A CHI POSSO MIA MADRE ASSOMIGLIARE
A chi posso mia madre assomigliare?
certo, mio caro Saba,
a un albero, a un
infaticabile albero. viva,
viene spesso a trovarmi
in sogno, così alta
irrequieta d’uccelli: la chioma
ampia e folta, i capelli
stretti a cercine.
A furia
di dispensare amore, mia madre
si è trasformata in olmo. mi ricordo
un duro inverno, noi bambini
le mani sulla brace. «l’olmo
sa tutto, sa fare tutto», stormì lei.
«Fa le travi, cesti morbidi
e capaci, fa gli armadi
e i pavimenti». Al suo passo
si allungano i viali, divampa un fuoco
mai visto nei camini.
da Dove Goethe seminò violette, Il Labirinto, 2015 (*)
(*) Il libro si presenta oggi alle ore 18,30 alla Libreria Arion, Palazzo delle Esposizioni, via Milano 15/17, Roma
venerdì 29 maggio 2015
mercoledì 27 maggio 2015
Dorothy Parker
DA UNA LETTERA DI LESBIA
Grazie agli Dei, Catullo è andato via!
Lascia che, cara, un consiglio ti dia:
scegliti per amante un qualsiasi essere umano
salvo un poeta. È un tipo troppo strano.
Un bacio od un litigio per lui è la stessa cosa –
purché possa cantarlo la musa sua armoniosa.
O inneggia, o geme, eterno dilettante;
quanto a me, preferisco un commerciante.
Elogiai ciò che scrisse del mio passero morto
(tetri, tediosi versi, tutto tranne che belli)
credere gli lasciai d’aver sofferto...
Idiota! Io non ho mai sopportato gli uccelli!
Traduzione di Silvio Raffo
Da Tanto vale vivere, La Tartaruga edizioni, 2002
Grazie agli Dei, Catullo è andato via!
Lascia che, cara, un consiglio ti dia:
scegliti per amante un qualsiasi essere umano
salvo un poeta. È un tipo troppo strano.
Un bacio od un litigio per lui è la stessa cosa –
purché possa cantarlo la musa sua armoniosa.
O inneggia, o geme, eterno dilettante;
quanto a me, preferisco un commerciante.
Elogiai ciò che scrisse del mio passero morto
(tetri, tediosi versi, tutto tranne che belli)
credere gli lasciai d’aver sofferto...
Idiota! Io non ho mai sopportato gli uccelli!
Traduzione di Silvio Raffo
Da Tanto vale vivere, La Tartaruga edizioni, 2002
lunedì 25 maggio 2015
Eloy Sánchez Rosillo
PAROLE D'AMORE
Le parole d’amore pronunciate
da tante labbra, adesso dove sono?
Sorsero sempre come sorgono oggi
vive e avventate, misteriose braci
del cuore dalle quali nasce il fuoco
più bello e più potente. Erano e sono
eterne, però muoiono ogni istante,
quando le spegne il tempo nel presente
triste di chi le disse luminose.
Che succede con loro? Quale enigma
fonda il loro fulgore inestinguibile?
Quale legge le dìssipa e disperde?
Traduzione di Francesco Dalessandro
da Oír la luz, Tusquets Editores, 2008
Le parole d’amore pronunciate
da tante labbra, adesso dove sono?
Sorsero sempre come sorgono oggi
vive e avventate, misteriose braci
del cuore dalle quali nasce il fuoco
più bello e più potente. Erano e sono
eterne, però muoiono ogni istante,
quando le spegne il tempo nel presente
triste di chi le disse luminose.
Che succede con loro? Quale enigma
fonda il loro fulgore inestinguibile?
Quale legge le dìssipa e disperde?
Traduzione di Francesco Dalessandro
da Oír la luz, Tusquets Editores, 2008
venerdì 22 maggio 2015
Onofrio Lopez
L’ERBA DEL FORTE
I
L’erba è rasata ad arte nell’angolo
più alto del Forte, riserva comoda
di reminiscenze sotto un cielo qualsiasi:
i toni, i volti, i gesti nello scambio
delle parti, tra le pietre inamovibili
che coprono tutti i versanti. Fuori dai varchi
il rumorìo indifferenziato che sale.
II
Nell’opera fatta per altri assedi, le feritoie
si prestano, inattuali, a scorci elusivi;
pullulano parole d’ordine senza eco;
in tempo reale si archiviano – anonime –
impressioni diffuse come immortali;
si catturano, percorrendo camminamenti
obbligati, prospettive già fissate da altri.
III
L’inquietudine è l’unica sentinella
ammessa a vigilare sull’esattezza
della data del sopralluogo; perché,
segnata la scadenza, non rimanga vaga
la traccia del mio transito, nel frastuono
di armi immaginarie, d’insegne ibride,
di drappelli di figuranti improvvisati.
IV
Supino, immagino foto per album
in dissolvenza, depurati dai residui d’apologia
di qualche rimpianto. L’esercizio non ha
testimoni; per la mia rubrica solo un appunto:
“Quando trovarsi sull’erba diventava
preludio di amori non ci mancava nemmeno
l’euforia inappagata di Majakovskij”.
V
Giù – se è l’ora – seguo gli alberi di gelso
lungo le mura salvate, fino al limite urbano dove
non è applicabile il programma di calcolo
delle occasioni perdute, accumulate
nel tempo. Tutto è sradicato, contemporaneo:
la casualità forma l’opinione; le voci e le figure
di una rassegna passeranno come merce scaduta.
Marzo 2015
(inedita)
mercoledì 20 maggio 2015
Emily Dickinson
VA’ DA LUI, LETTERA BEATA!
Va’ da lui, lettera beata!
Digli – della pagina che non ho scritto,
digli – che ho messo solo la sintassi
e lasciato fuori verbo e pronome –
digli solo che le dita correvano –
poi – avanzavano – piano – piano –
e che desideravi occhi nelle tue pagine –
per vedere chi le frenava.
Digli – che era uno scrittore inesperto –
e della sua fatica con le parole:
che avvertivi il corsetto ansimare
senza forza come un bambino.
Avevi pietà del suo affanno
e non osasti indagare:
per non far soccombere il cuore
e lasciare me e te – mute.
La notte era finita prima di noi,
il vecchio orologio nitriva “giorno”!
Tu eri così assonnata –
ma lo imploravi che concludesse.
Chi gli impedì di parlare?
Digli solo che ti sigillò con cura –
ma dove ti nascose fino al giorno dopo?
lettera beata, fai la ritrosa –
e scrolla la testa.
Traduzione di Nadia Campana
da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982
Va’ da lui, lettera beata!
Digli – della pagina che non ho scritto,
digli – che ho messo solo la sintassi
e lasciato fuori verbo e pronome –
digli solo che le dita correvano –
poi – avanzavano – piano – piano –
e che desideravi occhi nelle tue pagine –
per vedere chi le frenava.
Digli – che era uno scrittore inesperto –
e della sua fatica con le parole:
che avvertivi il corsetto ansimare
senza forza come un bambino.
Avevi pietà del suo affanno
e non osasti indagare:
per non far soccombere il cuore
e lasciare me e te – mute.
La notte era finita prima di noi,
il vecchio orologio nitriva “giorno”!
Tu eri così assonnata –
ma lo imploravi che concludesse.
Chi gli impedì di parlare?
Digli solo che ti sigillò con cura –
ma dove ti nascose fino al giorno dopo?
lettera beata, fai la ritrosa –
e scrolla la testa.
Traduzione di Nadia Campana
da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982
lunedì 18 maggio 2015
Mauro Ferrari
NOTIZIE DA ITACA
Dicono sia sempre stato qui, fingendo
anche a se stesso assedi senza fine,
mostri e ritorni; forse persino isole beate,
lussurie di fanciulle e dee;
per non avere ricordanze,
non temer rimpianti – qui,
nascosto in una piega della Storia
mentre Penelope s’imputtaniva,
Telemaco impazziva lentamente
e il cane stesso, Argo l’amato,
lo dimenticava; a impolverarsi
con gli anni, ad osservare
il male che riempiva gli otri
finché non fosse colma la misura,
sempre più atroci vendette
meditando con accidia calcolata.
E un giorno dicono riapparve
culla soglia brandendo l’arco e
fallendo la prova delle scuri;
uscendo di scena fra i lazzi dei servi,
dei proci, di Penelope e Telemaco
bofonchiando di versi immortali a venire.
Dicono sia sempre stato qui, fingendo
anche a se stesso assedi senza fine,
mostri e ritorni; forse persino isole beate,
lussurie di fanciulle e dee;
per non avere ricordanze,
non temer rimpianti – qui,
nascosto in una piega della Storia
mentre Penelope s’imputtaniva,
Telemaco impazziva lentamente
e il cane stesso, Argo l’amato,
lo dimenticava; a impolverarsi
con gli anni, ad osservare
il male che riempiva gli otri
finché non fosse colma la misura,
sempre più atroci vendette
meditando con accidia calcolata.
E un giorno dicono riapparve
culla soglia brandendo l’arco e
fallendo la prova delle scuri;
uscendo di scena fra i lazzi dei servi,
dei proci, di Penelope e Telemaco
bofonchiando di versi immortali a venire.
Da Il bene della vista, Joker, 2006
venerdì 15 maggio 2015
Francesco Dalessandro
IN LOCO QUI DICITUR (III)
*
Primo quarto
di luna
Le celle di Sant’Anna
sono spente da poco
nel cortile s’azzuffano
gatti innamorati
Odore di salvia mi giunge
dagli anfratti la ronda
fa il suo giro misuro
nei passi l’ampiezza delle mura
ma il conto non torna
mai
Misura d’assenza
è la ronda che torna
*
Ancora si dissangua un fioco lume
alla finestra
alta dove possibile presenza
mi ferirà lo sguardo
Le tenebre hanno mani
sapienti di carezze
occhi che non conoscono
gli abbagli dell’insonnia,
ma la vana lusinga d’un lume
che stenta a morire mi lacera
*
Solissima sera ad un canto
addestra di passeri spirali
lentissime si svitano: altro giorno
vira incontro all’insonnia
*
Di ronda e senza quiete:
in ostinati giri
ispeziono le mura
e m’esploro
Sarà la prima notte
o l’ultima?
*
In loco qui dicitur Santa Maria delle Cascinelle
dalla Rocca dei Guardiani il dì 16 d’ottobre 1137
Ruggero Laspro miles a madonna Ginevra Duronio spediva
la seguente missiva in ultimo scritta e sigillata:
« Non per capriccio considero giunta l’ora quieta
della sera e mi decido a salutarti…
Dalle tenebre tendo le braccia indolenzite
dalla morte che il vino recherà come un’ebbrezza
valuto il tempo scandersi in minuti e proseguire
in ore disuguali
Vita cara è quel minimo dolore
che dà un graffio o un’emicrania – sai bene
o che avverti nello sguardo smarrito
di chi dopo amaro risveglio rammemora un sogno
infelice e ben strano
Qui non vale né il merito né il torto
oltre il vano consumarsi in spirali che s’avvitano
quasi voli di passeri in giri
cui natura costringe né vecchi né nuovi
e presenza fu questa di Ruggero l’aspro
(qui rimetto al suo posto l’apostrofo soppresso)
poiché tardi e inatteso avvenne l’averti
Il tuo amore fu la schiarita che abbacina
un attimo solo l’occasione che mancammo
ma in ultimo che vale saperlo?
Addio! non c’è tristezza nel mio farmi
ombra senza peso
in limite a una notte che s’annuncia
senza sogni
Alle tue labbra affido un benevolo ricordo
poiché ti conobbi e tu mi conoscesti... »
(inediti)
mercoledì 13 maggio 2015
Francesco Dalessandro
IN LOCO QUI DICITUR (II)
Canto di dame
Nel frivolo ballo di corte
stagione si dipana del frenetico stordirsi
età è questa d’amore del furtivo
corteggiamento, musica l’allieta
Sguardi che si cercano mani
che infine si trovano carezze
e tentazioni insidiano
la nostra timidezza: un mite inverno
ci prodiga attenzioni
Dai cortili di gatti innamorati
il lamento ci giunge ai balconi
scie di luna allo specchio
sediamo pettinandoci i capelli
Ad incerti domani
dolce insonnia ci esercita, la guerra
dispaierà gli amanti –
ultime notti
d’amore
Stagione di guerra
verrà, i cavalieri
periranno ed i giorni
del piacevole lusso, smarriremo
in balenanti assalti in altro assedio
l’incostanza…
Per noi la vita è questa
crudele Primavera
*
Osservi i vecchi nidi dei rondoni migratori
e i nuovi nelle fessure delle mura:
bello stabile dura a cui t’affidi
per nuovi amori o incerte congetture
… ma le nuvole, le nuvole!
*
La muta inquieta a stento trattenuta
il corno gli stallieri
che sellano i cavalli i cavalieri
salutano le dame
il falconiere s’assicura il laccio:
anticipo di caccia
Mi riconosco nel ragazzo che scruta
scontroso i preparativi:
lo tentano le briglie del pezzato
che scalpita e l’arco robusto
che lo scudiero prova
teso a vuoto nel sole alto levato
*
Annotta e lumi d’occhi
s’accendono di gatti
insonne s’annuncia
anche questa nottata senza luna
Il vaso si sbecca dell’amore
in accaldati assensi
benché l’alba m’affili al suo rigore
non cessero di crederti
*
Certo questo silenzio
turbato dal richiamo della quaglia
più si fa circolare e più s’affina
Quei voluti silenzi mi richiama
chiusi nelle tue ascelle dopo abbracci
impazienti e taciute domande
a cui non c’è risposta che sia chiara
per sempre
A volte tu mi sazi altre non basti
a questa fame insonne che mi torce
le viscere…
Disperante silenzio
arduo richiamo
(inediti)
lunedì 11 maggio 2015
Francesco Dalessandro
IN LOCO QUI DICITUR (I)
Al nudo frassino che primo
cedette le foglie somiglia
la solitaria vedetta che nell’ombra della sera
argomenta queste cose
*
Dal mio posto di guardia, la Torre
dei Gufi, gelida, a nord:
avvolto nel pastrano scruto
le tenebre là dove
file di pioppi s’incantano
sul sentiero circolare della fonte
per ostinato limite all’insonnia
mi crescono incauti pensieri
più che l’inutile armatura
pesanti a sopportarsi
non si stempera ancora
questa matta nottata
nel cauto affluire dell’alba
ghiaccia d’ottobre dietro
il Castello
isolati rintocchi fra poco
romperanno il silenzio
dal convento di Sant’Anna
(Stamattina il Capitano
farà sellare il giovane sauro
per il suo giro d’ispezione)
*
A Pì-li-Coppi i lupi
s’aggirano per fame
Alta la Torre dei Gufi
resiste alla tormenta
che l’incappuccia
Di sentinella sogno
i tuoi golfi al riparo della strina:
altri forse vi trovano riparo?
Il richiamo del cambio
dalla Torre dei Merli
fende la schiarita
Sotto le mura piste
sulla neve
*
I miei passi accarezzano le scale
fino alla tua porta –
l’ancella bionda m’apre
Fischia tra le fessure
il vento – sugli alari
i ceppi nodosi s’estinguono
La mia mano s’incanta
sui bottoni del seno –
l’ancella ha spento il lume
*
Perché si consumi l’inverno
lasci la Rocca dei Guardiani
(così distante)
esposta alla bufera che la stringe
Le tue dame
ne sono liete
Poco esperto in lusinghe
sopporterò il confronto in nuovi balli
(nei saloni affrescati del Castello)
coi damerini di corte?
Le tue dame
non sono certe
(inediti)
venerdì 8 maggio 2015
Francesco Dalessandro
ELEGIA DOMESTICA E AMOROSA
Il rito lustrale della domenica
mattina rinfresca, ristora la casa:
come ala di passero lieve strofini
le superfici impolverate spazzi
i pavimenti lavi metti a posto
soprammobili e ninnoli minuzie
raccolte forse in viaggio o regalate
alle tue mani, ordine e pulizia,
raddrizzi i quadri (le piccole tele
senza valore fatte da pittori
dilettanti ma care all’abitudine
degli affetti e del tempo) le foto
dei nostri cari morti mentre il sole
cola oro fuso sui vetri già tersi
sulle foglie dei lauri sopra l’erba
che rinverdisce, il rosso di mattoni
piastrelle vasi ruggine di attrezzi
del giardino ringhiere dei balconi,
il carapace delle tartarughe
che sull’erba o il cemento in amoroso
cimento sono prese. Così passa
solerte la mattina. Dal cortile
e dal parco si mischiano le voci
acute dei bambini, le cornacchie
si chiamano dai rami. Lentamente
l’ora matura e insieme si contenta
del tuo lavoro, provvida formica
a me cara…
Più tardi nella stanza
dove riposi t’avvolge la penombra
che i rumori attutisce o allontana:
riposi mentre veglio le tue spalle
nude l’incavo bruno della schiena
e la curva del fianco che riaccende
il ricordo di estivi pomeriggi
lontani quando stanca per le lunghe
ore di sole e sciolta nella doccia
la salsedine il sale sulla pelle
nuda sul letto fresco ti lasciavi
andare abbandonandoti al ristoro
del sonno; io ti vegliavo
smanioso finché uscendo dal torpore
languido già di desiderio madido
il tuo corpo si apriva a labbra e dita,
alla lingua che il sale delle labbra
aspergeva e gustava finché onda
di tempesta saliva e nella spuma
di un implacato mare andavo a fondo
e mi scioglievo…
Sarai mia cicala,
presto, ti sveglierai nell’ora accesa
della sera festiva e alle salive
dolci delle tue labbra il desiderio
offrirà il suo vessillo; anch’io piegato
– oh piagato – il tuo oro sulla lingua
fuso assaporerò con impaziente
furia…
Ah vieni fa’ presto sali sali
e lascia che con cauto movimento
lascia che in te mi assesti che t’invada
prona nel vizio inquieto che ti reca
scialo dolce di fiocchi…
S’abbandona
tra le mie braccia la tua vita, scivoli
al mio fianco ti siedi esci dal letto,
«è tardi, è tardi» dici e sorridendo
sospiri, fuggi via.
La domenica intanto già s’avvia
a perdersi col tenero clamore
dei bambini che escono dal parco
e adulti stanchi per la prima corsa
al mare di Fregene. Era salita
la sua febbrile ansia insieme al fuoco
del sole lungo l’edera e sui rami
dei pini escludenti allo sguardo
l’orizzonte verso cupola e croce
slanciate nel celeste. Adesso scioglie
tutte le voci in un silenzio azzurro
e i suoi colori in un casto brusio
mentre la sera stende le sue ombre
sul verde del Pineto, dove trova
pace anche il falconetto; s’addormenta
dietro i lauri la nostra famigliola,
ben riparata, stanca delle lunghe
scaramucce domestiche, amorose.
Da Ore dorate, Il Labirinto, 2008
Il rito lustrale della domenica
mattina rinfresca, ristora la casa:
come ala di passero lieve strofini
le superfici impolverate spazzi
i pavimenti lavi metti a posto
soprammobili e ninnoli minuzie
raccolte forse in viaggio o regalate
alle tue mani, ordine e pulizia,
raddrizzi i quadri (le piccole tele
senza valore fatte da pittori
dilettanti ma care all’abitudine
degli affetti e del tempo) le foto
dei nostri cari morti mentre il sole
cola oro fuso sui vetri già tersi
sulle foglie dei lauri sopra l’erba
che rinverdisce, il rosso di mattoni
piastrelle vasi ruggine di attrezzi
del giardino ringhiere dei balconi,
il carapace delle tartarughe
che sull’erba o il cemento in amoroso
cimento sono prese. Così passa
solerte la mattina. Dal cortile
e dal parco si mischiano le voci
acute dei bambini, le cornacchie
si chiamano dai rami. Lentamente
l’ora matura e insieme si contenta
del tuo lavoro, provvida formica
a me cara…
Più tardi nella stanza
dove riposi t’avvolge la penombra
che i rumori attutisce o allontana:
riposi mentre veglio le tue spalle
nude l’incavo bruno della schiena
e la curva del fianco che riaccende
il ricordo di estivi pomeriggi
lontani quando stanca per le lunghe
ore di sole e sciolta nella doccia
la salsedine il sale sulla pelle
nuda sul letto fresco ti lasciavi
andare abbandonandoti al ristoro
del sonno; io ti vegliavo
smanioso finché uscendo dal torpore
languido già di desiderio madido
il tuo corpo si apriva a labbra e dita,
alla lingua che il sale delle labbra
aspergeva e gustava finché onda
di tempesta saliva e nella spuma
di un implacato mare andavo a fondo
e mi scioglievo…
Sarai mia cicala,
presto, ti sveglierai nell’ora accesa
della sera festiva e alle salive
dolci delle tue labbra il desiderio
offrirà il suo vessillo; anch’io piegato
– oh piagato – il tuo oro sulla lingua
fuso assaporerò con impaziente
furia…
Ah vieni fa’ presto sali sali
e lascia che con cauto movimento
lascia che in te mi assesti che t’invada
prona nel vizio inquieto che ti reca
scialo dolce di fiocchi…
S’abbandona
tra le mie braccia la tua vita, scivoli
al mio fianco ti siedi esci dal letto,
«è tardi, è tardi» dici e sorridendo
sospiri, fuggi via.
La domenica intanto già s’avvia
a perdersi col tenero clamore
dei bambini che escono dal parco
e adulti stanchi per la prima corsa
al mare di Fregene. Era salita
la sua febbrile ansia insieme al fuoco
del sole lungo l’edera e sui rami
dei pini escludenti allo sguardo
l’orizzonte verso cupola e croce
slanciate nel celeste. Adesso scioglie
tutte le voci in un silenzio azzurro
e i suoi colori in un casto brusio
mentre la sera stende le sue ombre
sul verde del Pineto, dove trova
pace anche il falconetto; s’addormenta
dietro i lauri la nostra famigliola,
ben riparata, stanca delle lunghe
scaramucce domestiche, amorose.
Da Ore dorate, Il Labirinto, 2008
mercoledì 6 maggio 2015
Francesco Tentori
DUE LETTERE D’ESILIO
È già autunno da te, le foglie cadono
con rumore nell’anima, disegna
già novembre vicino la sua luna
offuscata sui campi? Nell’aiuola
s’udranno ancora i grilli e vagheranno
lucciole tra i cespugli. Sono scese
le prime piogge ormai e la terra odora
di polvere e di mosto? Se cammini
lungo la via del cimitero e vedi
i luoghi noti, saluta
per me l’erba e le pietre. Ma tu ascolti
il vento, l’aria fredda che ti giunge
con la notte dai monti e scruti il cielo
invisibile. Il silenzio che odi
fa profonda anche questa sera e i suoni
vaghi che lo attraversano son nati
qui, sono la carezza che ti mando.
Sono lunghi qui i giorni, il tempo versa
solitudine e sabbia
e scorre uguale, in circolo, specchiando
un cielo sempre azzurro, che percorre
solo un canto d’uccello e che confonde
nelle sue acque l’attesa e l’assenza.
Ho nostalgia del tuo giardino. A volte,
se guardo il Renoir sulla parete
con le ombre cosi dense e quei fiori
fatti di sole, all’improvviso
s’alza il melo dell’orto alle mie spalle
e allarga i rami per tutta la stanza.
E non è piu dicembre in Albuquerque,
è estate a casa tua, sono le aiuole
delle rose odorose ancora, è il gemito
della ghiaia al mio passo, sono i tralci
già pesanti, le zucche, i pomodori,
le altre erbe. S’empie
la mia stanza
di tutti quegli odori, un’aria dolce
e libera vi soffia. E nei suoi angoli
raccoglie la malinconia le spire,
si scioglie, è un fumo ormai che s’allontana
nel bosco di Renoir.
Tu conservami
per quando torni la luce dell’alba
coi suoi rumori indistinti, trattieni
il paesaggio intimo e profondo;
fa, cara, che il tuo mondo, il tuo giardino,
con un grido di gioia mi conoscano
e mi chiamino, come nostra figlia.
Da Il segreto degli specchi, Poesie 1949-1994, Biblioteca di Ciminiera, 2005
È già autunno da te, le foglie cadono
con rumore nell’anima, disegna
già novembre vicino la sua luna
offuscata sui campi? Nell’aiuola
s’udranno ancora i grilli e vagheranno
lucciole tra i cespugli. Sono scese
le prime piogge ormai e la terra odora
di polvere e di mosto? Se cammini
lungo la via del cimitero e vedi
i luoghi noti, saluta
per me l’erba e le pietre. Ma tu ascolti
il vento, l’aria fredda che ti giunge
con la notte dai monti e scruti il cielo
invisibile. Il silenzio che odi
fa profonda anche questa sera e i suoni
vaghi che lo attraversano son nati
qui, sono la carezza che ti mando.
Sono lunghi qui i giorni, il tempo versa
solitudine e sabbia
e scorre uguale, in circolo, specchiando
un cielo sempre azzurro, che percorre
solo un canto d’uccello e che confonde
nelle sue acque l’attesa e l’assenza.
Ho nostalgia del tuo giardino. A volte,
se guardo il Renoir sulla parete
con le ombre cosi dense e quei fiori
fatti di sole, all’improvviso
s’alza il melo dell’orto alle mie spalle
e allarga i rami per tutta la stanza.
E non è piu dicembre in Albuquerque,
è estate a casa tua, sono le aiuole
delle rose odorose ancora, è il gemito
della ghiaia al mio passo, sono i tralci
già pesanti, le zucche, i pomodori,
le altre erbe. S’empie
la mia stanza
di tutti quegli odori, un’aria dolce
e libera vi soffia. E nei suoi angoli
raccoglie la malinconia le spire,
si scioglie, è un fumo ormai che s’allontana
nel bosco di Renoir.
Tu conservami
per quando torni la luce dell’alba
coi suoi rumori indistinti, trattieni
il paesaggio intimo e profondo;
fa, cara, che il tuo mondo, il tuo giardino,
con un grido di gioia mi conoscano
e mi chiamino, come nostra figlia.
Da Il segreto degli specchi, Poesie 1949-1994, Biblioteca di Ciminiera, 2005
lunedì 4 maggio 2015
Emily Dickinson
ERA UN POETA
Era un poeta. Lui
distillava sensi stupendi
da significati ordinari –
e un’essenza così immensa
da specie familiari
che morivano vicino alla porta –
ci domandiamo perché
non siamo stati noi
ad attingerla – prima –
è lui che schiude le immagini –
lui – il poeta –
che ci destina – per contrasto –
una povertà infinita –
A una ricchezza così inconscia –
non può nuocere il furto:
lui stesso è la sua fortuna –
estranea al tempo.
Traduzione di Nadia Campana
da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982
Era un poeta. Lui
distillava sensi stupendi
da significati ordinari –
e un’essenza così immensa
da specie familiari
che morivano vicino alla porta –
ci domandiamo perché
non siamo stati noi
ad attingerla – prima –
è lui che schiude le immagini –
lui – il poeta –
che ci destina – per contrasto –
una povertà infinita –
A una ricchezza così inconscia –
non può nuocere il furto:
lui stesso è la sua fortuna –
estranea al tempo.
Traduzione di Nadia Campana
da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982
venerdì 1 maggio 2015
Folgóre da San Gimignano
DI MAGGIO
Di maggio sí vi do molti cavagli,
e tutti quanti sieno affrenatori,
portanti tutti, dritti corritori;
pettorali e testiere di sonagli,
bandiere e coverte a molti intagli
e di zendadi di tutti colori;
le targe a modo delli armeggiatori;
vïuole e rose e fior, ch’ogn’uom v’abbagli;
e rompere e fiaccar bigordi e lance,
e piover da finestre e da balconi
in giú ghirlande ed in su melerance;
e pulzellette e giovani garzoni
baciarsi nella bocca e nelle guance;
d’amor e di goder vi si ragioni.
Di maggio sí vi do molti cavagli,
e tutti quanti sieno affrenatori,
portanti tutti, dritti corritori;
pettorali e testiere di sonagli,
bandiere e coverte a molti intagli
e di zendadi di tutti colori;
le targe a modo delli armeggiatori;
vïuole e rose e fior, ch’ogn’uom v’abbagli;
e rompere e fiaccar bigordi e lance,
e piover da finestre e da balconi
in giú ghirlande ed in su melerance;
e pulzellette e giovani garzoni
baciarsi nella bocca e nelle guance;
d’amor e di goder vi si ragioni.
Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007
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