L’ESTATE
Meglio non ricordare ancora i giorni
passati come carezze crudeli
sulla tua pelle, sopra le mie mani.
Brillarono alla luce del desiderio i corpi
ed ascoltammo insieme la voce ampia del mare.
Le fragranti ferite di quel tempo persistono
come dolori antichi recenti nella carne.
Io non voglio ascoltare il linguaggio avvizzito
delle cose bruciate.
Ma è inutile negarsi, lo so. E non è possibile
rivolgersi a un presente fatto di solitudine
per cancellare il canto di un’estate,
quelle braccia, e perché si consumi in cammino
il fuoco che m’accende ancora non volendo le parole.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da Las cosas como fueron. Poesía completa, 1974-2003, Tusquets, 2004
venerdì 31 ottobre 2014
mercoledì 29 ottobre 2014
Kenneth Rexroth
DE SIGNATURA RERUM
Con la testa, le spalle e il libro
all’ombra, al fresco; col corpo
allungato in un bagno di sole,
vicino alla cascata, me ne sto
a leggere Boehme, De signatura
rerum. Per tutto il lungo giorno
di luglio, le foglie del lauro,
nelle varie sfumature dorate,
s’avvitano nella loro stessa ombra
scura in movimento. Fluttuano
per un attimo nel riflesso
del cielo e della foresta, poi ancora
vorticando lente affondano
nel cristallo profondo dello stagno
fino al suolo dorato da altre foglie.
Il santo vide scorrere il mondo
nell’elettrolisi dell’amore.
Metto da parte il libro e attraverso
l’ombra chiusa nell’ombra del lauro
snello, guardo foglie e tronchi
pieni di sole. Lo scricciolo cova
sotto la volta del suo nido di muschio.
Un tritone è alle prese con una
falena bianca che annega
nello stagno. I falchi gridano,
giocano insieme sotto la volta
celeste. Passano lunghe ore.
Ripenso a chi mi ha amato,
ai monti che ho scalato,
ai mari dove ho nuotato.
Il male del mondo sprofonda.
Il mio stesso peccato e la pena
svaniscono come il fardello
del Cristiano, e io guardo
le mie quaranta primavere
cadere come le foglie morte
e l’acqua stillante sospesa
in eterno nell’aria estiva.
—
Nel plenilunio di luglio, i cervi
scalpitano nelle radure.
C’è odore d’erba secca nell’aria,
e più debole l’odore di una puzzola
lontana. Stando ai margini del bosco
a scrutare nel buio, in ascolto
della quiete, un piccolo gufo,
con ali più silenti del mio respiro,
si posa sul ramo sopra di me.
Quando gli punto contro la luce,
i suoi occhi brillano come gocce
di ferro e lui come un gattino
curioso alza testa verso di me.
Il prato è luminoso come neve.
Il mio cane fiuta l’erba, macchia
nera in una macchia di lucentezza.
Attraverso il querceto dove
una volta c’era il campo indiano.
Là, in una ragnatela di luce
e macchie scure, confuse nella foschia
blu, ci sono venti vitelle Holstein,
bianche e nere, stese in terra
tutte insieme, quiete, sotto
enormi alberi radicati nelle tombe.
—
Quando lo tirai fuori dal fondo
dello stagno, quel ciocco fradicio
sembrava pesante come un masso.
Lo lasciai al sole per un mese.
Per farne legna da ardere,
poi, lo spaccai in tante parti,
che sparsi per farle seccare
ancora un po’. Quella notte
sul tardi, dopo aver letto per ore –
filosofi e santi sull’umano
destino –, mentre le falene
sbattevano contro la lampada,
uscii sulla veranda e attraverso
l’oscura foresta guardai in alto
isole oscillanti di stelle.
E subito vidi ai miei piedi,
disseminate sul fondo della notte,
barre di tremula fosforescenza,
e sparse tutt’intorno schegge
di luce pallida e fredda, ma viva.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
Con la testa, le spalle e il libro
all’ombra, al fresco; col corpo
allungato in un bagno di sole,
vicino alla cascata, me ne sto
a leggere Boehme, De signatura
rerum. Per tutto il lungo giorno
di luglio, le foglie del lauro,
nelle varie sfumature dorate,
s’avvitano nella loro stessa ombra
scura in movimento. Fluttuano
per un attimo nel riflesso
del cielo e della foresta, poi ancora
vorticando lente affondano
nel cristallo profondo dello stagno
fino al suolo dorato da altre foglie.
Il santo vide scorrere il mondo
nell’elettrolisi dell’amore.
Metto da parte il libro e attraverso
l’ombra chiusa nell’ombra del lauro
snello, guardo foglie e tronchi
pieni di sole. Lo scricciolo cova
sotto la volta del suo nido di muschio.
Un tritone è alle prese con una
falena bianca che annega
nello stagno. I falchi gridano,
giocano insieme sotto la volta
celeste. Passano lunghe ore.
Ripenso a chi mi ha amato,
ai monti che ho scalato,
ai mari dove ho nuotato.
Il male del mondo sprofonda.
Il mio stesso peccato e la pena
svaniscono come il fardello
del Cristiano, e io guardo
le mie quaranta primavere
cadere come le foglie morte
e l’acqua stillante sospesa
in eterno nell’aria estiva.
—
Nel plenilunio di luglio, i cervi
scalpitano nelle radure.
C’è odore d’erba secca nell’aria,
e più debole l’odore di una puzzola
lontana. Stando ai margini del bosco
a scrutare nel buio, in ascolto
della quiete, un piccolo gufo,
con ali più silenti del mio respiro,
si posa sul ramo sopra di me.
Quando gli punto contro la luce,
i suoi occhi brillano come gocce
di ferro e lui come un gattino
curioso alza testa verso di me.
Il prato è luminoso come neve.
Il mio cane fiuta l’erba, macchia
nera in una macchia di lucentezza.
Attraverso il querceto dove
una volta c’era il campo indiano.
Là, in una ragnatela di luce
e macchie scure, confuse nella foschia
blu, ci sono venti vitelle Holstein,
bianche e nere, stese in terra
tutte insieme, quiete, sotto
enormi alberi radicati nelle tombe.
—
Quando lo tirai fuori dal fondo
dello stagno, quel ciocco fradicio
sembrava pesante come un masso.
Lo lasciai al sole per un mese.
Per farne legna da ardere,
poi, lo spaccai in tante parti,
che sparsi per farle seccare
ancora un po’. Quella notte
sul tardi, dopo aver letto per ore –
filosofi e santi sull’umano
destino –, mentre le falene
sbattevano contro la lampada,
uscii sulla veranda e attraverso
l’oscura foresta guardai in alto
isole oscillanti di stelle.
E subito vidi ai miei piedi,
disseminate sul fondo della notte,
barre di tremula fosforescenza,
e sparse tutt’intorno schegge
di luce pallida e fredda, ma viva.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
lunedì 27 ottobre 2014
Francesco Dalessandro
MICROELEGIE
I
«Eccola, la tua bella, è pronta per
la festa.
Due lampi gli occhi perché vi rifulge
amore
e luminoso il volto. Neanche un dio
potrà incontrarla senza
voltarsi.
Qualunque cosa faccia con che grazia
la fa!
Libera i bei capelli e con le trecce
sciolte è bella. Li lega
e ricompone, è doppiamente bella.
Veste di rosso e infiamma
il cuore; ma se candide
semplicissime vesti indossa tutta
ne arde.
Qualunque cosa indossi è la sua grazia
a far bella la veste ed ogni cosa
su lei è bella e tutto
le si confà».
II
Finalmente l’amore!
Lo dico a tutti senza
pudore. Perché avrei
più vergogna a nasconderlo.
Se stiamo insieme parlo
a voce alta: che tutti
sappiano quanto l’amo.
La colpa è troppo dolce:
fare finta di niente
e fingermi virtuosa
come posso? Si dica
che ci amiamo e che l’uno
dell’altra siamo degni.
III
1.
Miele segreto è amore
se mi guardi o ti penso.
Quando mi baci e abbracci
è fuoco che divampa e brucia.
2.
«L’uno all’altra in eterno.
Legaci l’uno all’altra
e i lacci siano i baci
scambiati, il desiderio».
Io ti prego così davanti a tutti.
Lui in cuor suo: ha paura
che lo prendano in giro ma è sincero.
Se ti prega in privato cosa cambia?
3.
Nessun altro potrei
amare dopo te.
Anche tu nessun’altra
potresti amare, giuri.
A chi ti dice «è insania
l’amore» tu rispondi
«a un così dolce male
non c’è rimedio
né io
vorrei guarirne
finché anche lei per me
sta male».
IV
Non è qui.
La passione per la caccia
me lo tiene lontano.
Non è stupido è folle
al brivido dell’unghia sulla schiena
preferire le spine
dei rovi che gli graffiano
le gambe!
Però le reti
porterei cercherei
tracce del cervo liberando il cane
io stessa se potessi
stargli accanto.
Luce mia, se davanti
alle reti abbracciata
con te potessi amarti e abbandonarmi
alla passione allora
allora, luce mia, sì che amerei
la caccia.
V
Che vuoto compleanno
senza vederti! La campagna è triste
come me. Roma annoia. Dove sei?
VI
«Non atteso il tuo nuovo compleanno
è giunto. Un anno in più. Cos’è cambiato?
Con non indegni amici
festeggialo l’anno che finisce
se ti lascia anche un solo
ricordo d’amore.
Se no piangilo, sola. Dimenticalo presto».
(Imitazione da Sulpicia, Corpus tibullianum, III, 8, 13, 11, 9, 14, 15)
I
«Eccola, la tua bella, è pronta per
la festa.
Due lampi gli occhi perché vi rifulge
amore
e luminoso il volto. Neanche un dio
potrà incontrarla senza
voltarsi.
Qualunque cosa faccia con che grazia
la fa!
Libera i bei capelli e con le trecce
sciolte è bella. Li lega
e ricompone, è doppiamente bella.
Veste di rosso e infiamma
il cuore; ma se candide
semplicissime vesti indossa tutta
ne arde.
Qualunque cosa indossi è la sua grazia
a far bella la veste ed ogni cosa
su lei è bella e tutto
le si confà».
II
Finalmente l’amore!
Lo dico a tutti senza
pudore. Perché avrei
più vergogna a nasconderlo.
Se stiamo insieme parlo
a voce alta: che tutti
sappiano quanto l’amo.
La colpa è troppo dolce:
fare finta di niente
e fingermi virtuosa
come posso? Si dica
che ci amiamo e che l’uno
dell’altra siamo degni.
III
1.
Miele segreto è amore
se mi guardi o ti penso.
Quando mi baci e abbracci
è fuoco che divampa e brucia.
2.
«L’uno all’altra in eterno.
Legaci l’uno all’altra
e i lacci siano i baci
scambiati, il desiderio».
Io ti prego così davanti a tutti.
Lui in cuor suo: ha paura
che lo prendano in giro ma è sincero.
Se ti prega in privato cosa cambia?
3.
Nessun altro potrei
amare dopo te.
Anche tu nessun’altra
potresti amare, giuri.
A chi ti dice «è insania
l’amore» tu rispondi
«a un così dolce male
non c’è rimedio
né io
vorrei guarirne
finché anche lei per me
sta male».
IV
Non è qui.
La passione per la caccia
me lo tiene lontano.
Non è stupido è folle
al brivido dell’unghia sulla schiena
preferire le spine
dei rovi che gli graffiano
le gambe!
Però le reti
porterei cercherei
tracce del cervo liberando il cane
io stessa se potessi
stargli accanto.
Luce mia, se davanti
alle reti abbracciata
con te potessi amarti e abbandonarmi
alla passione allora
allora, luce mia, sì che amerei
la caccia.
V
Che vuoto compleanno
senza vederti! La campagna è triste
come me. Roma annoia. Dove sei?
VI
«Non atteso il tuo nuovo compleanno
è giunto. Un anno in più. Cos’è cambiato?
Con non indegni amici
festeggialo l’anno che finisce
se ti lascia anche un solo
ricordo d’amore.
Se no piangilo, sola. Dimenticalo presto».
(Imitazione da Sulpicia, Corpus tibullianum, III, 8, 13, 11, 9, 14, 15)
venerdì 24 ottobre 2014
Teh Hughes
IL FALCO NELLA PIOGGIA
Affogo nel tambureggiante campo, estraggo
un calcagno dopo l’altro dall’ingorda bocca della terra,
dal fango che mi afferra ogni passo alla caviglia
con la tenacia della fossa, ma il falco
libra in alto senza sforzo l’occhio fermo.
Le sue ali tengono il creato in una imponderabile quiete,
ferme come un’allucinazione nell’aria che scorre.
Mentre il vento percuote a morte queste ostinate siepi,
mi preme gli occhi, mi toglie il fiato, mi afferra il cuore,
e la pioggia mi incide la testa fino all’osso, il falco regge
il punto adamantino della volontà che guida come un nord
la resistenza del naufrago: ed io,
stordito, ghermito boccone di sangue che conta l’ultimo istante
nelle fauci della terra, tendo al supremo
fulcro della violenza dove posa il falco.
Che forse incontra quand’è l’ora la bufera
proveniente dalla parte sbagliata, sopporta, scagliato a testa in
[giù,
che l’aria gli cada dagli occhi, le pesanti contee gli crollino
[addosso,
l’orizzonte lo intrappoli; e, sfracellato quell’occhio tondo
d’angelo, il sangue del suo cuore si mischi alla mota.
Traduzione di Nicola Gardini
Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008
Affogo nel tambureggiante campo, estraggo
un calcagno dopo l’altro dall’ingorda bocca della terra,
dal fango che mi afferra ogni passo alla caviglia
con la tenacia della fossa, ma il falco
libra in alto senza sforzo l’occhio fermo.
Le sue ali tengono il creato in una imponderabile quiete,
ferme come un’allucinazione nell’aria che scorre.
Mentre il vento percuote a morte queste ostinate siepi,
mi preme gli occhi, mi toglie il fiato, mi afferra il cuore,
e la pioggia mi incide la testa fino all’osso, il falco regge
il punto adamantino della volontà che guida come un nord
la resistenza del naufrago: ed io,
stordito, ghermito boccone di sangue che conta l’ultimo istante
nelle fauci della terra, tendo al supremo
fulcro della violenza dove posa il falco.
Che forse incontra quand’è l’ora la bufera
proveniente dalla parte sbagliata, sopporta, scagliato a testa in
[giù,
che l’aria gli cada dagli occhi, le pesanti contee gli crollino
[addosso,
l’orizzonte lo intrappoli; e, sfracellato quell’occhio tondo
d’angelo, il sangue del suo cuore si mischi alla mota.
Traduzione di Nicola Gardini
Da Poesie, a cura di Nicola Gardini e Anna Ravano, I Meridiani, Mondadori, 2008
mercoledì 22 ottobre 2014
Teofilo Folengo (alias Merlin Cocai)
BALDOVINA CASAM REMANET SOLETTA
Baldovina casam remanet soletta, nec imbrem
acquetare potest oculorum, abeunte marito.
Pensorosa manu guanzam sustentat et ecce,
ecce repentinae sua brancant viscera doiae,
namque novo partu miseram fiolare bisognat.
Argutos meschina foras mandare cridores
cogitur, ac ne sit compresa in pectore calcat
spicula quae nondum natus tirat undique Baldus.
Tantum invita fremit, nunc ve uno saepe fianco,
nunc altro se se (visu miserabile) voltat.
Non commater adest, solitum quae porgat aiuttum,
ancillas, servasque vocat, quibus ante solebat
commandare, velut commandat filia regis,
at vocat indarnum, quia tantum gatta valebat
respondere gnao sed non donare socorsum.
Da Baldus, II, vv. 433-447
Baldovina casam remanet soletta, nec imbrem
acquetare potest oculorum, abeunte marito.
Pensorosa manu guanzam sustentat et ecce,
ecce repentinae sua brancant viscera doiae,
namque novo partu miseram fiolare bisognat.
Argutos meschina foras mandare cridores
cogitur, ac ne sit compresa in pectore calcat
spicula quae nondum natus tirat undique Baldus.
Tantum invita fremit, nunc ve uno saepe fianco,
nunc altro se se (visu miserabile) voltat.
Non commater adest, solitum quae porgat aiuttum,
ancillas, servasque vocat, quibus ante solebat
commandare, velut commandat filia regis,
at vocat indarnum, quia tantum gatta valebat
respondere gnao sed non donare socorsum.
Da Baldus, II, vv. 433-447
lunedì 20 ottobre 2014
SEGUENDO UN VERSO (ADDENDUM)
SEGUENDO UN VERSO (ADDENDUM)
Luis de Góngora
Mientras, por competir con tu cabello,
oro bruñido al Sol relumbra en vano;
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente el lilio bello;
mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
del luciente cristal tu gentil cuello;
goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fue en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente,
no sólo en plata o vïola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.
(1582)
(Versione di Ungaretti del 1932)
Finché vano emulo dei tuoi capelli,
l’oro cupo nel sole sia splendore;
finché sdegnosa la tua fronte bianca
veda fiorire i gigli alla pianura;
finché bramosi attragga più gli sguardi
il tuo labbro che il precoce garofano,
finché coll’orgogliosa sua gaiezza
vinca l’avorio, il tuo collo grazioso;
bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,
prima che ciò che fu in età dorata
giglio, oro, fuoco e cristallo lucente
non solo in viola appassisca e in argento,
ma tu più non sia tu, a fondo mutata,
e tutto non sia più, confusamente,
che terra, fumo, polvere, ombra, niente.
(Versione di Ungaretti del 1948)
Finché dei tuoi capelli emulo vano
Vada splendendo oro brunito al Sole,
Finché negletto la tua fronte bianca
In mezzo al piano ammiri il giglio bello,
Finché per coglierlo gli sguardi inseguano
Più il labbro tuo che il primulo garofano,
Finché con la sdegnosa sua allegria
Vinca l’avorio, il tuo gentile collo,
Bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,
Prima che ciò che fu in età dorata,
Oro garofano e cristallo lucido,
Non solo in una viola tronca o argento,
Ma si volga, con essi tu confusa,
In terra, fumo, polvere, niente.
I lettori abituali di questo blog ricorderanno che qualche tempo fa abbiamo seguito l’ultimo verso del perfetto e celebre sonetto del poeta barocco Luis de Góngora (1561-1627): Mientras por competir con tu cabello: un verso che porta all’estremo il vecchio tema del Carpe diem. Il 12 maggio abbiamo letto il sonetto in originale, nella traduzione di Leone Traverso e in quella più celebre di Giuseppe Ungaretti; il 14 maggio, le versioni di due traduttori più recenti, Loris Pellegrini e Giulia Poggi. Il 16 maggio abbiamo letto un’imitazione e una riscrittura. La prima, del nostro Ciro di Pers (1599-1663), successiva all’originale di alcuni decenni appena. Il verso viene posto a chiusura di uno dei sonetti che costituiscono la sequenza per Lidia, nel quale torna il tema oraziano. La seconda, della messicana Suor Juana Inés De La Cruz (1651-1695), è di un secolo dopo. Guardando un proprio ritratto per osservarvi l’ombra della morte, Suor Juana pronuncia una sentenza. «Il modello torna ad essere Góngora» commenta il poeta catalano Pere Gimferrer, «ma gli allusivi “terra” e “fumo” sono soppiantati dalla visione diretta del “cadavere”. Maturando, il Barocco diventa più violento, visionario». Infine, il 19 maggio abbiamo letto una poesia, La spiaggia, del poeta spagnolo Eloy Sánchez Rosillo nella quale il verso che stavamo seguendo, a distanza di secoli subisce una trasformazione.
Ora torniamo sul sonetto di Góngora per proporne altre due versioni di Ungaretti: la prima del 1932, che dunque precede di sedici anni quella qui pubblicata il 12 maggio, e molto diversa; la seconda, appena successiva, del 1948, è uguale a quella da noi pubblicata solo nei primi sei versi. Il resto è una revisione completa, col sigillo, appunto, dell’ultimo verso che perde una parola: ombra. «Ritocco decisivo», commenta ancora Gimferrer, «e tributo al proprio modo di dire».
Una interessantissima comparazione delle due versioni qui proposte la fa Franco Fortini da pag. 133 a pag. 143 di Lezioni sulla traduzione, Quodlibet 2011. Da esso ci siamo permessi di trarre anche altre due versioni dello stesso sonetto: l’una di Gabriele Mucchi, anch’essa del 1948, e l’altra di Cesare Greppi del 1984.
Mientras, por competir con tu cabello,
oro bruñido al Sol relumbra en vano;
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente el lilio bello;
mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
del luciente cristal tu gentil cuello;
goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fue en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente,
no sólo en plata o vïola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.
(1582)
Finché vano emulo dei tuoi capelli,
l’oro cupo nel sole sia splendore;
finché sdegnosa la tua fronte bianca
veda fiorire i gigli alla pianura;
finché bramosi attragga più gli sguardi
il tuo labbro che il precoce garofano,
finché coll’orgogliosa sua gaiezza
vinca l’avorio, il tuo collo grazioso;
bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,
prima che ciò che fu in età dorata
giglio, oro, fuoco e cristallo lucente
non solo in viola appassisca e in argento,
ma tu più non sia tu, a fondo mutata,
e tutto non sia più, confusamente,
che terra, fumo, polvere, ombra, niente.
(Versione di Ungaretti del 1948)
Finché dei tuoi capelli emulo vano
Vada splendendo oro brunito al Sole,
Finché negletto la tua fronte bianca
In mezzo al piano ammiri il giglio bello,
Finché per coglierlo gli sguardi inseguano
Più il labbro tuo che il primulo garofano,
Finché con la sdegnosa sua allegria
Vinca l’avorio, il tuo gentile collo,
Bocca ora, e chioma, collo, fronte godi,
Prima che ciò che fu in età dorata,
Oro garofano e cristallo lucido,
Non solo in una viola tronca o argento,
Ma si volga, con essi tu confusa,
In terra, fumo, polvere, niente.
venerdì 17 ottobre 2014
SEGUENDO UN VERSO (ADDENDUM)
SEGUENDO UN VERSO (ADDENDUM)
(Versione di Gabriele Mucchi)
Finché risplenda in gara col brunito
oro dei tuoi capelli il sole invano,
finché altezzosa guardi in mezzo al piano
la tua candida fronte il giglio bello;
finché il tuo labbro più che il mattutino
garofano raccolga sguardi ardenti,
finché trionfi disdegnosamente
dell’avorio polito il gentil collo;
e collo e chioma godi e labbro e fronte,
prima che ciò che fu all’età fiorita
oro, giglio, garofano ridente,
non solo in morta viola o in argento
si volga, ma tu a quello in sorte unita
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.
(1948)
(Versione di Cesare Greppi)
Finché nel gareggiar coi tuoi capelli
oro brunito splende al sole invano,
finché con sprezzo guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli
e inseguono, per coglierlo, il tuo labbro
più occhi che il garofano precoce,
finché vince sul lucido cristallo
superbamente il gentile tuo collo,
godi collo, capelli, labbra e fronte,
prima che quel che nell’età dorata
fu oro, giglio, garofano, cristallo
non solo argento e viola disfiorata
divenga, ma con esso insieme tu
terra, polvere, fumo, ombra, nulla.
(1984)
I lettori abituali di questo blog ricorderanno che qualche tempo fa abbiamo seguito l’ultimo verso del perfetto e celebre sonetto del poeta barocco Luis de Góngora (1561-1627): Mientras por competir con tu cabello: un verso che porta all’estremo il vecchio tema del Carpe diem. Il 12 maggio abbiamo letto il sonetto in originale, nella traduzione di Leone Traverso e in quella più celebre di Giuseppe Ungaretti; il 14 maggio, le versioni di due traduttori più recenti, Loris Pellegrini e Giulia Poggi. Il 16 maggio abbiamo letto un’imitazione e una riscrittura. La prima, del nostro Ciro di Pers (1599-1663), successiva all’originale di alcuni decenni appena. Il verso viene posto a chiusura di uno dei sonetti che costituiscono la sequenza per Lidia, nel quale torna il tema oraziano. La seconda, della messicana Suor Juana Inés De La Cruz (1651-1695), è di un secolo dopo. Guardando un proprio ritratto per osservarvi l’ombra della morte, Suor Juana pronuncia una sentenza. «Il modello torna ad essere Góngora» commenta il poeta catalano Pere Gimferrer, «ma gli allusivi “terra” e “fumo” sono soppiantati dalla visione diretta del “cadavere”. Maturando, il Barocco diventa più violento, visionario». Infine, il 19 maggio abbiamo letto una poesia, La spiaggia, del poeta spagnolo Eloy Sánchez Rosillo nella quale il verso che stavamo seguendo, a distanza di secoli subisce una trasformazione.
Ora torniamo sul sonetto di Góngora per proporne altre due versioni di Ungaretti: la prima del 1932, che dunque precede di sedici anni quella qui pubblicata il 12 maggio, e molto diversa; la seconda, appena successiva, del 1948, è uguale a quella da noi pubblicata solo nei primi sei versi. Il resto è una revisione completa, col sigillo, appunto, dell’ultimo verso che perde una parola: ombra. «Ritocco decisivo», commenta ancora Gimferrer, «e tributo al proprio modo di dire».
Una interessantissima comparazione delle due versioni qui proposte la fa Franco Fortini da pag. 133 a pag. 143 di Lezioni sulla traduzione, Quodlibet 2011. Da esso ci siamo permessi di trarre anche altre due versioni dello stesso sonetto: l’una di Gabriele Mucchi, del 1948, e l’altra di Cesare Greppi, del 1984. Eccole.
Luis de Góngora
Mientras, por competir con tu cabello,
oro bruñido al Sol relumbra en vano;
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente el lilio bello;
mientras a cada labio, por cogello,
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
del luciente cristal tu gentil cuello;
goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fue en tu edad dorada
oro, lilio, clavel, cristal luciente,
no sólo en plata o vïola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.
(1582)
(Versione di Gabriele Mucchi)
Finché risplenda in gara col brunito
oro dei tuoi capelli il sole invano,
finché altezzosa guardi in mezzo al piano
la tua candida fronte il giglio bello;
finché il tuo labbro più che il mattutino
garofano raccolga sguardi ardenti,
finché trionfi disdegnosamente
dell’avorio polito il gentil collo;
e collo e chioma godi e labbro e fronte,
prima che ciò che fu all’età fiorita
oro, giglio, garofano ridente,
non solo in morta viola o in argento
si volga, ma tu a quello in sorte unita
in terra, fumo, polvere, ombra, niente.
(1948)
(Versione di Cesare Greppi)
Finché nel gareggiar coi tuoi capelli
oro brunito splende al sole invano,
finché con sprezzo guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli
e inseguono, per coglierlo, il tuo labbro
più occhi che il garofano precoce,
finché vince sul lucido cristallo
superbamente il gentile tuo collo,
godi collo, capelli, labbra e fronte,
prima che quel che nell’età dorata
fu oro, giglio, garofano, cristallo
non solo argento e viola disfiorata
divenga, ma con esso insieme tu
terra, polvere, fumo, ombra, nulla.
(1984)
mercoledì 15 ottobre 2014
Gianfranco Palmery
IL DEMONIO INFELICE CHE MINACCIA
Il demonio infelice che minaccia
libri e fogli mi è figlio e
fratello, il gatto fulvo che passeggia
superbo per la mia stanza ma cerca
le mie ginocchia come calde mammelle:
fascio di nervi ardenti e vaso
di lamenti attraversa la casa, forza
tutte le porte e appena si placa nei
penetrali odorosi di camere, ascelle —
ma da solo la notte lotta nelle tenebre,
rischia con i suoi dèmoni e si slancia
fuori al mattino per un bagno
di luce, come un guerriero sfinito
o un bambino — punta uccelli che mai
prenderà; cerca il cibo, si appisola, si
spulcia: cura la sua faticosa gattità.
Da Mitologie, Il Labirinto, 1981
Il demonio infelice che minaccia
libri e fogli mi è figlio e
fratello, il gatto fulvo che passeggia
superbo per la mia stanza ma cerca
le mie ginocchia come calde mammelle:
fascio di nervi ardenti e vaso
di lamenti attraversa la casa, forza
tutte le porte e appena si placa nei
penetrali odorosi di camere, ascelle —
ma da solo la notte lotta nelle tenebre,
rischia con i suoi dèmoni e si slancia
fuori al mattino per un bagno
di luce, come un guerriero sfinito
o un bambino — punta uccelli che mai
prenderà; cerca il cibo, si appisola, si
spulcia: cura la sua faticosa gattità.
Da Mitologie, Il Labirinto, 1981
Nota. È in questa poesia che Palmery conia il bel neologismo “gattità” (poi ripreso da altri poeti), appena entrato nel dizionario Treccani. Eccone la definizione:
Gattità, s.f. - L’essenza del gatto, nelle qualità che gli vengono attribuite da sempre, come indipendenza, eleganza, misteriosità [...].
lunedì 13 ottobre 2014
Philippe Jaccottet
LE ACQUE E LE FORESTE, III
Domenica popola i boschi di bimbi che frignano,
di donne che invecchiano; un ragazzo su due sanguina
al ginocchio, e si rincasa con i fazzoletti sporchi,
si lasciano cartacce vicino allo stagno... Le grida
si allontanano con la luce. Sotto i carpini
una ragazza sistema la gonna ad ogni allarme,
ormai sfinita. Ogni dolcezza, dell’aria
o dell’amore, ha per rovescio crudeltà,
ha un prezzo ogni domenica, e le feste
macchie sui tavoli, in cui il giorno c’inquieta.
Traduzione di Fabio Pusterla
da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi, 1992
Domenica popola i boschi di bimbi che frignano,
di donne che invecchiano; un ragazzo su due sanguina
al ginocchio, e si rincasa con i fazzoletti sporchi,
si lasciano cartacce vicino allo stagno... Le grida
si allontanano con la luce. Sotto i carpini
una ragazza sistema la gonna ad ogni allarme,
ormai sfinita. Ogni dolcezza, dell’aria
o dell’amore, ha per rovescio crudeltà,
ha un prezzo ogni domenica, e le feste
macchie sui tavoli, in cui il giorno c’inquieta.
Traduzione di Fabio Pusterla
da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi, 1992
venerdì 10 ottobre 2014
Johann Wolfgang Goethe
LE POESIE
Son simili a finestre istoriate
le poesie: finestre che, guardate
dalla piazza alla chiesa, apron sui muri
una fila di buchi nudi e scuri;
e le guarda così la buona gente,
e dice poi che non ci vede niente.
Ma su, una volta alfine, penetrate
per la porta del tempio, e là, guardate!
Ecco, figure e scene, e cielo e mare,
tutto nei vetri luminoso appare.
Creature di Dio, semplici e liete,
gli occhi allegrate e l’anima pascete!
Traduzione di Benedetto Croce (?)
da: Benedetto Croce, La poesia, Adelphi, 1994
Son simili a finestre istoriate
le poesie: finestre che, guardate
dalla piazza alla chiesa, apron sui muri
una fila di buchi nudi e scuri;
e le guarda così la buona gente,
e dice poi che non ci vede niente.
Ma su, una volta alfine, penetrate
per la porta del tempio, e là, guardate!
Ecco, figure e scene, e cielo e mare,
tutto nei vetri luminoso appare.
Creature di Dio, semplici e liete,
gli occhi allegrate e l’anima pascete!
Traduzione di Benedetto Croce (?)
da: Benedetto Croce, La poesia, Adelphi, 1994
mercoledì 8 ottobre 2014
William Carlos Williams
CANZONE D’AMORE
Spazza e pulisci casa,
attacca tende fresche
di bucato alle finestre
mettiti un vestito nuovo
e vieni con me!
Da un cielo bianco
l’olmo sparge
i suoi piccoli e dolci
ciuffi profumati!
Chi sentirà parlare
di noi in futuro?
Lasciali dire che
da rami neri
esplodevano profumi.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991
Spazza e pulisci casa,
attacca tende fresche
di bucato alle finestre
mettiti un vestito nuovo
e vieni con me!
Da un cielo bianco
l’olmo sparge
i suoi piccoli e dolci
ciuffi profumati!
Chi sentirà parlare
di noi in futuro?
Lasciali dire che
da rami neri
esplodevano profumi.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da The collected poems of William Carlos Williams: 1909-1939, New Directions Publishing Corporation, 1991
lunedì 6 ottobre 2014
Stefano Guglielmin
MIO AMORE E DOGLIA E GRANO
Mio amore e doglia e grano
mia faglia fuggita di qua, dal rovo
della bocca, dalla sua mora luce
cos’altro poco resta da dire
se non di te, fiore del bene
e bianco, che cieca
e a nulla presa, come torto guasto
cadi?
Da Le volpi gridano in giardino, CFR, 2013
Mio amore e doglia e grano
mia faglia fuggita di qua, dal rovo
della bocca, dalla sua mora luce
cos’altro poco resta da dire
se non di te, fiore del bene
e bianco, che cieca
e a nulla presa, come torto guasto
cadi?
Da Le volpi gridano in giardino, CFR, 2013
venerdì 3 ottobre 2014
Roberto Friol
EMILY DICKINSON
Emily Dickinson, se fosse il vento
se fosse l’anima la casa sprangata
se fosse l’universo, il giorno
la poltrona, l’ambascia, lo sguardo
la tenerezza che fa velo agli occhi
quando si sceglie la frutta pei bimbi;
se fosse altro silenzio il balbettare versi
insondabili tanto son tremendi
e l’addio senza addio l’abito nero
e la foggia antiquata, nubile dei capelli,
la ferita celata da ottonari
e la mano nervosa fosse la poesia.
Se fosse Amherst il luogo del mistero.
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da Poesie, Alfabetica, 1991
Emily Dickinson, se fosse il vento
se fosse l’anima la casa sprangata
se fosse l’universo, il giorno
la poltrona, l’ambascia, lo sguardo
la tenerezza che fa velo agli occhi
quando si sceglie la frutta pei bimbi;
se fosse altro silenzio il balbettare versi
insondabili tanto son tremendi
e l’addio senza addio l’abito nero
e la foggia antiquata, nubile dei capelli,
la ferita celata da ottonari
e la mano nervosa fosse la poesia.
Se fosse Amherst il luogo del mistero.
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da Poesie, Alfabetica, 1991
mercoledì 1 ottobre 2014
Eliseo Diego
VASO INDIO
Questo vaso, con l’ansa
dove un animaletto sporge
il becco ansioso, fu caro alla donna
cui apparteneva. Poi il rauco
strepito straniero sperse
il mormorio della fatica
quotidiana. Ed il tempo
– il cauto, il taciturno –
con astuzia e pazienza cancellò
il vapore, l’impronta delle dita
di dolcissimo bronzo. Infine venne
di nuovo il sole, e gli occhietti
rotondi della bestiolina
guardarono ma ciechi.
Che sia stato
fin dal principio questo vuoto
a turbarla in quel modo?
Che il vasaio
abbia impastato sgomento ed argilla,
le abbia infuso il timore...
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da L’abisso e le sillabe, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1983
Questo vaso, con l’ansa
dove un animaletto sporge
il becco ansioso, fu caro alla donna
cui apparteneva. Poi il rauco
strepito straniero sperse
il mormorio della fatica
quotidiana. Ed il tempo
– il cauto, il taciturno –
con astuzia e pazienza cancellò
il vapore, l’impronta delle dita
di dolcissimo bronzo. Infine venne
di nuovo il sole, e gli occhietti
rotondi della bestiolina
guardarono ma ciechi.
Che sia stato
fin dal principio questo vuoto
a turbarla in quel modo?
Che il vasaio
abbia impastato sgomento ed argilla,
le abbia infuso il timore...
Traduzione di Francesco Tentori Montalto
da L’abisso e le sillabe, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1983
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