L’IO SENTIMENTALE
a GfP
We poets in our youth begin in gladness;
But thereof comes in the end despondency and madness.
William Wordsworth
Depressione e sconforto, i castighi
del poeta sentimentale, dalle forme
femminine del mondo hanno vita;
memoria e dolore – i suoi vizi –
dal grembo consacrato all’amore
e all’eros hanno linfa e naturale
nutrimento…
noi senza dimora
o speranza d’amore l’esecrato
cero del pentimento accenderemo
e nel fatale limbo quotidiano
sordo ai cuori adolescenti di figli
eroici dell’età sentimentale
non vorremo perire come i padri
non avendo virtù né pazienza
per l’attesa; sgomenti senza fretta
su strade dove ogni fiorita
bellezza è scomparsa (fuggita
o morta) andremo al calvario
del vano sacrificio o verso il pozzo
della perduta innocenza, caduta
già l’ultima illusione.
Nessun vanto
è nella nuova libertà se alle attese
adolescenti del mondo la poesia
non sa più dare aiuto né lume
di mistero la smarrita santità
della natura, e a noi solo dimessi
versi l’arte di un errante osservatorio,
se l’elusa (o delusa) verità che vita
e amore confonde, l’angoscia paura
e peccati purifica nel purgatorio
dei giorni nel rito serale dei ritorni
a un impegno solitario, claustrale…
(inedita)
lunedì 30 marzo 2015
venerdì 27 marzo 2015
Alessandro Ricci
LA PROVINCIA MARINA DI BISANZIO
Suìda il Tessalico compiva cinquant’
anni e fattezze neppur corrose
quando, finalmente un agosto,
imprese a lavorare nel Tempio
Nuovo di Cìpride, sulla sponda
linda del Cirro. Cómpito: il
frontone che dà sul mare,
con scene d’amore della dea
nata dall’acqua.
I non cristiani di Amisus si
commossero per l’armonia delle
forme che cosi velocemente
Suìda scolpiva: tenui corpi
fermati nella corsa, il tempo
rapido nel sasso, l’aumento
pagano del desiderio.
Ma quando Suìda dette mano ai
volti, fu cauto o s’interruppe.
Incidendo la pietra, turbato
la cancellava: «Non so ammettere
un viso meno perfetto per Cìpride
e meno amaro in Adone nel suo
punto di addio. E poi torna un
ricordo che m’ossessiona».
Così perdeva i giorni
nell’inquietudine scavando l’anima
del marmo e la sua. Infine si volse
al mare dai cavalletti e non lavorò
più.
I molti cristiani di Amisus venivano
alla riva per ridere di lui e della
fede tardiva nell’idolo, ma l’idolo
incompiuto lo feriva in cuore
atrocemente, ed egli non rispondeva.
Una sera d’autunno priva di vento e
di nuvole arrivò per mare da Amàstris
Teodoréto il Vecchissimo, apostata
per amore, e parlò a Suìda dalla
nave, perché «Era tempo che
lo facessi.
Dimentica la favola cristiana che bella
è l’anima sola. Ogni bellezza ha
un’anima, come l’hanno massi e parole
levigati o animali lisci per gioventù
e vigore.
Ricorda pure la tua muta d’Assiria
e da’ a Cìpride le sue sembianze.
Ma non temere se per declino e morte
non le rivedi. Incidi il desiderio,
sopportane la perdita o il fuoco. In
questo è l’ultima e prima forza
degli uomini che periscono.
Metti su Adone i tuoi occhi riarsi, ché
sono pure di un’epoca. E non recare altra
pietra da sovrapporre. Scava quella
che resta, plasma le facce in concavo,
come se altri dall’interno del tempio
o la radice del marmo le vedano
quali le pensi e furono.
Coraggio, Suìda. Le
figure cave, pura formula, anime cave,
resistono meglio al tempo».
Da Le segnalazioni mediante i fuochi, Piovan, 1985
Suìda il Tessalico compiva cinquant’
anni e fattezze neppur corrose
quando, finalmente un agosto,
imprese a lavorare nel Tempio
Nuovo di Cìpride, sulla sponda
linda del Cirro. Cómpito: il
frontone che dà sul mare,
con scene d’amore della dea
nata dall’acqua.
I non cristiani di Amisus si
commossero per l’armonia delle
forme che cosi velocemente
Suìda scolpiva: tenui corpi
fermati nella corsa, il tempo
rapido nel sasso, l’aumento
pagano del desiderio.
Ma quando Suìda dette mano ai
volti, fu cauto o s’interruppe.
Incidendo la pietra, turbato
la cancellava: «Non so ammettere
un viso meno perfetto per Cìpride
e meno amaro in Adone nel suo
punto di addio. E poi torna un
ricordo che m’ossessiona».
Così perdeva i giorni
nell’inquietudine scavando l’anima
del marmo e la sua. Infine si volse
al mare dai cavalletti e non lavorò
più.
I molti cristiani di Amisus venivano
alla riva per ridere di lui e della
fede tardiva nell’idolo, ma l’idolo
incompiuto lo feriva in cuore
atrocemente, ed egli non rispondeva.
Una sera d’autunno priva di vento e
di nuvole arrivò per mare da Amàstris
Teodoréto il Vecchissimo, apostata
per amore, e parlò a Suìda dalla
nave, perché «Era tempo che
lo facessi.
Dimentica la favola cristiana che bella
è l’anima sola. Ogni bellezza ha
un’anima, come l’hanno massi e parole
levigati o animali lisci per gioventù
e vigore.
Ricorda pure la tua muta d’Assiria
e da’ a Cìpride le sue sembianze.
Ma non temere se per declino e morte
non le rivedi. Incidi il desiderio,
sopportane la perdita o il fuoco. In
questo è l’ultima e prima forza
degli uomini che periscono.
Metti su Adone i tuoi occhi riarsi, ché
sono pure di un’epoca. E non recare altra
pietra da sovrapporre. Scava quella
che resta, plasma le facce in concavo,
come se altri dall’interno del tempio
o la radice del marmo le vedano
quali le pensi e furono.
Coraggio, Suìda. Le
figure cave, pura formula, anime cave,
resistono meglio al tempo».
Da Le segnalazioni mediante i fuochi, Piovan, 1985
mercoledì 25 marzo 2015
Giancarlo Pontiggia
PENSO, 5
Mentre svolto con cura tra le stanze
di un pomeriggio ritrovato per caso
con chiavi non più mie
ordino ai versi di celare
il luogo, il nome, il tempo
di coloro che l’hanno abitato, poiché
resta solo ciò che è nascosto,
che non viene nominato.
Da Origini – Poesie 1998-2010, Interlinea Edizioni, 2015
Mentre svolto con cura tra le stanze
di un pomeriggio ritrovato per caso
con chiavi non più mie
ordino ai versi di celare
il luogo, il nome, il tempo
di coloro che l’hanno abitato, poiché
resta solo ciò che è nascosto,
che non viene nominato.
Da Origini – Poesie 1998-2010, Interlinea Edizioni, 2015
lunedì 23 marzo 2015
Seamus Heaney
POESIA
a Marie
Amore, perfezionerò per te il bambino
che nel mio cervello con diligenza si trastulla
scavando con una vanga pesante e ammassando zolle
o sguazzando nel fango in un profondo canale.
Ogni anno seminavo il mio giardino lungo un metro.
Toglievo uno strato di zolle per erigere il muro
che escludesse la scrofa e la gallina becchettante.
Ogni anno, facendole entrare, le zolle cadevano.
O nella melma risucchiante diguazzavo
con gioia per arginare il flusso del canale,
ma sempre i miei spalti di argilla e poltiglia
cedevano sotto le crescenti piogge autunnali.
Amore, perfezionerai per me questo bambino
i cui piccoli limiti imperfetti cederebbero sempre:
entro nuovi limiti adesso, ordina il mondo
dentro le nostre mura, dentro il nostro anello d’oro.
Traduzione di Marco Sonzogni
da Morte di un naturalista, Mondadori, 2014
a Marie
Amore, perfezionerò per te il bambino
che nel mio cervello con diligenza si trastulla
scavando con una vanga pesante e ammassando zolle
o sguazzando nel fango in un profondo canale.
Ogni anno seminavo il mio giardino lungo un metro.
Toglievo uno strato di zolle per erigere il muro
che escludesse la scrofa e la gallina becchettante.
Ogni anno, facendole entrare, le zolle cadevano.
O nella melma risucchiante diguazzavo
con gioia per arginare il flusso del canale,
ma sempre i miei spalti di argilla e poltiglia
cedevano sotto le crescenti piogge autunnali.
Amore, perfezionerai per me questo bambino
i cui piccoli limiti imperfetti cederebbero sempre:
entro nuovi limiti adesso, ordina il mondo
dentro le nostre mura, dentro il nostro anello d’oro.
Traduzione di Marco Sonzogni
da Morte di un naturalista, Mondadori, 2014
venerdì 20 marzo 2015
Giacomo Leopardi
A SE STESSO
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
Da Canti, Einaudi, 1962
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.
Da Canti, Einaudi, 1962
mercoledì 18 marzo 2015
Emily Dickinson
NOTTI SELVAGGE
Notti selvagge – notti selvagge!
Fossi io con te
notti selvagge sarebbero
la nostra estasi.
Futili – i venti –
per un cuore in porto –
non serve la bussola
non serve la mappa.
Remare nell’Eden –
il mare!
Potessi ancorare – questa notte –
in te!
Traduzione di Nadia Campana
da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982
Notti selvagge – notti selvagge!
Fossi io con te
notti selvagge sarebbero
la nostra estasi.
Futili – i venti –
per un cuore in porto –
non serve la bussola
non serve la mappa.
Remare nell’Eden –
il mare!
Potessi ancorare – questa notte –
in te!
Traduzione di Nadia Campana
da Le stanze d’alabastro, Universale Economica Feltrinelli, 1982
lunedì 16 marzo 2015
Lorenzo da Ponte
da LE NOZZE DI FIGARO
Atto Primo, Scena Quinta
Aria di Cherubino
Non so più cosa son, cosa faccio...
or di fuoco, ora sono di ghiaccio...
ogni donna cangiar di colore,
ogni donna mi fa palpitar.
Solo ai nomi d’amor, di diletto
mi si turba, mi s’altera il petto,
e a parlare mi sforza d’amore
un desio ch’io non posso spiegar!
Parlo d’amor vegliando,
parlo d’amor sognando:
all’acque, all’ombre, ai monti,
ai fiori, all’erbe, ai fonti,
all’eco, all’aria, ai venti
che il suon de’ vani accenti
portano via con sé...
E, se non ho chi m’oda...
parlo d’amor con me!
Atto Primo, Scena Quinta
Aria di Cherubino
Non so più cosa son, cosa faccio...
or di fuoco, ora sono di ghiaccio...
ogni donna cangiar di colore,
ogni donna mi fa palpitar.
Solo ai nomi d’amor, di diletto
mi si turba, mi s’altera il petto,
e a parlare mi sforza d’amore
un desio ch’io non posso spiegar!
Parlo d’amor vegliando,
parlo d’amor sognando:
all’acque, all’ombre, ai monti,
ai fiori, all’erbe, ai fonti,
all’eco, all’aria, ai venti
che il suon de’ vani accenti
portano via con sé...
E, se non ho chi m’oda...
parlo d’amor con me!
venerdì 13 marzo 2015
Giovanni Pascoli
da SOLON, vv. 41-60
Splende al plenilunio l’orto; il melo
trema appena d’un tremolio d’argento...
Nei lontani monti color di cielo
sibila il vento.
Mugghia il vento, strepita tra le forre,
su le quercie gettasi... Il mio non sembra
che un tremore, ma è l’amore, e corre,
spossa le membra!
M’è lontano dalle ricciute chiome,
quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore,
come il sole: bello, ma bello come
sole che muore.
Dileguare! e altro non voglio: voglio
farmi chiarità che da lui si effonda.
Scoglio estremo della gran luce, scoglio
su la grande onda,
dolce è da te scendere dove è pace:
scende il sole nell’infinito mare;
trema e scende la chiarità seguace
crepuscolare.
Da Tutte le poesie, I Mammut, Newton Compton
Splende al plenilunio l’orto; il melo
trema appena d’un tremolio d’argento...
Nei lontani monti color di cielo
sibila il vento.
Mugghia il vento, strepita tra le forre,
su le quercie gettasi... Il mio non sembra
che un tremore, ma è l’amore, e corre,
spossa le membra!
M’è lontano dalle ricciute chiome,
quanto il sole; sì, ma mi giunge al cuore,
come il sole: bello, ma bello come
sole che muore.
Dileguare! e altro non voglio: voglio
farmi chiarità che da lui si effonda.
Scoglio estremo della gran luce, scoglio
su la grande onda,
dolce è da te scendere dove è pace:
scende il sole nell’infinito mare;
trema e scende la chiarità seguace
crepuscolare.
Da Tutte le poesie, I Mammut, Newton Compton
mercoledì 11 marzo 2015
Philippe Jaccottet
PAROLE NELL’ARIA
a Pierre Leyris
Così dice l’aria chiara: «Per un poco
io fui la vostra casa, poi verranno
al vostro posto altri viaggiatori, e dove andrete
voi, che amavate tanto rimanere? Certo, vedo
polvere sulla terra, ma i vostri occhi
se guardavate non mi erano estranei; e poi talvolta
cantavate, e poi basta? Se persino
a mezza voce, a chi spesso dormiva,
voi dicevate che la luce della terra
è troppo pura per non possedere un senso
che in qualche modo sfugga dalla morte,
e pensavate di avanzare in questo senso,
eppure ora tacete. Che ne è stato
di voi? E cosa penserà la vostra amica?»
*
E lei risponde tra felici lacrime:
«Si è tramutato in quell’ombra che amava».
Traduzione di Fabio Pusterla
da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi 1992
a Pierre Leyris
Così dice l’aria chiara: «Per un poco
io fui la vostra casa, poi verranno
al vostro posto altri viaggiatori, e dove andrete
voi, che amavate tanto rimanere? Certo, vedo
polvere sulla terra, ma i vostri occhi
se guardavate non mi erano estranei; e poi talvolta
cantavate, e poi basta? Se persino
a mezza voce, a chi spesso dormiva,
voi dicevate che la luce della terra
è troppo pura per non possedere un senso
che in qualche modo sfugga dalla morte,
e pensavate di avanzare in questo senso,
eppure ora tacete. Che ne è stato
di voi? E cosa penserà la vostra amica?»
*
E lei risponde tra felici lacrime:
«Si è tramutato in quell’ombra che amava».
Traduzione di Fabio Pusterla
da Il barbagianni. L’ignorante, Einaudi 1992
lunedì 9 marzo 2015
Mauro Ferrari
LE GIOVANI BAGNANTI IN FIORE
Bisbigliano al Lete le fanciulle
affanni e gioie, sciacquando panni
sotto l’occhio di un Ulisse
salvo e moribondo,
giocano i loro anni luminosi:
ma su che pietra sarà incisa
la cortesia di corpi che si danno
nella luce pura; chi scriverà
la gioia destinata al vento
commovente fra le parentesi
di un tempo numinoso
in cui gli eroi giungono ancora
da tempeste e incendi, la loro storia
un urlo da ascoltare
ancora incomprensibile, distante?
Ovunque tu piazzassi l’asse,
con qualunque cura umana la ponessi
in equilibrio, calerebbe come scure
sul sorriso a questi lieti e spensierati
grumi che si bagnano
scherzosi del futuro immemori.
Da Il bene della vista, Joker, 2006
Bisbigliano al Lete le fanciulle
affanni e gioie, sciacquando panni
sotto l’occhio di un Ulisse
salvo e moribondo,
giocano i loro anni luminosi:
ma su che pietra sarà incisa
la cortesia di corpi che si danno
nella luce pura; chi scriverà
la gioia destinata al vento
commovente fra le parentesi
di un tempo numinoso
in cui gli eroi giungono ancora
da tempeste e incendi, la loro storia
un urlo da ascoltare
ancora incomprensibile, distante?
Ovunque tu piazzassi l’asse,
con qualunque cura umana la ponessi
in equilibrio, calerebbe come scure
sul sorriso a questi lieti e spensierati
grumi che si bagnano
scherzosi del futuro immemori.
Da Il bene della vista, Joker, 2006
venerdì 6 marzo 2015
William Butler Yeats
BISANZIO
Le immagini non purificate del giorno si ritraggono;
La soldataglia ubriaca dell’Imperatore è a dormire;
La risonanza notturna recede., il canto delle passeggiatrici
[notturne
Dopo il grande gong della cattedrale;
Una cupola illuminata dalle stelle o dalla luna disdegna
Tutto ciò che l’uomo è,
Tutte le mere complessità,
La furia e il fango delle vene umane.
Dinanzi a me fluttua un’immagine, uomo o ombra,
Ombra più che uomo, più immagine che ombra;
Ché il rocchetto dell’Ade avvolto dalle fasce d'una mummia
Può svolgere all’indietro il sentiero tortuoso;
Una bocca che non ha in sé umidore o respiro
Può chiamare a raccolta bocche senza respiro;
Io saluto il sovrumano;
Lo chiamo morte-in-vita e vita-in-morte.
Miracolo, uccello, o artefatto aureo,
Più miracolo che uccello o artefatto,
Posto sul ramo d’oro illuminato dalle stelle,
Può cantare come i galli dell’Ade,
O, inasprito dalla luna, può sprezzare a alta voce
Nello splendore del metallo immutabile
Il comune petalo o uccello
E tutte le complessità di fango o sangue.
A mezzanotte sulla terrazza dell’Imperatore vagano
Fiamme che non nutre alcuna fascina, né acciaio ha acceso,
Né tempesta disturba, fiamme generate da una fiamma,
Dove spiriti generati dal sangue vanno
Ad abbandonare ogni complessità di furia,
Morendo in una danza,
Un’agonia di estasi,
Un’agonia di fiamma che non riesce neppure a strinare una
[manica.
A cavallo del fango e del sangue del delfino,
Uno spirito dietro l’altro! Le fucine frantumano il flusso,
Le auree fucine dell’Imperatore!
I marmi della terrazza ove è la danza
Frangono amare furie di complessità;
Quelle immagini che tuttavia
Nuove immagini generano,
Quel mare lacerato dai delfini, tormentato dal gong.
Traduzione di Giorgio Melchiorri
da Quaranta poesie, Einaudi, 1965
Le immagini non purificate del giorno si ritraggono;
La soldataglia ubriaca dell’Imperatore è a dormire;
La risonanza notturna recede., il canto delle passeggiatrici
[notturne
Dopo il grande gong della cattedrale;
Una cupola illuminata dalle stelle o dalla luna disdegna
Tutto ciò che l’uomo è,
Tutte le mere complessità,
La furia e il fango delle vene umane.
Dinanzi a me fluttua un’immagine, uomo o ombra,
Ombra più che uomo, più immagine che ombra;
Ché il rocchetto dell’Ade avvolto dalle fasce d'una mummia
Può svolgere all’indietro il sentiero tortuoso;
Una bocca che non ha in sé umidore o respiro
Può chiamare a raccolta bocche senza respiro;
Io saluto il sovrumano;
Lo chiamo morte-in-vita e vita-in-morte.
Miracolo, uccello, o artefatto aureo,
Più miracolo che uccello o artefatto,
Posto sul ramo d’oro illuminato dalle stelle,
Può cantare come i galli dell’Ade,
O, inasprito dalla luna, può sprezzare a alta voce
Nello splendore del metallo immutabile
Il comune petalo o uccello
E tutte le complessità di fango o sangue.
A mezzanotte sulla terrazza dell’Imperatore vagano
Fiamme che non nutre alcuna fascina, né acciaio ha acceso,
Né tempesta disturba, fiamme generate da una fiamma,
Dove spiriti generati dal sangue vanno
Ad abbandonare ogni complessità di furia,
Morendo in una danza,
Un’agonia di estasi,
Un’agonia di fiamma che non riesce neppure a strinare una
[manica.
A cavallo del fango e del sangue del delfino,
Uno spirito dietro l’altro! Le fucine frantumano il flusso,
Le auree fucine dell’Imperatore!
I marmi della terrazza ove è la danza
Frangono amare furie di complessità;
Quelle immagini che tuttavia
Nuove immagini generano,
Quel mare lacerato dai delfini, tormentato dal gong.
Traduzione di Giorgio Melchiorri
da Quaranta poesie, Einaudi, 1965
mercoledì 4 marzo 2015
Kenneth Rexroth
CINQUANTA
Cieli piovosi, montagne nebbiose.
Il vecchio anno è finito in tempesta.
Il nuovo inizia nello stesso modo.
Per tutto il giorno, dal mare aperto,
uccelli di lunghe ali si sono alzati
in volo nel cielo che li incalzava.
Mezzanotte irrompe con nuvole
in corsa e la luna che sprofonda,
rarefatti spazi di stelle senza fine.
I miei cinquant’anni, eccoli.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
Cieli piovosi, montagne nebbiose.
Il vecchio anno è finito in tempesta.
Il nuovo inizia nello stesso modo.
Per tutto il giorno, dal mare aperto,
uccelli di lunghe ali si sono alzati
in volo nel cielo che li incalzava.
Mezzanotte irrompe con nuvole
in corsa e la luna che sprofonda,
rarefatti spazi di stelle senza fine.
I miei cinquant’anni, eccoli.
Traduzione di Francesco Dalessandro
da The complete poems of Kenneth Rexroth, edited by Sam Hamill & Bradford Morrow, Copper Canyon Press, 2003
lunedì 2 marzo 2015
Folgóre da San Gimignano
DI MARZO
Di marzo sí vi do una peschiera
di trote, anguille, lamprede e salmoni,
di dentici, dalfini e storïoni,
d’ogn’altro pesce in tutta la riviera;
con pescatori e navicelle a schiera
e barche, saettíe e galeoni,
le qual vi portino a tutte stagioni
a qual porto vi piace alla primiera:
che sia fornito di molti palazzi,
d’ogn’altra cosa che vi sie mestiero,
e gente v’abbia di tutti sollazzi.
Chiesa non v’abbia mai né monistero:
lasciate predicar i preti pazzi,
ché hanno assai bugie e poco vero.
Di marzo sí vi do una peschiera
di trote, anguille, lamprede e salmoni,
di dentici, dalfini e storïoni,
d’ogn’altro pesce in tutta la riviera;
con pescatori e navicelle a schiera
e barche, saettíe e galeoni,
le qual vi portino a tutte stagioni
a qual porto vi piace alla primiera:
che sia fornito di molti palazzi,
d’ogn’altra cosa che vi sie mestiero,
e gente v’abbia di tutti sollazzi.
Chiesa non v’abbia mai né monistero:
lasciate predicar i preti pazzi,
ché hanno assai bugie e poco vero.
Da Sonetti dei mesi, a cura di Valerio Bartoloni, con incisioni di Romano Masoni, Comune di San Gimignano, 2007
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