede,
e non temo la casa che domani
lasceremo come un po' più tardi
lasceremo
le isole, il respiro, le ossa.
Senza di te
però sarebbe uguale
l'esser già morto,
ed in tal caso il peggio, che sarebbe stato
non conoscerti mai,
vivere in altro secolo, differente dal tuo
su un pianeta
qualunque di un qualunque squallido sole,
o peggio ancora,
incrociarci tu ed io al cinema, in fila,
nella sala
d'attesa all'obitorio, e non capire
che eri tu,
averti lì davanti e come un pessimo artista
non vederti,
questo non è accaduto e tutto ora va bene,
ora
ciò che voglio soltanto è di non sopravviverti.
Magari fosse
la casa di cartone o marmellata,
magari
di cioccolato o marzapane, e arrivasse
a mangiarsela
un orco, e la mangiasse con noi
dentro.
(Non per nulla il fanciullo di Venere
discese in terra armato di arco e frecce,
non trasse con sé pala né squadra
né ridicolmente si portò
bende dall'olimpica dimora,
sedativi, farmaci. Compito suo
è nuocere, non curare, non costruire qualcosa;
se quando ti trafigge tu ti scordi
della morte, questo è solo un effetto
collaterale, al modo stesso in cui
un tizio cui han piantato una pallottola
nella mano o in una spalla o un piede,
certo che perde di colpo ogni memoria
dell'angoscia suicida, immateriale,
che cinque minuti prima lo affliggeva:
quando davvero duole, diviene
banale la paura del futuro;
il venturo domani e qualsiasi
deduzione, qualsiasi pronostico
e qualsiasi
riflessione, che vadano all'inferno:
questa è l'ora
infuriata al tempo stesso che serena
dell'adesso
e nelle macchie gialle, rosse,
dell'adesso, nelle isole un regno
fondato sulla legge del tuo sguardo
cosmo macro
in cui qualunque aspetto del terreno
corrisponde a un cosmo micro:
le montagne i tuoi piedi, le lagune i tuoi occhi,
e perché mai
nell'esperimento geologico infinito
non potrebbe il pianeta
dare vita a una cosa come questa?
Se potesse accadere,
dovrebbe essere qui, comincia qui di nuovo
a ribollire la terra,
nascono di nuovo, tra le crepe del basalto
pallidi
fili
d'erba.
Traduzione di Francesco Tarquini
da Las Encantadas, Edizioni Fili d'Aquilone, 2019
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