LE ETÀ
(omaggio a C.D.
Friedrich)
«Ospite dalla triste chioma unta
sotto
un cappello a tre punte,
vecchio
del soprassalto, Morte –
scendi
fino alle rocce dove mi scorgi prostrato –
e
sono solo uno che scruta il mare.
Prima
di tutto puoi chiedermi,
Giudice
che hai sempre l’ultima parola,
quale
mistero ha strappato all’oceano
un
uomo della mia età.
Puoi
chiedere. Ti risponderà la mia bocca
intorpidita,
col balbettìo dell’inesplicabile,
con
la desolazione dell’ancora ignorato dopo anni
di
stanco spiare, le palpebre di fuoco,
le
nebulose della nausea annidate nelle pupille
d’aquila
scrutatrice di spazi infiniti.
Un
altro straccione sconosciuto e triste come me
mi
lasciò un giorno su questa riva che imbrunisce senza posa.
Un
vessillo di dolore piantò al mio fianco, sul poggio.
M’imbarcai
senza pace né contratto.
Allora
io non sapevo cosa fosse un galeone
né
come i viaggi viziano le tenere spalle
indebolendole
con desideri inaccessibili,
con
orribili delusioni, con la sete infinita
in
mezzo alle acque...
M’imbarcai
– ti dicevo – non conoscendo il mare,
né
sapendo il mistero delle navi che tornano
–
dopo essere cresciuto con la magia del tempo
e
la lontananza – lungo orizzonti di linee
che
idealmente dividono il sole e giocano con la luna
nascondendola
e offrendola rassegnata e lontana.
Sull’alto
confine appresi
di
navi naufragate che non tornano più
alla
costa d’origine;
d’altre
che appena uscite
s’incastrano
tra le rocce di qualche scogliera.
E
al ritorno, con stupore, ho anche saputo
d’uomini
che non partono neppure, mangiati da colombe
carnivore
della costa – che io non ho mai viste –
o
rettili nottivaghi all'agguato nei loro antri
aspettando
la notte del sacrificio.
Io,
invece, triste vecchio dal bastone nodoso,
ho
avuto fortuna, se penso a quanti vagano
dispersi
sull’oceano, muoiono nei suoi gorghi
o
in burrasche di verde riflesso da onde impietose.
Io,
che ho viaggiato e sono ritornato,
che
mi sono visto crescere, le braccia irrobustirsi,
strappare
alla Natura la forza per difendermi
e
alla Saggezza creatrice il nettare per la mia intelligenza,
posso
dirmi davvero fortunato
se
penso agli uccisi.
Ebbene,
eccomi qui.
Il
panorama è lo stesso di quell’umido giorno
in
cui sentii la costa davanti alle mie gracili gambette
e
una mano premurosa m’indicava il cammino
acquietando
la mia turbata incertezza; il fru-fru della gonna
m’insegnava
a tramutare il timore in decisione.
Discosto,
preoccupato, di fronte a me anche un uomo
che
aveva allora l’età mia di adesso
mi
guardava con calma, silenzioso,
però
con espressione emozionata, scuro in volto,
ma
profondamente buono.
Tutto
alla fine si ripete.
E
c’erano barche nel vasto orizzonte
che
da qui si vede azzurro. Era il crepuscolo.
O
forse albeggiava, perché faceva freddo.
Vicina,
appena rientrata, una gran nave attirò la mia attenzione.
Allora
caddi nella piccola barca che prendeva il largo.
Per
un momento s’incagliò nei relitti rigettati
presso
la costa frastagliata; ma fu solo un momento.
Poi
cominciò un piacevole scivolare tranquillo
sulla
morbida pianura del mare.
Migliaia
di colori ferivano l’incessante ondeggiare
dei
flutti. Io non sapevo ancora niente del mio incerto futuro
né
del mio apprendistato.
Adesso,
Vecchio, tutto si ripete.
Adesso,
Vecchio, capisco e ho più paura; sul mio volto
si
rinnova quello sguardo bonario e preoccupato,
l’unica
cosa che conobbi di mio padre.
Avverto
nei muscoli freddi ridestarsi un calore premuroso
vedendo
il mio povero figlio accudito da sua madre.
E
al saperti già vicino intuisco che mi vuoi,
intuisco
che mi cerchi e non tremo per me
–
ché se morire è grave, è un naturale aggravio –,
tremo
per i miei rampolli,
perché
prossimo è il baratro e tu
ti
dimostri implacabile. L'ho imparato dal mare.
So
che non serve a niente partire per tornare.
Ma
noi uomini amiamo questo dialogo salato
lungo
tredici lustri,
il
difficile e duro lottare contro i venti.
Lingue
ardenti dai cieli sovente ci minacciano,
neri
vortici salmastri fanno fermare i polsi,
ma
al marinaio della vita è dolce
quell’umido
colloquio quotidiano col mare.
Alla
fine ama solo il poco che possiede: ciò che è.
E
se questo è penoso e appena niente,
più
triste un giorno è sporgersi sul mare, non navigare più ».
Senza
parlare, il vecchio – forse non lo ascoltava –
appoggiò
il suo bastone su una roccia
che
là si ergeva, accanto al precipizio.
Qualche
bambino a un tratto prese a correre.
Spaventati
e piangenti, tutti gli altri gli gridavano dietro.
Il
vecchio aprì le braccia. Il suo bastone risuonò tre volte.
La
roccia si spezzò, il bambino cadde.
Grave
è il morire, ma è un peso naturale.
Le
barche, sulla riva, pronte a partire,
contemplavano
un enorme bastimento che tornava.
Il
vecchio lentamente si separò dal gruppo
che
sulla costa, attonito,
posava
inconsapevole per un quadro di Caspar David Friedrich.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da "ARSENALE", numero Nove-Dieci, Anno Terzo, Gennaio-Giugno 1987