Da una settimana è trascorso il quinto anniversario della
“scomparsa” di Juan Ruiz. Questa breve antologia dei suoi versi serva a
ricordarlo.
ISOLA DEL TEMPO
(antologia di Juan Ruiz)
su nessun’altra dopo te
bruceranno smarriti i polpastrelli
Come
amarti
Non voglio
amarti come una rosa o una pietra
preziosa, come
i luoghi dell’infanzia,
le speranze i
rimpianti i rimorsi le pene,
le cose
perdute, gli ideali della prima giovinezza.
Voglio amarti
come si amano le piccole abitudini
e gli oggetti
d’ogni giorno: la tazzina sbeccata,
il cucchiaino
spaiato, la prima sigaretta,
l’accendino che
si gira distratti fra le dita,
il posacenere
pieno, il lavandino sporco,
le chiavi di
casa; voglio amarti come si ama
il calore del
sole dentro il freddo o un viale
alberato
d’estate, come l’acqua, il pane, il sale.
Le
cose
La camera da letto che al mattino si sveglia
e svogliata apre gli occhi
e come te sbadiglia, il letto che serba
l’impronta del tuo corpo,
il cuscino che abbracci dormendo
(vedovo del tuo viso, del respiro),
le lenzuola ancora calde,
il rubinetto, l’acqua calda della doccia,
l’accappatoio di spugna, la biancheria
fresca, i vestiti che indossi
per il nuovo giorno, gli strumenti
per il trucco, il saluto, la borsa, la porta
di casa, le chiavi, l’ascensore, le scale.
Isola nel tempo
1.
Fu in un’isola nel tempo, sentendo
la tua vita affidarsi alle mie mani,
e il tuo corpo abbandonarsi al mio;
quando scostai dalla tua fronte
una ciocca di capelli e sorpresi
le dita a meravigliarsi del gesto;
toccando con la fronte la fronte,
respirando il tuo respiro;
sentendo le tue mani cercarmi
e toccare il mio corpo con strana
imperizia; quando i volti
si cercarono e le bocche – oh ma timide
impaurite – si trovarono… fu allora
che ti riconobbi che ti seppi
a dispetto del tempo e di te stessa
2.
Che disperata solitudine prima
di baciare il tuo pube di pioggia!
Tepori di fine estate benedirono
l’unione dei nostri fianchi.
Non era né notte né mattino,
ma un’ora di silenzio quando dissetai
la lunga sete ai tuoi seni, ebbe fine
l’errante questua di fianchi e
di braccia, d’inguine e di labbra,
di fiato e di febbre, di tormento
saziato.
3.
Quando le dita
tracciarono la linea
aguzza dei tuoi
fianchi,
e quando, brune
tortore tremanti,
le punte dei seni
si alzarono in volo
al tocco delle
labbra, quando il fuoco
del tuo ventre
arse le morte
foglie del
pudore, quando l’ansia
fu spasimo, grido
muto, sì quando
dal desiderio
generasti il piacere
e le labbra si
schiusero per dirlo,
quando il fiore
del tuo corpo si aprì
fra petali di
febbre io ape assetata
mi posi
saziandomi lasciandomi morire…
4.
La mano salì,
mentre lo sguardo
ne seguiva il
lento volo, fino all’ombra
dei capelli, al
silenzio delle labbra,
poi discesa
nell’ansia del seno
si aprì lenta la
strada per golfi
e pianure, per
l’umida palude
dove scese in suo
aiuto la lingua
e il desiderio si
sciolse in affanno.
Cieca e pronta,
ti apristi all’assalto
e al morso, ti
piegasti all’oscuro
fuoco nel sangue,
fosti ansimo e febbre.
Così
t’abbandonasti – né pudore
né ricordo –
all’intimo spasimo
che appaga e
cancella, esiliandolo, il dolore.
Torno
a te
«Io torno sempre a te
con la disperazione e il desiderio
spesso disorientata
piena di dubbi e rabbia ma ritorno
sempre a te, con la stessa violenza
che da te mi allontana.
Come un cane affamato
il cuore ti viene dietro,
latra alle tue calcagna
ringhia perfino perché tu ti volga
ma se lo chiami viene
mansueto a mendicare le carezze».
Prodigio
Tu sei bella e ben fatta, un prodigio
che non avevo meritato
e troppo tardi ho conosciuto.
Chi ti avrà dopo di me,
quando non ci sarò più?
Chi ti darà lo stesso fuoco?
Quale uomo
si piegherà sulla tua carne
e il suo patire,
farà libero il tuo corpo?
Sarà questo il mio cordoglio
per tutti gli anni
vissuti senza averti avuta,
per tutti i giorni che mi resteranno
dopo averti perduta.