venerdì 30 novembre 2012

Gianfranco Palmery


PER ENNE

Se dico che i miei occhi prendono luce
dai tuoi, senza non hanno vita, sono
polvere – non li puoi vedere: gli occhi
d’un morto (che funereo idillio, c’è
chi invidioso commenterà); che la luce
del giorno non mi illude, mi ulcera, l’ultimo
olio della notte consumato, se
tu non spandessi un azzurro alone, pallido
cerchio riparatore, chi vorrebbe – non è
petrarchismo tombale – tirarsi su, aprire
gli occhi, accogliere il rumore dei giorni?

Da Medusa, Il Labirinto, 2001

mercoledì 28 novembre 2012

Rodolfo Di Biasio


POEMETTO DELLA TREGUA 

1

Le strade tutte alle spalle,
le irrisolte strade,
e il loro frastuono
quei lampi che segnarono
il cuore di furori
Rosse in un incendio
vi fiorirono tutte le cose
                                        le rose della vita

2

La tregua:
la richiede il cuore
le sue tessiture
risultano dosaggio
di lente alchimie
Si muove
in una penombra di sangue ispessito

Precipizi
i suoi silenzi sempre più lunghi


3

È questo il tempo (il luogo?)
delle quiete interrogazioni
se fuori
sui muri trapassa
un fiato di vento
il luminoso filo della luna

Tutto è al di là e oscuro:
vi trascorrono
in un incrinato specchio
terra e cielo,
si confondono
in un incastro di corrispondenze

Presiede alla notte
l’abrasa memoria delle cose
                                             delle rose della vita


Da Poemetti elementari, Il Labirinto, 2008

lunedì 26 novembre 2012

Kenneth Rexroth


UNA PERLA VIVA                                                          

A sedici anni venni all’ovest, 
sui merci della Chicago, Milwaukee 
e St. Paul, la grande linea 
del Nord, la Northern Pacific. 
Lavoravo come aiuto di un tale
che radunava enormi branchi
di cavalli selvaggi nell’Okanogan 
e nell’Horse Heaven. Sceglievamo
le bestie migliori del branco, 
tutto il resto era cibo per polli 
e cani. Portammo trenta capi 
sul Methow e il Twisp, attraverso 
le sorgenti del lago Chelan, 
giù per lo Skagit fino alla regione 
di Puget Sound. Mi occupavo 
della cucina e dei lavori del campo. 
In un paio di settimane imparai 
per bene a manovrare le bestie.
Riuscivamo a domare ogni giorno 
un nuovo cavallo. Il giorno dopo 
gli mettevamo il basto. Nel tempo 
che giungevamo a Marblemount 
li avevamo addestrati per bene.
I coglioni che li compravano
li credevano indomiti mustang
del deserto. In poche settimane
li mettevano tranquilli a tirare 
i carri del latte a Sedro-Wooley.
Facevamo tre viaggi a stagione
e ce la passavamo abbastanza bene 
nonostante la depressione post-bellica.
Stanotte,
trent’anni dopo, esco dalla 
capanna abbandonata dai 
minatori di Mono Pass, sotto
la luna piena e poche grandi stelle.
I declivi sono pezzati di neve.
L’aria di mezzanotte è pervasa
dalla luce lunare. Dice Dante:
Parev’a me che nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé l’etterna margarita
ne ricevette, com’acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
In questo posto, quindici anni fa,
scrissi Verso una filosofia 
organica. È ancora tutto uguale,
e è minima la differenza 
da quel primo passo montano 
che attraversai in quei tempi
tanto lontani con pezzati, zebrati, 
roani scuri e color daino, 
appaloosa maculati, i robusti 
pony selvaggi i cui progenitori 
arrivarono con Coronado. 
Non ci sono campane di cavalli, 
stasera, solo il verso delle rane 
nei prati fradici di neve, il latrato 
stridulo e isolato della volpe 
di montagna, fra le rocce alte
dove le pecore selvatiche si muovono 
in silenzio nella luce cristallina 
della luna. Gli stessi sentimenti
che tornano. Di nuovo 
tutta la meraviglia di un ragazzo 
delle praterie, là dove 
le lanterne si muovono in un buio 
rassicurante, lungo un recinto,
in un campo, a casa; tutta l’emozione
della gioventù improvvisamente
arrivata dalle strade piane 
e geometriche di Chicago nelle 
sterminate e disumane distese 
del Far West, dove la mente ritrova
le forme cercate da Pitagora, 
le relazioni organiche tra pietra, 
nube e fiore, tra il movimento 
del pianeta e l’acqua che cade. 
Marthe e Mary dormono nei sacchi 
a pelo, bozzoli di reciproco amore. 
Ho trascorso all’ovest metà della vita, 
e molta di essa per terra vicino
ai fuochi solitari sotto le stelle 
estive e nei capanni, con la neve 
che s’ammassava tra i pini e sul tetto. 
Qui non farò più il campo come spesso 
facevo prima. I miei trent’anni  
non tornerano più. «Il nostro bivacco 
muore tra le montagne solitarie. 
La luce trasparente della luna 
si stende per migliaia di miglia. 
La purezza della pace non ha fine». 
Gli intensi occhi azzurri di mia figlia 
dormono all’ombra della luna. 
La prossima settimana fa un anno.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

venerdì 23 novembre 2012

Salvatore Ritrovato


IL GIARDINO PERDUTO

Oggi, mi accoglie un giardino senza pergolato
e nuvole si addensano sulle vette, calcinate,
infiammano l’autunno che alligna in villette senza memoria
come pigra ansia di vita che il tiepido asfalto circonda.
Mi metto a sedere dove un animale sembra che voglia
calpestare, fino a ridurlo in poltiglia, il fango
scivolato dalla lurida grondaia dell’ultima casa.
Una pioggia fine piove da un immoto stagno
che occhieggia nella sera in una piazza di foglie
in esilio tra radure assiepate, ricomposte,
e tutta per se stessa è la terra, con se stessa,
lingua di creta su cui nulla che perduri o muoia
(non un filo d’erba né il vento che soffia e trita
da una grotta, nel bosco, la sua polvere)
riconosce in quella soglia l’eterno.

L’infanzia devi riempirla di gioia se non vuoi fuggire
e riempirla, mi dico, in quest’aria primaverile
che spira fra le corolle e a miliardi instilla
cristalli e grani di rugiada, nello stesso istante
disperde nuove gemme, esplode in germogli
da per tutto, trasformando la lava in vapore
in rifugio la meta, dolcemente e leggera
come una lanterna di sabbia e silicio
appende l’odore della neve ad ali notturne.


Da Come chi non torna, Raffaelli Editore, 2008

mercoledì 21 novembre 2012

Italo Benedetti


LA ROCCA

O rocca espugnata, orto ingiallito
dalla siccità, vento senza più spazio,
marina gremita di barchette
senza più i dorsi lividi delle balene
su cui breve sosta ebbero gli uccelli.

La giovinezza ha carbonizzato il tuo viso
ha stampato su te le altrui cicatrici.

La rivolta che volevi non è venuta
e più non verrà: gli alti castelli
han chiuso i portoni, prosciugato l’acqua.
Dell’infernale paradiso hai atroce olimpo.

Eccoti a trent’anni idiota cittadino!

Da I giorni d’oro, Remo Croce Editore, 1984

lunedì 19 novembre 2012

Mario Quesada


DOVE SEI ORA AMICO DELLE NOTTI

Dove sei ora amico delle notti,
mio dolce Patroclo inventato dall’infanzia
trasposto nella vita dal gran libro
dei sogni.

Chiudo la casa, il diario, quel piccolo
armadio segreto. T’ho preparato una tomba
negli anni di massimo splendore della mia
e della tua – inalterabile – giovinezza.

Davvero, senza saperlo. Gustando questa
solitudine scelta per destino.

Da Poesia verso..., CCRS BNL, 1982

venerdì 16 novembre 2012

John Keats


PERCHÉ HO RISO STANOTTE? NESSUNA VOCE

Perché ho riso stanotte? Nessuna voce – 
di demone o dio che severo risponda –  
da inferi o cieli di rispondere si degna. 
Così al mio cuore d’uomo mi rivolgo: 
siamo qui, soli e tristi, cuore. Ho riso, 
dico, e perché? O mortale pena! Buio, buio! 
Sempre a gemere, invano interrogando 
cielo, inferno e cuore! Perché ho riso?
Di quest’essere so la scadenza – a estremi 
di gioia fantasia la prolunga; ma vorrei
stanotte che fosse alla fine, e i vessilli 
sgargianti del mondo vedere a brandelli. 
Poesia, fama e bellezza – sono intense; 
ma più intensa è la morte, premio della vita. 

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Poetical Works, edited by H. W. Garrod, Oxford University Press, 1972.

mercoledì 14 novembre 2012

Giorgio Bàrberi Squarotti


L’OCCHIALAIO DI AMSTERDAM

– Potrebbe questi occhiali, oggi (mostrando
le lenti rotte, una lunga crepa nel cristallo
come la linea folle di una mano
o i rami di un arido albero d’autunno
nei riflessi d’aria e acqua del canale).
Il vecchio aveva un berretto nero sui capelli
bianchi, disordinati, un lungo naso adunco,
le mani delicate, lievemente
curvo sul tavolino pieno di fogli mezzo scritti.
– Il  signore (disse sorridendo)
dovrebbe andare altrove, in questa
città ci sono molti ottici più bravi
di me, e hanno lenti perfette con le quali
si può vedere ciò che c’è davvero:
queste case borghesi, brune,
le anatre sulle acque appena mosse
dal vento, le nuvole che sono solo nuvole e non fumi
d’averno o angeli in fitto volo verso il Sud,
bionde le ragazze in bicicletta:
io ho lenti mal riuscite, che deformano
le figure e anche i cieli, creano strisce
di vario colore, cubi, linee nere
lunghe fino all’orizzonte e ancora oltre,
volti quadrati e cerchi che non hanno
centro, e il fondo anche dei canali sporchi
dove dorme il pesce di Giona nel buio
sotto le banchine, ed ecco il visitatore frettoloso
nel mattino, si toglie il cappello, guarda intorno,
calcola i danni che il ladro della notte ha provocato,
le tazze sparse a terra, ancora un poco
macchiato il corpo della signora nuda sopra il letto,
le tracce del caffè sopra il tappeto,
il libro lasciato aperto: ma se non crede che
dalla nebbia leggera possa uscire
il carro d’Elia invece della chiatta
carica di cemento e di mattoni,
se non le interessa il dio che io qui aggiusto
meglio che gli occhiali certamente,
oggi i raggi di luce, ieri forse il tuono
o il fuoco o anche la memoria e la mano
troppo debole ormai perché possa
scrivere nuovamente qualche vecchia
parola sulle tavole di carta:
è di là, respira appena, un soffio lieve
più di quello dell’acqua che lo spirito
percorre, segnando con il sangue le porte brune e bianche,
altre come dimenticando per la fretta,
forse non è neppure visibile del tutto,
ma se con queste lenti (frugò in un cassetto,
sempre più impaziente, fra tintinnii di vetri,
limpidi urti di metalli, nell’odore
di antico legno, e anche la bottega ne era piena
come una barca venuta di lontano;
poi scosse il capo): vada da un’altra parte
(disse), di là, oltre la piazza,
oltre la sinagoga, dove sono
i negozi moderni, illuminati
fin negli angoli in cui non c’è mai stata
la polvere che qui è sopra ogni cosa,
scesa dai cieli mentre si sfacevano
a uno a uno, dai libri scritti in lingue incomprensibili
o non più scritti ormai, il lavoro dei tarli e del silenzio
o dell’umido vento di qui: io non aggiusto più
nulla, certo non questi occhiali, forse
non c’è più nulla da aggiustare
davvero, le nuvole enormi di tempesta
sono solo nei quadri dove non
lasciano più cadere pioggia e gelo e inondazione
sulle pianure grige, gli alberi spezzati
hanno ancora fronde verdi, né la strada è
interrotta, le navi non affondano anche se sono
orizzontali sopra le acque nere,
tutto è immobile e sereno nelle grandi
cornici d’oro, sì, ha la barba, è un poco
stanco, dipinge, la domenica, su tele
molto consunte, un po’ piangendo a tratti,
sempre lo stesso paesaggio di canali
di prati d’ombre, e anche qualche autoritratto
un po’ infedele, anche se aveva 
fin dal principio vietato che si facessero figure 
e false immagini di sé.

Amsterdam, 21 novembre 1981

da Visioni e altro, Piovan Editore, 1983

lunedì 12 novembre 2012

Gianfranco Palmery


EXIT

1

Un malato pensa il suo male – è il suo
pensiero, il suo peso, la passione
pratica del suo apparecchiare
la morte: non prega, non lavora
per la gloria del cielo o della poesia:
macera e filtra dalla sua malattia
una fine – in saliva parole
veleni: tutto è pari sulla via
del palato – precario impasto che non dà
gioia o luce – niente bellezza, le sue pene,
perdute

2

Anche se resta il corpo, un altro anno
o dieci, la dicitura è EXIT: fuori,
uscita, via – è EX, il vuoto pieno
dell’ex – EX  OMNIBUS – la vita che dura
nel futile ogniggiorno, come nei funerali
un fremere di necessità intorno
al morto – ex per eccellenza – excellens – e ora
neanche più ex – presto incellato: il vero
personaggio cui si addice l’exit – giunto al
silenzio, smascherato, mentre cade
a pezzi


Da Medusa, Il Labirinto, 2001

venerdì 9 novembre 2012

Kenneth Rexroth


INVERSAMENTE, COME IL QUADRATO DELLE DISTANZE TRA LORO                                                                                                     

                                                                                                                                         
Impossibile vedere qualcosa in questo buio;
ma so che questo sono io, Rexroth,
immerso nella notte su un pianeta ghiacciato.
Un caldo inquieto occupa quest’oscurità
vegetale in cui cervi invisibili brucano tranquilli.
Cielo caldo e opprimente, neanche gli alberi
alti sulla mia testa si riesce a distinguere.
Ma sono conifere, lo so, e le loro pigne
resistono chiuse sui rami crescendo 
confitte nel legno, aspettando che il fuoco
le schiuda e risemini la foresta bruciata.
Io sono in attesa, solitario, sulle montagne,
nella foresta, nelle tenebre, e il mondo
scende rapidamente nell’ellisse regolare.




Così calda è la notte e così calma.
Le stelle sono velate e il fiume – 
orribile e indistinto sotto le lucciole – 
s’ode a fatica, con un sordo suono 
profondo, quasi impercettibile.               
Vedo appena i tuoi occhi, le labbra
umide. Invisibile, solenne, profumata,
la tua carne s’apre a me in segreto.
Noi non sapremo mai altro mistero.
Dopo tanti anni niente è così strano. 
Come una sola cosa ma sdoppiata
ci conosciamo; muovendo i nostri arti, 
abili strumenti dello stesso desiderio, 
siamo misteri l’un l’altro abbracciati.  




Ai margini del bosco alla luce della luna 
lasciammo cadere i vestiti stando nudi, 
sospesi, macchiati d’ombra, racchiusi 
l’uno nell’altra e insieme 
nella notte. Non udimmo il caprimulgo 
né i pioppi stormire; se il gufo 
in silenzio prese il volo o gridò forte, 
noi non lo sappiamo. Non potemmo 
udire altro che il cuore, né vedere 
le tenebre frementi, o la luce, 
stelle fisse o cadenti, o stelle già 
cadute. E se caddero tutte noi non 
lo sapemmo. Noi stessi eravamo 
cadenti meteoriti, tenebrosi nella fredda
oscurità l’uno contro l’altra, compatti, 
sfavillanti nell’aria entro la terra.




Sono solo in un letto estraneo 
in una casa straniera e un mattino
più crudele d’una mezzanotte
versa luce attraverso la finestra –
rami di ciliegio con fiori
appassiti e dietro quelli dorate
maestose fronde d’acero,
più dietro immenso e puro 
il cielo d’aprile e una bianca nube lacera 
e dietro tutto questo in ogni cosa
l’inevitabile e vuota
distanza della solitudine.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003 

mercoledì 7 novembre 2012

Herman Melville


LA TEMPESTA IMMINENTE

Per il quadro di S. R. Gifford, di proprietà di E. B., 
esposto alla Mostra Nazionale nell’aprile 1865


Ogni cuore che ha vita vibrerà per lui
che visse nelle sue fibre questo quadro. Oscuro
presagio, oscuri indizi dalla sfera d’ombre
lo inchiodarono, trascinato in quel paesaggio.
Una nube demonica come una montagna bruciava
in un cuore mite, come questo lago rinchiuso a urna,
dimora delle ombre, nient’altro
che un pensoso figlio di Shakespeare.
E mai le linee separavano nettamente, immerse
nel mito, nel destino.
L’Amleto del suo cuore sapeva che tali cuori vedono
oltre; nessuna sorpresa coglierà chi giunge
nel nucleo segreto di Shakespeare: quello
che cerchiamo e fuggiamo è lì,
l’estrema conoscenza umana.

Traduzione di Roberto Mussapi

Da Poesie di guerra e di mare, Oscar Mondadori, 1984

lunedì 5 novembre 2012

Lucianna Argentino


LEI SAPEVA DEL SILENZIO CHE SAREBBE VENUTO POI

Lei sapeva del silenzio che sarebbe venuto poi
per questo gli chiedeva “abbassa la voce”
pensava che se le parole si fossero fatte
simili al silenzio la loro assenza sarebbe stata
più lieve come un bisbigliare oltre una porta chiusa
o come qualcuno che senti muoversi nella stanza accanto.

“Cambia tono” diceva a lei lui che non capiva,
e confuso rallentava il passo, cercava un riparo
da quell’estate improvvisa, dall’assalto dell’inatteso.
Ma fu in quella luce stinta che cominciò a sentire
che le cose a volte implodono, senza implorare altro,
e tornano in se stesse e stanno affini al silenzio.
Così cedette e abbassò la voce tanto che tacque.


Da Diario inverso, Manni, 2006

venerdì 2 novembre 2012

John Keats







SCRITTO CON DISGUSTO DELLA VOLGARE SUPERSTIZIONE

Campane di chiesa con cupi rintocchi
richiamano la gente a altre preghiere, 
a nuove tristezze, a spaventosi assilli, 
ascoltando il terribile suono del sermone.
Qualche oscuro incanto costringe 
la mente a strapparsi dalle gioie del focolare,
dalle arie lidie, dai nobili discorsi 
sulla gloria e chi ne fu incoronato. 
Rintoccano ancora, rintoccano. Il gelo
sentirei, come da un umido sepolcro, 
se non sapessi che si vanno spegnendo
come lampade, con un ultimo soffio
e un lamento verso l’oblio; che fiori 
nuovi nascono e segni immortali di gloria.

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Poetical Works, edited by H. W. Garrod, Oxford University Press, 1972.