da I LIBRI DI PROCULO
MEDITA SULLA LIBERTÀ
Ma poi l’assurda libertà, gli spazi
finti che al volo si offrono
indagatore di abissi, i cieli
sfregiati e i fondali inquieti
diventano questo piacere ottuso
di un pasto di rifiuti,
un festoso sciamare a questi
campi d’abbondanza dove il fetore
è l’aria stessa, immobile, la notte
esala lucori di metano e il giorno
ti rivela senza volo, stordito e sazio,
riconoscente e nauseato.
DISSERTA FRA SÉ E SÉ SUL FUTURO DELLA POESIA
«Ma avremo Storia a sufficienza
per rimediare alla stoltezza,
o in chiostri ombrosi vagheremo
come druidi di antichi riti,
paghi di balbettare alle fontane
e miti sopravvivere alla spada?
Se il fuoco che ci colse sarà estinto,
l’umano combustibile bruciato,
il gesto quotidiano e antico
che logora la penna e la coscienza
avrà lo stesso avuto una ragione?
Ammireranno i nostri calchi
reclinati nel sonno della cenere...»
Così pensava Proculo, crucciato,
davanti ad un boccale di falerno.
RECRIMINA SULLA STORIA
No, non avremo storia a sufficienza,
la pelle rugosa della pietra
rannicchiata sotto la tempesta
o la fredda ostinazione vegetale
che serba il pino nell’inverno
sotto il carico del gelo;
e i giorni caleranno come figli
degeneri da lungi a governarci.
Al giusto guasto della Storia
i piedi strascichino il corpo;
la fronte china al suolo,
il culto umiliato di dèi terribili.
Sarà soltanto Carne ciò che vive
e carne ciò che soltanto muore;
conscia degli aliti possenti
che sventrano le vele dell’Egeo.
Da “Punto – Almanacco della Poesia italiana”, 4 – 2014, Puntoacapo, 2014
venerdì 28 novembre 2014
mercoledì 26 novembre 2014
Mauro Ferrari
da I LIBRI DI PROCULO
PROCULO MEDITA SULLA STORIA
Nell’acqua fino alla cintola
controcorrente mirava gli acquitrini
livellati da una marea pietosa,
quando il suo sguardo si incagliò in un’ansa
da cui dedusse fanfo e canneti
splendida vita da carpe.
(Più innanzi, passata la pianura,
l’acqua tornava a rivoltare
bianca e impetuosa i ciottoli,
precipitando quindi
da una rupe di cinabro.)
È ASSALITO DALLE FURIE
Appollaiato su una cengia, ammirando
il volo planato dei gabbiani
senza sforzo esplodere nel controluce
e riapparire sopra il mare
per un istante ha immaginato
rostri che gli estirpano le viscere
e ai polsi catene eterne
(per quale colpa, fra le tante?);
solo un istante, che perdura un altro istante
quando, le palme sulle palpebre,
ritrova i rostri sulla retina, ed ali,
finché l’abbaglio torna compiacente,
il fuoco sferza la coscienza
e il vento spazza via le scorie.
Si stende madido, cullato
dall’urlo quasi umano degli scogli.
Da “Punto – Almanacco della Poesia italiana”, 4 – 2014, Puntoacapo, 2014
PROCULO MEDITA SULLA STORIA
Nell’acqua fino alla cintola
controcorrente mirava gli acquitrini
livellati da una marea pietosa,
quando il suo sguardo si incagliò in un’ansa
da cui dedusse fanfo e canneti
splendida vita da carpe.
(Più innanzi, passata la pianura,
l’acqua tornava a rivoltare
bianca e impetuosa i ciottoli,
precipitando quindi
da una rupe di cinabro.)
È ASSALITO DALLE FURIE
Appollaiato su una cengia, ammirando
il volo planato dei gabbiani
senza sforzo esplodere nel controluce
e riapparire sopra il mare
per un istante ha immaginato
rostri che gli estirpano le viscere
e ai polsi catene eterne
(per quale colpa, fra le tante?);
solo un istante, che perdura un altro istante
quando, le palme sulle palpebre,
ritrova i rostri sulla retina, ed ali,
finché l’abbaglio torna compiacente,
il fuoco sferza la coscienza
e il vento spazza via le scorie.
Si stende madido, cullato
dall’urlo quasi umano degli scogli.
Da “Punto – Almanacco della Poesia italiana”, 4 – 2014, Puntoacapo, 2014
lunedì 24 novembre 2014
Mauro Ferrari
IL GABBIANO INEBRIATO
Il gabbiano inebriato
che ci volteggiava attorno
si è posato a pochi metri dalla riva
nell’acqua fredda del lago, scura:
se gli osservi l’occhio
riconosci lo sguardo soddisfatto
e l’ebete domanda dell’iride
stupita dalle montagne tutt’intorno,
quando la sua ragione monca
è tersi orizzonti che attendeva,
scirocchi e presagi d’Africa.
Il gabbiano inebriato
che ci volteggiava attorno
si è posato a pochi metri dalla riva
nell’acqua fredda del lago, scura:
se gli osservi l’occhio
riconosci lo sguardo soddisfatto
e l’ebete domanda dell’iride
stupita dalle montagne tutt’intorno,
quando la sua ragione monca
è tersi orizzonti che attendeva,
scirocchi e presagi d’Africa.
Da “Punto – Almanacco della Poesia italiana”, 4 – 2014, Puntoacapo, 2014
venerdì 21 novembre 2014
Domenico Vuoto
FOSSE IN TE, MIA GATTA
Fosse in te l’indolenza andrebbe elevata a virtù cardinale,
somma virtù dell’esistenza – la sua pigra cadenza – e il moto
a eccezione, a stretta necessità – cibarsi, sfuggire all’ipotetico
predatore, cacciare o finger di farlo, mia fantasiosa cacciatrice.
Fosse in te, il cielo, la celeste volta non andrebbe mai oscurata
da satelliti aerei missili e altre amenità. Tu la vorresti levigata
nella sua purezza – libera – tutt’al più segnata qua e là da tenui
arabeschi -- uno scarabocchio d’ombra, una screziatura di luce.
Fosse in te, Nina, l’intero universo andrebbe conformato ai tuoi
bisogni – un pascolo di delizie, carne pesce a volontà e un
[corredo
di tenerissima erba. E la terra un cuscino o un seguito di giacigli
dove attraverso un incessante sonno passare da un sogno
[all’altro.
La vorresti silenziosa, la terra – non certo muta – ma il silenzio
non è di questo mondo, non è facoltà degli umani condannati
a perpetuarsi nel rumore – dannati. Ti ci vorrebbe, mia gatta,
un pianeta tuo, appartato – un silente giardino di
[contemplazioni.
Se fosse in te… il se non esisterebbe né il detto e il non detto,
l’interpunzione, il discorso diretto e indiretto, il monologo
il sintagma, il fonema – la parola non esisterebbe. Forse ma qui
è a te che mi affido – al tuo giudizio – non esisterei neppure io
(inedita)
Fosse in te l’indolenza andrebbe elevata a virtù cardinale,
somma virtù dell’esistenza – la sua pigra cadenza – e il moto
a eccezione, a stretta necessità – cibarsi, sfuggire all’ipotetico
predatore, cacciare o finger di farlo, mia fantasiosa cacciatrice.
Fosse in te, il cielo, la celeste volta non andrebbe mai oscurata
da satelliti aerei missili e altre amenità. Tu la vorresti levigata
nella sua purezza – libera – tutt’al più segnata qua e là da tenui
arabeschi -- uno scarabocchio d’ombra, una screziatura di luce.
Fosse in te, Nina, l’intero universo andrebbe conformato ai tuoi
bisogni – un pascolo di delizie, carne pesce a volontà e un
[corredo
di tenerissima erba. E la terra un cuscino o un seguito di giacigli
dove attraverso un incessante sonno passare da un sogno
[all’altro.
La vorresti silenziosa, la terra – non certo muta – ma il silenzio
non è di questo mondo, non è facoltà degli umani condannati
a perpetuarsi nel rumore – dannati. Ti ci vorrebbe, mia gatta,
un pianeta tuo, appartato – un silente giardino di
[contemplazioni.
Se fosse in te… il se non esisterebbe né il detto e il non detto,
l’interpunzione, il discorso diretto e indiretto, il monologo
il sintagma, il fonema – la parola non esisterebbe. Forse ma qui
è a te che mi affido – al tuo giudizio – non esisterei neppure io
(inedita)
mercoledì 19 novembre 2014
Elio Filippo Accrocca
IL CORSO
I
La ragazza che liscia
i capelli e poi sguiscia
tra la folla del corso,
ha rimorso di ritardare all’ora
d’appuntamento... Poi s’indora, pare
pentirsi, quando sfiora
una vetrina: odora
con gli occhi, vi s’infila, va a servirsi.
II
Questa città si sente
fluire tra la gente
che non ha più pensieri:
di ieri già dimentica, di oggi
non sazia. Se ti volgi, già la senti
dispersa sopra i poggi,
ai lidi già la scorgi
(in “1100” è un volo) lieta, immersa.
da Roma così... per il Duemila, Istituto Nazionale di Studi Romani, 2000
I
La ragazza che liscia
i capelli e poi sguiscia
tra la folla del corso,
ha rimorso di ritardare all’ora
d’appuntamento... Poi s’indora, pare
pentirsi, quando sfiora
una vetrina: odora
con gli occhi, vi s’infila, va a servirsi.
II
Questa città si sente
fluire tra la gente
che non ha più pensieri:
di ieri già dimentica, di oggi
non sazia. Se ti volgi, già la senti
dispersa sopra i poggi,
ai lidi già la scorgi
(in “1100” è un volo) lieta, immersa.
da Roma così... per il Duemila, Istituto Nazionale di Studi Romani, 2000
lunedì 17 novembre 2014
Fernando de Villena
EPITAFFIO
Non turbi la mia tomba il rauco vento
né la pioggia d’inverni successivi.
Per posare quegli iris sensitivi
invano cercherai il mio monumento.
Non voglio nella terra insediamento
e neanche nella pace degli ulivi
né stare accanto ad un mondo di vivi
quando finirà il senso di che sento.
Una celeste e tiepida sera estiva
le ceneri darai al mare latino
e sopra le sue onde prontamente
dissolte andranno in Grecia, Italia e Libia,
cercheranno un palazzo submarino
o troveranno quiete più ad oriente.
Traduzione di F. D.
Non turbi la mia tomba il rauco vento
né la pioggia d’inverni successivi.
Per posare quegli iris sensitivi
invano cercherai il mio monumento.
Non voglio nella terra insediamento
e neanche nella pace degli ulivi
né stare accanto ad un mondo di vivi
quando finirà il senso di che sento.
Una celeste e tiepida sera estiva
le ceneri darai al mare latino
e sopra le sue onde prontamente
dissolte andranno in Grecia, Italia e Libia,
cercheranno un palazzo submarino
o troveranno quiete più ad oriente.
Traduzione di F. D.
venerdì 14 novembre 2014
William Shakespeare
SONETTO LXXVI
Perché di novità il mio verso è spoglio
e ignora variazioni o cambiamenti?
Perché non guardo, seguendo la moda,
a trovate del momento e a forme strane?
Perché scrivo di un unico soggetto
e vesto l’invenzione col mio solito stile
così che ogni parola il mio nome rivela
e mostra con l’origine la propria inclinazione?
Sappilo, amore dolce, che sempre di te scrivo
che tu e l’amore siete il solo tema;
il mio meglio è vestire vecchie parole a nuovo,
quanto già spesi rispendere ancora.
Come ogni giorno invecchia il nuovo sole,
ridice amore le stesse parole.
Perché di novità il mio verso è spoglio
e ignora variazioni o cambiamenti?
Perché non guardo, seguendo la moda,
a trovate del momento e a forme strane?
Perché scrivo di un unico soggetto
e vesto l’invenzione col mio solito stile
così che ogni parola il mio nome rivela
e mostra con l’origine la propria inclinazione?
Sappilo, amore dolce, che sempre di te scrivo
che tu e l’amore siete il solo tema;
il mio meglio è vestire vecchie parole a nuovo,
quanto già spesi rispendere ancora.
Come ogni giorno invecchia il nuovo sole,
ridice amore le stesse parole.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da William Shakespeare - Ladro gentile, di prossima pubblicazione per Edizioni Il Labirinto
mercoledì 12 novembre 2014
Osip Mandel’štam
O CIELO, CIELO, TU MI APPARIRAI IN SOGNO
O cielo, cielo, tu mi apparirai in sogno!
Non può essere che abbagli del tutto
e il giorno bruci, come una pagina bianca:
solo un po’ di fumo e un po’ di cenere!
Traduzione di Gianfranco Lauretano
da La pietra, il Saggiatore, 2014
O cielo, cielo, tu mi apparirai in sogno!
Non può essere che abbagli del tutto
e il giorno bruci, come una pagina bianca:
solo un po’ di fumo e un po’ di cenere!
Traduzione di Gianfranco Lauretano
da La pietra, il Saggiatore, 2014
lunedì 10 novembre 2014
Gerard Manley Hopkins
AL SUO OROLOGIO
Mortale mio compagno, che del mio cuore in tumulto
il caldo battito col freddo battito accompagni, di noi
per primo a chi mancheranno le forze e giacerà
rovina, saccheggiato, un tempo un mondo d’arte?
Scandire il tempo è il nostro compito: una parte,
non tutto, poiché per mancare e morire fummo fatti –
un turno, e quello bene. In questo, ah solo questo
è il canto che tutto conforta o la pena più acuta.
Volato sui campi, il giorno andato più nessun mattino
reca con sé, dicendo ‘Era tuo’, ma uno nuovo, peggiore,
fino all’ultimo, il più breve…
Traduzione di Francesco Dalessandro
da I sonetti terribili, Edizioni Il Labirinto, 2003
Mortale mio compagno, che del mio cuore in tumulto
il caldo battito col freddo battito accompagni, di noi
per primo a chi mancheranno le forze e giacerà
rovina, saccheggiato, un tempo un mondo d’arte?
Scandire il tempo è il nostro compito: una parte,
non tutto, poiché per mancare e morire fummo fatti –
un turno, e quello bene. In questo, ah solo questo
è il canto che tutto conforta o la pena più acuta.
Volato sui campi, il giorno andato più nessun mattino
reca con sé, dicendo ‘Era tuo’, ma uno nuovo, peggiore,
fino all’ultimo, il più breve…
Traduzione di Francesco Dalessandro
da I sonetti terribili, Edizioni Il Labirinto, 2003
venerdì 7 novembre 2014
Sauro Albisani
COME LE FOGLIE, GIÀ DICEVA OMERO
a Gianfranco Palmery
Come le foglie, già diceva Omero,
proprio come le foglie siamo noi;
lo ripeteva nella Grande Guerra,
nella trincea della speranza, un fante,
con disperata allegria, si sta.
Ma non vediamo il picciòlo, e una brezza
ora calda ora gelida accarezza
la nostra bocca che non sa che dire.
Quell’alito ci fa rabbrividire:
oscilliamo, oscilliamo, si resiste
appesi all’invisibile, sospesi
al semaforo rosso, sull’ignoto;
seduti, muti, chiusi in una stanza,
o forse. O forse in bilico sul vuoto.
Da Orografie, Passigli, 2014
a Gianfranco Palmery
Come le foglie, già diceva Omero,
proprio come le foglie siamo noi;
lo ripeteva nella Grande Guerra,
nella trincea della speranza, un fante,
con disperata allegria, si sta.
Ma non vediamo il picciòlo, e una brezza
ora calda ora gelida accarezza
la nostra bocca che non sa che dire.
Quell’alito ci fa rabbrividire:
oscilliamo, oscilliamo, si resiste
appesi all’invisibile, sospesi
al semaforo rosso, sull’ignoto;
seduti, muti, chiusi in una stanza,
o forse. O forse in bilico sul vuoto.
Da Orografie, Passigli, 2014
mercoledì 5 novembre 2014
Mario Santagostini
CODA
E come sarà il primo gabbiano
in volo sulle discariche?
Forse, una creatura
ignobile, e attratta dal pattume.
Ma disposta a tutto,
pur di raspare qualcosa.
L’amatissimo Ovidio vedeva i gabbiani
dai becchi ferrati.
Eppure, rimanevano in aria.
Da Felicità senza soggetto, Mondadori, 2014
E come sarà il primo gabbiano
in volo sulle discariche?
Forse, una creatura
ignobile, e attratta dal pattume.
Ma disposta a tutto,
pur di raspare qualcosa.
L’amatissimo Ovidio vedeva i gabbiani
dai becchi ferrati.
Eppure, rimanevano in aria.
Da Felicità senza soggetto, Mondadori, 2014
lunedì 3 novembre 2014
Philippe Jaccottet
PORTOVENERE
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questo «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Traduzione di Fabio Pusterla
da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi, 1992
Di nuovo cupo il mare. Tu capisci,
è l’ultima notte. Ma chi chiamo? A nessuno
parlo, all’infuori dell’eco, a nessuno.
Dove strapiomba la roccia il mare è nero, e rimbomba
in una campana di pioggia. Un pipistrello
urta come stupito sbarre d’aria,
e tutti questi giorni sono persi, lacerati
dalle sue ali nere, a questa gloria
d’acque fedeli resto indifferente,
se ancora non parlo né a te né a niente. Svaniscano
questo «bei giorni»! Parto, invecchio, che importa,
il mare dietro a chi va sbatte la porta.
Traduzione di Fabio Pusterla
da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi, 1992
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