lunedì 30 novembre 2020

Umberto Piersanti

 DENTRO IL PRESENTE


quale millennio scorre

per le strade, nei caffè della sera

ragazzi dai jeans strappati,

i volti così incerti

e luminosi,

voi che sedete intorno

ai lunghissimi tavoli

per i vostri eterni aperitivi,

chiedo come ad altri

a voi così simili e lontani

chiese un poeta antico e forestiero?


anche questo è tempo

dove parlare d'alberi

appare un delitto

perché su troppe stragi

comporta il silenzio?

forse, ma tra selve odorose

troppo tempo hai trascorso

e il loro verde sapore

t'è entrato per la gola

giù nel sangue,

una diversa era 

ti ha abitato


mentre guardi il Carpegna

annuvolato, passi lento

tra ornelli e ginepri,

da forestiero cammini

dentro il Presente


luglio 2018


da Campi d'ostinato amore, La nave di Teseo, 2020

venerdì 27 novembre 2020

Yun Dong Ju

 AUTORITRATTO

 

 

Giro solitario ai piedi della montagna, vado verso un campo di riso      

                dove trovo un pozzo abbandonato e guardo dentro.

 

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole che si addensano, 

                il cielo vasto che si dilata, il vento blu e l’autunno.

 

Vedo anche un uomo,

senza una ragione lo odio e mi allontano.

 

Mentre mi allontano provo pietà per lui. Torno indietro e l’uomo 

                è ancora là dentro.

 

Di nuovo provo odio per lui e vado via.

Mentre mi allontano quell’uomo inizia a mancarmi.

 

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole addensate, il cielo vasto 

                che si dilata, il vento blu, l’autunno  e c’è un uomo simile 

                a un ricordo.

 

Traduzione di Eleonora Manzi

 

da Vento blu, Ensemble, 2020

mercoledì 25 novembre 2020

E. E. Cummings

 SOLO

 

starsene (solo) in qualche

 

pomeriggio autunnale:

a respirare questa

funesta quiete; mentre

 

quell’enorme e paziente

 

creatura (che da mai

mai s’è spogliata del

dì) di sempre si veste

 

sempre di sogno ed è

 

assaggiare

in-(oltre

morte e

 

vita)immaginabili misteri


Traduzione di Francesco Dalessandro

lunedì 23 novembre 2020

John Keats

 SULLA FAMA                     

 

 

La fama, ragazza volubile, fa la ritrosa

con chi troppo pronto in ginocchio  

la corteggia, ma cede a uno sventato

adolescente e smania per un cuore

disinvolto. È una zingara che a chi

senza lei non sa stare non dà retta.

Sussurrarle all’orecchio non vale,

parlarne è calunniarla: è una civetta;

vera zingara del Nilo, è cognata del geloso

Putifarre. Voi poeti malati d’amore

ripagatela con lo stesso disprezzo;

voi artisti delusi d’amore, pazzi che siete!

fatele un bell’inchino e ditele addio:

se ne avrà voglia, sarà lei a venirvi dietro.


Traduzione di Francesco Dalessandro

venerdì 20 novembre 2020

George Gordon Byron

 TENEBRA



Ho fatto un sogno non soltanto sogno.
Il sole splendente s’era spento e le stelle
vagavano al buio nello spazio eterno
senza raggio né direzione; la terra gelata
girava cieca abbuiandosi nell’aria illune;
venne mattino, passò, tornò senza recare
giorno, e gli uomini, presi dal terrore
di tanta desolazione, dimenticarono
le loro passioni, i cuori agghiacciarono
pregando in se stessi per avere luce.
Si viveva tutti intorno ai bivacchi:
troni e palazzi di re coronati, capanne
e abitazioni d’ogni genere vennero bruciate
per fare luce, intere città consumate;
gli uomini si stringevano attorno ai roghi
delle case per guardarsi ancora in faccia.
Felici coloro che dimoravano nell’occhio
dei vulcani e dei loro picchi ardenti:
un’atterrita speranza era ciò che restava
al mondo. Le foreste date al fuoco,
d’ora in ora cadendo incenerite sparivano;
i tronchi crepitando si schiantavano
e spegnevano e tutto era nero. I volti umani
a quella luce disperante, se la fiamma
guizzando li colpiva, avevano un aspetto
spettrale. Qualcuno prostrato si copriva
gli occhi e piangeva; altri appoggiavano
il mento sulle mani giunte e sorridevano;
altri ancora correvano su e giù alimentando
i roghi funebri e folli d’inquietudine
guardavano in alto al cielo offuscato,
funebre ammanto di un mondo defunto,
quindi imprecando si gettavano in terra
urlando e digrignando i denti. Gli uccelli
rapaci stridevano atterriti e sbattendo
le inutili ali svolazzavano al suolo; le belve
più feroci diventavano docili e spaurite;
le vipere s’attorcigliavano e strisciavano
tra turbe di genti sibilando senza mordere:
le ammazzavano per cibo. La guerra,
per un poco cessata, riprese a saziarsi:
un pasto si pagava col sangue e ognuno
si saziava ingozzandosi al buio, torvo,
in disparte. Non era rimasto più amore:
la terra era tutta un pensiero di morte,
immediata e ingloriosa; i morsi della fame
rodevano le viscere, gli uomini morivano,
ma le ossa e le carni restavano insepolte.
Magro mangiava magro, anche i cani
assalivano i padroni; tranne uno: rimasto
fedele a un cadavere tenne a bada uccelli,
bestie e uomini digiuni presi dalla fame
finché altri morti stramazzando attrassero
le scarne mascelle; lui non cercò cibo
ma con pietoso e ininterrotto lamento,
e un acuto guaito desolato, leccando
quella mano che ormai non rispondeva
con carezze, morì. Poco a poco, la folla
perì tutta di fame. Di un’immensa città
in due sopravvissero che erano nemici:
s’incontrarono accanto alle braci morenti
di un altare dove un cumulo di sacri
oggetti era ammassato per un empio uso.
Con mani scheletrite e fredde frugarono
e raccolsero ceneri fioche, con esile fiato
vi soffiarono un alito di vita destando
una fiamma beffarda e, a quel chiarore,
alzarono gli occhi per guardarsi in viso:
si videro, gettarono un grido e morirono;
l’uno morì per l’orrore visto nell’altro,
senza sapere a chi la fame aveva scritto
sulla fronte: Demonio. Il mondo era vuoto;
prima popoloso e potente, era un grumo
senza stagioni, senza erbe alberi uomini
e vita: grumo di morte, caos di dura creta.
Fiumi, laghi, l’oceano, tutti erano quieti,
e nulla si muoveva nel silenzio degli abissi.
Navi senza equipaggio marcivano in mare,
gli alberi cadevano in pezzi, affondavano
giacendo a dormire nell’abisso senza flutti.
Le onde morte, sepolte le maree, la luna,
loro signora, già spenta, nell’aria ferma
placatisi i venti, sparite le nuvole – inutili
per essa: la Tenebra era l’Universo.

Traduzione di Francesco Dalessandro
da Il sogno e altri pezzi domestici, Il Labirinto, 2008

mercoledì 18 novembre 2020

Nikos Kazantzakis

 PROLOGO


Sole, grande astro orientale, berretto d'oro della mente,

che amo portare di traverso, ho voglia di giocare,

perché gioiscano i cuori finché siamo entrambi vivi.

E' buona questa terra, ci piace, come l'uva riccia

che pende nell'aria azzurra e oscilla nel piovasco,

Dio, la beccano gli spiriti e gli uccelli del vento;

pilucchiamola anche noi, che ci rinfreschi la mente!

Tra le mie tempie che pulsano, dentro il grande tino,

pigio i grappoli turgidi, il mosto ribolle fiero,

e la mia testa ride e fuma al culmine del giorno.

E' la terra che spiega le vele, o il cervello freme

e la Necessità occhi neri intona ebbra il canto?

Sopra di me il cielo ardente, sotto, il mio ventre sfiora

come una gabbianella la schiuma fresca delle onde;

le nari colme di salsedine, i flutti sulla schiena

battono e vanno rapidi, e vado anch'io con loro.

Sole, grandissimo sole, che dall'alto contempli tutto,

vedo il berretto marino del Distruttore di fortezze;

diamogli un calcio per gioco, vediamo fin dove arriva!

Vedi, il Tempo ha i suoi cicli, e il Destino ha ruote,

e la mente dell'uomo, seduta in alto, le fa girare.

Su, diamo un calcio alla terra, facciamola ruzzolare!

Sole, occhio vivido malizioso, fulgido segugio,

stana e insegui la preda che amo, e riferiscimi

quello che vedi nel mondo, dimmi cos'hai sentito;

lo passerò nella fucina segreta segreta del mio cuore,

e piano, col riso e con il gioco, con la carezza fonda,

pietre, acqua, fuoco e terra diventeranno spirito;

l'anima dolce dalle ali di fango lascerà il corpo,

e come una fiamma serena si perderà nel sole!

(...)


Traduzione di Nicola Crocetti


da Odissea, Crocetti Editore, 2020


Questi sono i primi trenta versi del Prologo del poema di Nikos Kazantzakis. Un poema in 24 canti, di 33.333 versi, che "è la prosecuzione ideale dell'epos omerico. E' un'opera fluviale, proteiforme, poliedrica, straordinariamente complessa e visionaria, che l'autore cretese considerava il suo opus magnum, e nella quale profuse tutte le sue energie fisiche e intellettuali. E' animata da un fuoco e da una passione ideali che ricordano la Commedia dantesca...". Così lo presenta il traduttore, Nicola Crocetti, che ha dedicato sette anni della propria vita a renderlo in versi italiani, e che conclude la sua introduzione con queste parole dell'accademico di Francia Alain Decaux: "l'Odissea di Nikos Kazantzakis è un inno alla grandezza dell'uomo. Alla fragile grandezza dell'uomo".

lunedì 16 novembre 2020

Yun Dong Ju

 PROLOGO


Spero di guardare il cielo fino al giorno della mia morte

senza provare la minima vergogna,

anche per il vento che agita le foglie

ho provato tormento.

Con il cuore che celebra le stelle

so che debbo amare tutto ciò che va incontro alla morte

e devo seguire ogni strada

che mi è stata assegnata.


Anche questa notte il vento graffia le stelle.


(20 novembre 1941)


Traduzione dal coreano di Eleonora Manzi

da Vento blu, Ensemble 2020

venerdì 13 novembre 2020

Patrizia Cavalli

 

LA MORTE VORREI AFFRONTARLA AD ARMI PARI

 

La morte vorrei affrontarla ad armi pari

anche se so che infine dovrò perdere,

voglio uno scontro essendo tutta intera,

che non mi prenda di nascosto e lentamente.

 

da Vita meravigliosa, Einaudi, 2020

mercoledì 11 novembre 2020

Carlo Bordini

La notte del 10 è mancato l'amico Carlo Bordini. Questa sua poesia, dedicata al nostro amico Alessandro Ricci, ora sembra scritta per lui stesso. Perciò gliela dedico. Ciao, Carlo, da chi ti stimava e voleva bene.


AMICO


ho visitato un amico che stava morendo.
mi perdonò di essere vivo. mi sono accorto 
che me n’ero sempre vergognato. lui invece mi spiegò
che non era una colpa. non l’avevo fatto apposta, io.
mi spiegò che essere vivo non era una colpa. non facevo male
a nessuno. ma ci volle lui per spiegarmelo. a lui ho creduto.
mi spiegò che se facevo male non era con intenzione. mi perdonò.
mi consolò. sei simpatico, mi disse, anche se non stai morendo. nella
vita avrai tante cose belle, piacerai alle donne. mi fece far pace
con la vita, come si fa con una fidanzata riottosa.

Da I costruttori di vulcani, Luca Sossella Editore, 2010

lunedì 9 novembre 2020

Michele Bordoni

 GYMNOPEDIE

 

*

Ha tutta la tua voce quest’assenza

di base e fondamento,

dolore confermato in un dolore

più grande, universale.

Lo avevi immaginato più feroce,

ma non dolce, più chiuso nel suo male

ma mai figura pari alla tua vita

abbarbicata stretta alle colline;

e adesso senti che quasi ti somiglia

che quasi ti promette la dizione

di sé, quindi di tutto.

 

*

E allora il suo silenzio, la sua attesa,

il non poter più dire niente

non è esercizio di dissipazione,

non è la morte, la morte veramente.

                                                                  È qui,

è qui che si fa urgente e necessaria

la parola, quand’è la sua impotenza

a farsi indispensabile

                                        ed il gesto.

 

* 

Resistere ed avere un’eleganza

che sia preghiera e perimetro di voce,

la fioritura nell’apnea del canto.

Resistere com’è giusto

                                          rituale

del crepuscolo

com’è tutta Venezia nelle strette

se si apre una finestra, ne esce il sole

l’acqua ne ride un poco e lo sprofonda

nel fondale di pietra e non dimenticanza.

 

da Gymnopedie, Italic, 2018

venerdì 6 novembre 2020

Patrizia Cavalli

POTEVA ESSERE PIÙ GRANDE LA MIA VITTORIA

 

Poteva essere più grande la mia vittoria?

Potevano esserci baci più dolci,

parole più appassionate?

Mi lasci tutto, mi regali tutto,

non conosci il mio segreto:

mi apri le porte dei giorni,

delle partenze e dei ritorni,

delle notizie chieste agli amici comuni,

delle visite improvvise, nei teatri,

nei ristoranti, in compagnia

d’altri più belli vistosi disponibili:

persone delle quali chiederai i nomi

e la condizione.

Ah, come crescerà la mia leggenda:

ti arriveranno descrizioni di come

ridevo, di come parlavo: com’ero bella,

quanto ero spiritosa l’altra sera.

Ti ringrazio bionda mia bella:

non sai che regalo mi hai fatto a dirmi:

«Non ti voglio vedere mai più».


da Vita meravigliosa, Einaudi, 2020

mercoledì 4 novembre 2020

Anna Settevendemmie

 HO SENTITO QUALCUNO

“questa non è la mia casa      è la dimora dei morti

dire che li invito a venire da me     in realtà è un errore

è più esatto dire     fatemi restare con voi”

(Takahashi Mutsuo, Questa casa, Poeti giapponesi)

Ho sentito qualcuno bussare

alla porta ma non c’era

nessuno là fuori ad aspettare poi

ho sentito qualcosa cadere ma

non c’era niente che

si lasciasse vedere.

Abitano le stesse stanze dove

riteniamo di avere

il privilegio dell’esclusività.

E invece dovremo imparare

a convivere a farci i conti

durante i giorni a dialogare

come in sogno perché non

sappiamo se siano loro

i morti.

Non solo, come scriveva Rilke,

per scrivere un verso bisogna essere

rimasti seduti vicino ai morti, sono

loro che ci stanno seduti

accanto sono loro che ci abitano

facendo di noi

un intero, due metà in un corpo solo.

Sul tema si rimanda alla lettura

dei maestri della fisica e ai poeti

giapponesi.


(inedita)

lunedì 2 novembre 2020

Alessandra Paganardi

 ELOGIO DELL’INCOMPIUTO

 

Oggi ho scoperto che somiglia a un bosco

il pomeriggio con te. L’apertura

segreta di un sentiero sull’asfalto

fra il pudore dei rovi e la tenacia

 

del sole. Troverai sempre diversi

le foglie i rami le radure i frutti

selvaggi, come gioia all’improvviso.

Io non li colgo – vivo sulla soglia

 

della felicità che sazia e illude

abito nei sobborghi della luce

per aggiungere un altro lato al giorno.

 

Scelgo la linea storta, il tronco cavo

la freccia che non parte. Mi nascondo

nel tappeto di un muschio. Aspetto ancora.

 

da A dream of words. Selected poems, Gradiva Publications, 2020