lunedì 30 settembre 2019

Cinzia Monti (per Rodolfo Di Biasio)

Eccezionalmente – dunque a conferma di una regola – oggi pubblichiamo uno scritto critico di Cinzia Monti su “Mute voci mute” (Ghenomena Edizioni, Formia 2017) di Rodolfo Di Biasio, e, a seguire, la prima poesia della terza parte del libro. L'avverbio però si riferisce soprattutto al breve capolavoro che ha ispirato le parole di Cinzia Monti, perché è raro, oggi, leggere poeti come Rodolfo Di Biasio, poeti di così lucido pensiero, di così fervido impegno e di così alta maestria. Chiunque ama la Poesia dovrà procurarsi il libro: leggerlo non potrà che preludere alla conoscenza di tutta l'opera di questo grande, appartato poeta. 

Da parte nostra, mercoledì vi offriremo in lettura un suo inedito dal titolo “Poemetto dell’attraversamento”.



La minerale essenzialità di Rodolfo Di Biasio


Nel 1999 Rodolfo Di Biasio pubblicava “Altre contingenze” (Marina di Minturno, Caramanica Editore), un’ampia autoantologia utile a ricostruire la genesi e gli sviluppi di una poesia che aveva comportato «da un lato, la memoria del passato e la testimonianza del presente, dall’altro (in realtà rifuse in un unico discorso) le riflessioni che accompagnavano quegli eventi, ma fino poi a distaccarsene nella pronuncia di una vera e propria filosofia dell’esistere» (Giuliano Manacorda in “Letteratura nella storia”, Palermo, Sciascia, 1989). Recupero del passato, attuato attraverso la rievocazione della realtà contadina degli anni giovanili e consapevolezza di essere immerso in una temperie storica che esige una presa di posizione contro i mali del presente, costituiscono, adesso, la sostanza di questo nuovo libro per il quale la scelta del poemetto, attuata già a partire da “Le sorti tentate” (Manduria, Lacaita, 1977), è indicativa della coerenza e della fedeltà a se stesso dell’Autore propenso, anche qui, a privilegiare, sul singolo testo, una materia poematica sostenuta da compattezza e unitarietà. Impeccabile nella sua sobria veste editoriale, il libro cattura il lettore fin dalla copertina: sul bianco dello sfondo spiccano, racchiusi in una nitida geometria, dei ciottoli marini nei quali non è difficile scorgere un’allusione alle “levigate parole”, ai versi limati con instancabile lavoro dal poeta e alla loro minerale essenzialità. Ad immettere nel cuore del libro è la frase posta in esergo: «a peste, fame et bello libera nos, Domine!». Si tratta di un’invocazione a Dio, formulata in età medievale, perché allontani dall’umanità questi terribili flagelli. È la persistenza, nel mondo odierno, di queste calamità, ad onta dell’enorme progresso e dell’alto grado di civiltà raggiunti quasi ovunque, a motivare la sua “laica dolente meditazione su questo dolore” (Nota dell’Autore), inteso non più come cifra esistenziale, come malum mundi connaturato ab aeterno alla nostra condizione di uomini, ma come prodotto della Storia che è spesso violenza, sopruso, inganno. Di detti mali Di Biasio ha fatto esperienza personale, a cominciare dalla guerra che insanguinò la natìa Ventosa lasciando dietro di sé rovine morali e materiali e ferite mai più rimarginate. Se è vero, come è vero, che Di Biasio è convinto della necessità di una “permanenza” della poesia nell’esperienza prima individuale e poi collettiva, corale dell’umanità (“La poesia scrive riscrive la sua storia”), non desta meraviglia il fatto che la prima sezione del poemetto si apra con i versi già consegnati a “Le sorti tentate”, libro, questo, davvero generazionale perché storia di una generazione «che pare (e forse è) la più disperata e tradita, di quelli che hanno giocato tra le macerie delle bombe e ora si ritrovano senza passato né presente» (Salvatore Mignano in “Messaggero Veneto”, 5 giugno 1979). Se tuttavia mettiamo a confronto questa prima strofe con quella contenuta in “Le sorti tentate”, ci avvediamo che essa è più breve, essendo stati eleminati i due versi conclusivi. Siamo dunque di fronte ad un recupero tutt’altro che meccanico: esso prevede, infatti, tagli e ricuciture secondo criteri dettati da una sapiente ars combinatoria. Ed ecco dunque che ai versi “antichi” fanno seguito i “nuovi” che con i precedenti si fondono in un discorso coeso e coerente grazie anche all’unità del tono, del ritmo, dello stile sempre orchestrato su una misura di classica derivazione. In essi ritorna il motivo dell’infanzia negata, deprivata di ciò che le spetta di diritto: «i suoi giochi le voci / Ecco, esse mi mancarono, / ilari o rissose». È di quel «lieto romore» che il poeta si porta dentro un’infinita nostalgia, come pure indelebile è il ricordo, qui ancora da “Le sorti tentate”, di morti «che soldati portavano a dorso di mulo / a macerare nella scarpata / per salvarli dal graffio dei corvi / dai cani che non avevano più casa». Gli anni seguiti al Secondo Conflitto Mondiale hanno segnato per l’Europa un lungo periodo di pace che ha consentito la rinascita e la ripresa economica degli Stati che vi furono coinvolti; lo stesso non è accaduto in altri luoghi del Pianeta dove è in atto quella che Papa Francesco ha definito «la Terza Guerra Mondiale a pezzi» e che ha finito con l’esportare, qui da noi, un terrorismo cieco e brutale.
 A buon diritto, allora, il poeta può dire: «Il suo vento la sua furia ancora / s’accanisce a farmi tristi / nei giorni, nei miei giorni tutti, / le cose belle della vita…» giorni « lacerati / dal suo luttuoso gong / che ha battuto batte / lastrica di morti / il fiume della storia». Tutti questi morti chiedono ascolto, fanno appello alle nostre coscienze ormai anestetizzate, assuefatti come siamo a qualunque orribile spettacolo ci venga offerto dai media. Di qui la nostra incapacità a trasformare «una sterile pietà» in «misericordia» e «amore persistente». E allora il pensiero va ai figli e ai figli dei figli: è con loro, e per loro, che il poeta camminante Rodolfo Di Biasio si augura di toccare, un giorno, «l’approdo che ci preservi / l’oasi di quiete albe / di sicuri tramonti» e che sia il loro respiro «dalla stanza accanto» a cullare unosmemoratosonno.
«Vengo da un tempo / in cui non ebbi / la mia porzione di carne e di latte». Con questi versi si apre la seconda sezione del poemetto incentrata sul dramma della fame. Sono anch’essi un prestito da “Le sorti tentate”: in entrambi i casi esprimono la personale condizione di estrema deprivazione vissuta dal poeta bambino a causa della guerra. Tuttavia qui c’è qualcosa in più: c’è il gesto misericordioso di un soldato tedesco che porge al bimbo “implorante” «il tozzo di un nero pane». Se è vero che esiste una memoria dei sapori, quello del pane tedesco gli è rimasto dentro: «Mi ha nutrito / mi ha insegnato la pietà». Non si tratta, si badi, di un astratto, generico sentimento di pietà, semmai essa ha stretti contatti con quello cristiano della caritas perché ha per oggetto le moltitudini di diseredati che, ad ogni latitudine, muoiono ogni giorno per fame. Non stupisce dunque il fatto che tutta la seconda strofe sia percorsa da una forte vena polemica che chiama in causa le enormi responsabilità dei paesi ricchi nei confronti di quelli poveri; è il momento più engagé dell’intero poemetto, quello di maggiore pregnanza etica e politica rivolto com’è all’odierna società dell’opulenza e dello spreco, incapace di fissare «il luogo / dov’è la fame dei tanti». E di fronte al fenomeno delle emigrazioni di massa, diretta conseguenza di conflitti e di povertà, c’è la lucida constatazione che sono in atto cambiamenti epocali contro cui è inutile «sceglierci sentieri privati / innalzare recinti». Tra la guerra e la fame, dunque, vi è un tragico legame di conseguenzialità che viene a saldare in un unicum logico-espressivo le prime due parti del poemetto; ugualmente fusa con il resto è pure la terza parte, laddove la peste designa metaforicamente “l’avvelenamento del pianeta di cui siamo tutti untori” (Nota dell’Autore).
Il lettore di Di Biasio non ignora l’acuta sensibilità del poeta nei confronti della natura tutta: descritta quasi sempre nella stagione della fioritura, essa è stata metafora di una felicità perduta e di un’adolescenza che «ebbe sapore di nidi e di piante». Già rievocato in quel lungo viaggio reale-memoriale che sono “I ritorni” (Roma, Stilb, 1986), viaggio che è insieme memoria di un passato fatto dei miti arcaici dell’acqua, dell’erba, della terra e insieme ritorno alle origini “radici e vettori”, l’ambiente naturale viene nel nuovo libro recuperato in chiave dialettica: a questo odierno, deprivato dalla bellezza e minacciato di distruzione per mano dell’uomo, Di Biasio contrappone quello di un tempo, non ancora contaminato da «plastiche» e da «ferrosa polvere». «Raccontare, questo solo posso raccontare, / di un tempo quando era dolce d’estate / bere con le mani dal fiume…»
Allora era stata «una terra perduta per disamore» a nutrire la malinconia del poeta; oggi è lo scempio di cui essa è oggetto ad alimentarne l’amarezza fino a renderla immedicabile. E tuttavia, e siamo al congedo, Di Biasio non chiude le porte alla speranza: «Un varco allora verso la luce»: è un auspicio, è un desiderio, ribadito dagli ottativi che scandiscono i versi finali: «Ci tornino fraterne / le creature del cielo e del mare / della terra / Anche il serpe o il giacinto / spontaneo o la viola di ciglio / le stesse disimparate / per insensatezze di desiderio // Ci ritorni il loro nome / dismesso sulle labbra». È in una ritrovata comunione con tutti gli esseri viventi, in un rinnovato patto di fraternità tra uomo e natura che il poeta ripone una speranza di salvezza, a condizione che si ritorni a seguire l’insegnamento dei padri («I vecchi ci dicevano / di non dissipare / acqua ed erba») e che si riscopra quella lingua “naturale” che ci permette di sottrarre le cose al loro silenzio e al poeta di trasformare le loro «mute voci» in canto.


(recensione inedita)



LA PESTE


La peste è dell'anima
vi si annida
vi scava purulenti anfratti
e apre a un tempo malcerto
Né giunge a segno
la parola salvifica
Siamo stati untori di noi stessi
Viviamo una terra
dove il vento
in un buio cielo soffia
plastiche una ferrosa polvere
e a folate intristisce pini marini

I tetti di una volta!
Sono poche ormai le case
che hanno tetti
quelli rossi di una volta
quando la pioggia vi batteva
e le rondini sbirciavano dal nido
la nenia delle gocce alla grondaia
Non c'è giorno che non ne muoia uno
e viene il cemento
che la superbia scaglia verso il cielo
con lucide pareti


                                                                                                        







venerdì 27 settembre 2019

Domenico Ludovici


ANNIVERSARIO


I

era la sera di un anniversario
felice per noi due in un tardo aprile
ancora freddo e non primaverile
guidavo in mezzo al traffico nel vario-

pinto alternarsi delle luci file
d’auto e di moto lungo la Salaria
si muovevano lente e c’era un’aria
purgatoriale ma dentro gentile

il tuo sorriso mi faceva bene
dopo due mesi senza che t’avessi
più vista ti dicevo: «se sapessi

quanto mi sei mancata! chi mi tiene
dal mangiarti di baci qui e adesso?
e tu? di’, ma per te…» «per me è lo stesso»

guardandomi «lo sai, ti voglio bene»



II

«ti ricordi? era oggi…» rispondesti:
«oh bene…» «hai mai rimpianto il tuo rifiuto?»
«è che avevo paura» sorridesti
imbarazzata «solo quello è stato

il mio rimorso ma allora ho pensato
ch’era un bene per tutti» «ora vorresti
farmi credere» dissi «che hai voluto
salvare capra e cavoli? facesti

la tua scelta non credo la più giusta
e l’ho pagata cara…» «anch’io, che credi?
in questi anni mi sono spesso chiesta

che sarebbe accaduto e se sarei
stata felice… ho rinunciato vedi
a chiedermelo ancora ma vorrei

tornare indietro – chissà? rifarei…»



III

«la stessa scelta? ma ora cosa importa?
tornare indietro non si può ma sei
ancora in tempo per…» fissavi assorta
la strada e le sue luci «dove sei?»

chiesi stringendo la tua mano «persa
nei miei ricordi…» «nostri» aggiunsi «bei
momenti o no?» ti chiesi «ero diversa
oggi ti piaccio ancora? non vorrei

che dicessi di amarmi e di volermi
ancora solo per tenere il punto
sono così cambiata!» «sei più bella

di prima» sussurrai, eravamo fermi
già sotto casa tua «lo vedi? appunto
per questo ho tanti dubbi perché quella

che vedi in me non sono io, confermi…»     



IV

«che ho voglia di baciarti di toccare
il tuo corpo di stringermelo addosso
nudo e fremente come allora, posso
farlo o vogliamo, anzi vuoi continuare

il gioco dei vorrei però non posso?
quel che è stato non conta, non ti pare
venuta l’ora di…» (m’ero commosso
la voce mi tremò tacqui) «di fare

una scelta» finisti tu la frase
«sì una scelta» anch’io dissi «forse siamo
maturi, no?» «va bene, e che facciamo?»

domandasti polemica «due case
e due famiglie due modi diversi
di amare siamo soli come pensi

perciò che cambierebbero le cose?»



V

«forse non cambierebbero ma è tardi
per avere altri scrupoli, non credi?»
e tu «hai ragione, basta coi riguardi
verso tutti…» accostandomi ti diedi

un bacio fra i capelli «è ora che guardi
un po’ a me stessa a noi…» tu continuasti
e poi «perché non sali? se ritardi
ti fa storie? che pensi?» domandasti

trepida «Manu è fuori con amici
e non torna che a cena, sali?» «credi
che potrei dirti no?» risposi aprendo

lo sportello dell’auto e sorridendo
salimmo in casa, nell’ingresso in piedi
già le mani cercavano felici      

i tesori nascosti nei vestiti



VI

eccolo il corpo amato tanto atteso
eccolo vivo nudo innamorato
eccolo bianco timido disteso
eccolo silenzioso abbandonato

eccolo il corpo bello offrirsi arreso
alle mie mani al tocco delicato
delle dita tremante eccolo acceso
di desiderio eccolo preparato

eccolo il tuo bel corpo che pudica-
mente m’invita  [...]


(inedita)



mercoledì 25 settembre 2019

Eloy Sánchez Rosillo


LE PAROLE CHE HO SCRITTO                       

Non sono mie le parole che ho scritto,
sebbene m’appartengano. Ascoltai
e poi con la mia voce a modo mio
dissi quel che sentii.
Che raro patrimonio.
Tutto sommato, sono un indigente
ricco ed un ricco povero.
E questa mia tenuta,
piccola eppure grande, a me nessuno
la contende anzi spesso
m’è assegnata l’intera proprietà.
Sono già tanti anni
che m’illudo e lavoro
per essa e che da quando
me ne occupo ho cercato
nel giusto tempo di spargere il seme
in solchi ben disposti.
E in mezzo ai campi alzai come potei
con le mie stesse mani, a poco a poco,
questa casa che vedi.
Certo non è sontuosa, però forse
puoi trovare al suo interno
qualche stanza che sia
calda e accogliente. Cerco
di migliorarla, sera dopo sera,
per come m’è possibile, aggiungendo
qualche altra stanza. È a disposizione
di tutti; anzi è di tutti.
Qui non ci sono chiavi,
le porte sono sempre spalancate.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Chiave del sogno, Contatti, 2019




lunedì 23 settembre 2019

Kenneth Rexroth


TRA ME STESSO E LA MORTE   

Alla musica di Jimmy Blanton,
Sophisticated Lady, Body and Soul
                 
Un ardore nel quale ti raccogli
in silenzio, timida e crudele,
ti consuma a volte; altre volte,
spaventata e impudica mi offri
la tua disperazione. Quasi sempre
restiamo nascosti nei rifugi
a proteggere il nostro umor nero,
fingendo che le bende
siano le nostre ferite. Ma la ruota
della fortuna qualche volta s’arresta,
l’illusione svanisce in pace
e l’orgoglio t’accende subito la carne –
diamante lucido, perla di saggezza –
e il volto, distante, assoluto,
definitivo e perfetto, come bestia.     
Meraviglia è il guardarti,
donna viva in una stanza
piena d’arida gente frenetica,                
e pensare alle tue natiche rotonde
sotto l’abito da sera di velluto
e il fantastico fuoco emanato
dal tuo sesso che brucia carne e ossa,
l’incredibile e complesso tessuto
del tuo cervello pieno di vita
sotto i capelli splendidi, raccolti.


Mi piace pensare a te nuda.
Metto il tuo corpo nudo
fra me solo e la morte.
Se entro nel mio cervello
e accendo i tuoi dolci capezzoli,
ai tendini sotto i ginocchi,
vedo lontano, innanzi a me.
Dove guardo non c’è niente,
però almeno è illuminato.

Come ti splendono le spalle
so bene, e come il tuo viso
affonda nell’estasi, e così
i tuoi occhi di sonnambula
conosco, le tue labbra di donna
crudele con se stessa.
                                        Mi piace
pensarti vestita: il tuo corpo
chiuso al mondo, autosufficiente,
la sua meravigliosa arroganza
che provoca l’invidia delle altre.
Posso ricordare ogni vestito,
più fiero ognuno d’una suora nuda.
Andando a letto, i miei occhi
si chiudono in una rete di ricordi.
La sua nube d’intimo odore
sogna al posto mio.


Traduzione di Francesco Dalessandro

venerdì 20 settembre 2019

Sulpicia

IL MIO RAGAZZO RISPARMIA, CINGHIALE

Il mio ragazzo risparmia, cinghiale
che verdi pascoli cerchi
di pianura, o l’ombra dei monti;
per assalirlo i denti aguzzi
non affilare: l’amore, sua scorta,
lo salvi e me lo renda
incolume. La dea di Delo
l’ispira: la passione per la caccia
lo porta lontano. Le selve
brucino, i cani scappino!
È folle, è folle cingere di reti
sui monti i fitti boschi
straziandosi le tenere mani!
E scendere furtivi nelle tane
delle fiere graffiandosi
le bianche gambe con le spine
dei rovi che piacere
può darti? Ma per stare
con te, Cerinto, per accompagnarti
su per i monti, io stessa porterei
le reti, cercherei
tracce del cervo, scioglierei
la catena del cane.
Luce mia, se davanti
alle reti, abbracciata
con te, potessi amarti abbandonata
alla passione, allora
allora, luce mia, sì che amerei
le selve; e se il cinghiale
s’avvicinasse ai lacci in quel momento,
senza turbare il nostro amore, illeso,
fuggirebbe. Il piacere
dell’amore per te non esista
senza di me, e tu, casto,
con mano casta tocca
la rete: è Diana che lo vuole
e chiunque tenti o insidi
quest’amore la sbranino le belve.
Ma ora lascia a tuo padre
la cura della caccia, torna,
corri veloce tra le mie braccia.

Traduzione di Francesco Dalessandro

mercoledì 18 settembre 2019

John Keats

QUANDO TEMO CHE POTREI NON ESISTERE PIÙ  

Quando temo che potrei non esistere più  
prima che la penna, il mio fertile cervello 
spigolando, in alte pile di libri, di caratteri, 
raccolga messi mature, come in colmi granai; 
quando sul volto stellato della notte  
osservo i nubilosi vasti segni di un alto 
poema e penso che potrei non aver vita 
per segnarne le ombre con la mano 
magica del caso; e quando sento che 
potrei non rivederti, mia bella creatura 
di un’ora, e non godere più l’incanto 
di un amore sconsiderato – allora sul lido 
del vasto mondo resto solo, a pensare 
finché amore e fama sprofondano nel nulla.


Traduzione di Francesco Dalessandro

lunedì 16 settembre 2019

Onofrio Lopez


ALIANTE


Aliante improprio planavo
nottambulo su superfici
domestiche e sui respiri
di ognuno a rimuginare
domani irrisori abbandoni
predetti dopo l'appena ieri
di richiami instancabili
di perfidie imberbi
di moralismi per la progenie
del resto di rabbie maestre

stato di grazia precedente
al seguito che fu
di stagioni ipnotiche ebbre
matrice di tutti i sensi
caglio di facoltà basilari
non tutte esaudibili flusso
di profumi vitali e moti
spontanei essenze assorbite
sotto il monte di cave
dove pascevano su pietre
spaccate neglette muschi
eroici da portare in pegno
a costruttori maldestri
di villaggi grezzi di carta

compagno illusorio il buio
d'estate sapeva del taglio
invadente del grano d'inverno
dei cannicci stantii di mele
e l'annua fuga delle piccole
anguille replicava all'oscurità
le scosse moleste 
sulle gambe immerse
nella corrente del borro

la rèdola erbosa dei nespoli
solitaria avventura di giorno
si popolava nel volo
prodigio di tremori infesti
sfumando infinita oltre
il cancello a me interdetto
dell'ultima chiusa.


(Luglio/Agosto 2019)


venerdì 13 settembre 2019

Georg Trakl

PRIMA DEL LEVAR DEL SOLE

Chiama gli uccelli un primo pigolio,
il bosco freme, scroscia la sorgente,
tintinna in cielo un roseo scintillìo,
pena d'amore. Il buio è evanescente...

L'alba trepida liscia con dolcezza
il giaciglio d'amor, tutto sconvolto,
cessa dei baci languidi l'ebbrezza
nel sogno gaio in dormiveglia sciolto.


Traduzione di Ervino Pocar

da Poesie, BUR, 1974

mercoledì 11 settembre 2019

Juan Ruiz


A ORA DI NOTTE

Dove vai, con chi sei a ora di notte?
Con chi ti scambi cuori e desideri?
Con chi riprendi il viaggio? Chi ti lasci

incurante alle spalle? Quale volto
abbandoni e non curi, quale affanno?
Dove sei, con chi vai a ora di notte?

(inedita)


lunedì 9 settembre 2019

Fabio Ciriachi


IL SUO LUNGO BALCONE IN CUCINA

Il suo lungo balcone di cucina
ha resistito a crisi familiari,
politiche, economiche, ha retto
con dignità il peso del declino
(salvia secca basilico malato)
ha perso i bambini del cortile
quando per diffidenza un po’ alla volta
nessuno ha più messo al mondo figli.
Anche oggi con piglio neorealista
sorregge il filo della biancheria
che un po’ gli dona sebbene nei gesti
del semplice fissare le mollette
non scorra l’ottimismo di altri tempi.
Per l’incuria dei vasi ora è un luogo
da cui si può sparire senza tracce.
Le presenze assidue di una volta
si sono trasformate in irruzioni
sempre meno frequenti. Incapace
di cogliere il non senso della gioia
stenta molto adesso a contenere
gli effetti delle umane delusioni. 

(inedita)

venerdì 6 settembre 2019

Wallace Stevens


UNA SERA QUALUNQUE A NEW HAVEN



XII  

La poesia è il grido della sua occasione,
Parte della res, non su di essa.
Il poeta detta la poesia così com’è,

Non com’era: parte del riverbero
Di una notte ventosa così com’è, quando le statue di marmo
Sono come giornali soffiati dal vento. Detta

D’intuito e a vista, così. Non c’è domani
Per lui. Il vento sarà passato,
Le statue saranno tornate a essere cose di cui.

I guizzi mobili ed immobili nella zona
Tra l’era e l’è sono foglie,
Foglie brunite su alberi d’autunno bruniti

E foglie volteggianti nelle grondaie, in tondo
E lontano, simili alla presenza del pensiero,
Simili alle presenze dei pensieri, come se,

Alla fine, nell’intera psicologia, l’io,
Il paese, il tempo, ammucchiati insieme in un pattume
Casuale, dicessero le parole del mondo sono la vita del mondo.




da Aurore d’autunno, Adelphi 2014

mercoledì 4 settembre 2019

Wallace Stevens




V

Romanzo inevitabile, scelta inevitabile
Di sogni, disillusioni come ultima illusione,
Realtà come una cosa vista dalla mente,

Non ciò che è ma ciò che percepiamo,
Uno specchio, un lago di riflessi in una stanza,
Un oceano vitreo sulla soglia,

Un paese grande sospeso nell’ombra,
Una nazione enorme felice nel suo stile,
Ogni cosa tanto irreale quanto può esserlo il reale,

Per l’occhio inesquisito. Perché chiedersi allora
Chi ha diviso il mondo, quale imprenditore?
Non l’uomo. L’io, la crisalide degli uomini,

Si divise nella libertà del giorno azzurro,
E in ramificazioni oltre il giorno. Una parte tenace
Si tenne stretta alla terra comune,

L’altra dal centro della terra al centro del cielo
In espansioni lunari della mente cercò
La maestà che poté trovare.




da Aurore d’autunno, Adelphi 2014