OSSESSIONE DEL SERPENTE
a Friedrich Schröder-Sonnenstern, libero
i
LA MIA VITA COME UNO STILLICIDIO
l’uomo essendo l’animale più intelligente
concedergli tutte le attenuanti
tu conosci il posto dove ci trovammo quella sera di freddo
avevo una conoscenza sopita delle cose e mi sbagliai
voi che mangiate carne in scatola
siete uomini del vostro tempo
il principio del tornaconto essendo il cardine del benessere
si ha diritto al blasone d’attualità
tortuosità verbali possono arcobalenare ai nostri orizzonti
quale antifecondativo mi consiglia dottore
oh sì a dodici anni mi davo già ai fornitori
emblemi così sono anormali come i pederasti
poiché l’illusione è imprecisa come il tramonto
non so dove l’ora potrà farsi un nido
se la cassa dell’orologio si spacca
senza ripensamenti sempre è il tempo
noi siamo i certi confini che il tempo fissa
pilastri inconfondibili
alle soglie della storia
noi portiamo i feriti al ricovero
ignorando i nostri bisogni
la sirena dell’allarme ci inchioda
furiosa al cemento armato
ecco un salmo d’attualità
Brezhnev Franco Papoadopoulos per esempio
«E IO TIRESIA HO PRESOFFERTO TUTTO»
ii
IL DUBBIO ALBEGGIA AL MIO ORIZZONTE, DUNQUE È L’ORA
colonne d’autotreni e carrozze a cavalli in questo mercato
dei fiori dove lo sfasciacarrozze fa affari d’oro,
sculture di balestre con crini di cavallo e bulloni
arredano la camera da letto
sul comodino un pneumatico in bilico sull’asse di un volante
un gelato di pistacchio e panna per una cagna in calore
questo sono io
una vecchia lampada a petrolio
nascosta nel portabagagli d’una vecchia wolksvagen,
che si
consuma
a stento
iii
NON HO MAI MANGIATO CUORE DI DONNA
è l’ora del dolore che mi spalanca gli occhi
indicibili nudità baleneranno
nelle mie veglie precoci,
insaziabile fame d’una pazza adolescenza
le sue cosce mi davano calori da infarto
nelle fredde notti di febbraio
mentre fuori abbaiavano i cani
aspetto che uscirà dall’acqua per asciugarsi
miracolo d’apparenze la sua nudità
ha la chiarezza d’una frase a lungo meditata
e m’abbagliò come un sole artificiale
ai piedi della scala si ferma a pisciare
quando si spogliò
nuda come una mano nuda
intensa come un vino cotto
non so bene la biancheria che restò sul pavimento
né la fica
venni
sul pavimento
quando spense la candela il cuore
batteva
mitrrraagliatrrriice
in terra restano le mutandine bianche delicate
case cadenti della mia innocenza violentata
MA SI TRATTA DELLE MIE DEVOZIONI, DISSE ARTHUR
iv
(litania della fame che fu)
seduti davanti a una bianca tovaglia imbandita
Braque e Picasso discutevano della mela di Cézanne
Soutine vendeva quadri sui lungosenna
Chagall bisticciava coi colori
(il grigio fonde le nostre aspirazioni in croglioli di noia)
(il giallo melone dell’amore affina vanità)
(amo tratteggiare finestre con le note di un blues)
mio fratello Paul Klee lavorava eccitato alla Notte
Modigliani baciava il bel collo di Lady Bottiglia
Duchamp si chiudeva nel bagno El Greco in soffitta
e mentre lo sparviero del pianto planava su Guernica
Piero della Francesca entrava in uno dei migliori bordelli
al confine fra Spagna e Portogallo
in una delle camerette a pianterreno
c’era un ospite di riguardo con la migliore ragazza della casa,
le mani paffutelle della Gioconda
non so quante carezze hanno dipinto sulla barba di Leonardo
forse i suoi denti erano cariati o forse
aveva qualcosa in bocca quando lui le scattò la foto ricordo,
ho cercato illuminazioni al proposito
v
Caryl Chessman nella cella della morte aspettando Godot
parlava di Villon con una ballerina
che gli ballava sull’avanbraccio sinistro uno scosso rock’n’roll,
Godot il guardiano portò la colazione
uova sode
tartine al burro
prosciutto
e posando il vassoio davanti a Chessman
s’incantò a guardare la ballerina nuda
pagami da bere
gli disse a un certo punto e il guardiano
prese da un cassetto una bottiglia di whisky versandone per due
Caryl fermando l’avanbraccio la ballerina cessò il rock’n’roll
non è gentile dimenticarti del nostro amico
lo rimproverò indicandogli Caryl che mangiava con appetito
leggendo qualche riga d’un dramma di Beckett
il guardiano riempì un altro bicchiere e glielo porse
posandolo sul tavolo
vuotarono i bicchieri
e dopo un altro paio la piccola Naked si strinse
alle sbarre della cella e strofinandosi contro Godot
sussurrò
apri & let’s lie down somewheres baby
Chessman dormendo a questo punto
poggiato il capo sull’ultimo libro di memorie,
un altro se stesso gli sussurra all’orecchio
è fatale che non sappia rinunciare alla carta stampata
vi
è la sera che messasi lo scialle
esce di scena introducendo la luna
cra cra cra cra cra
lo stagno è pistacchio stasera
una zanzara genitrice di non so quale famiglia
si sbizzarrisce in ditirambiche evoluzioni
davanti agli occhi di quella rana
finché trafitta
dall’ultima lama di sole
cade a piombo
tra le erbe ristagno
ma prima che sparisca
nell’acqua melmosa
la raccoglie la slinguacciata di
rospo vorace
armi e bagagli in braccio
si dirigeva spavaldo verso il fossato
della trincea cittadina
mentre i compagni lo sfottevano
ridendo del suo caparbio sogno di gloria
la mano naviga nell’ora
dell’amoroso ardore
e l’occhio si trascina
zoppicando nel fango,
così terrestre ancora
una pietosa copia di speranza
nell’impaccio del cuore
(peccato
che fosse sempre solo
quando pregava)
in un vaso ho seminato
le disilluse speranze dell’uomo –
spero ancora che mettano germogli!
vii
STRADA CHE ADDORMENTI IL CUORE
GUARDA L’ASSURDO VIAGGIATORE
ecco la città che s’avvicina
come uno scatarro m’appare –
la città è qui
un intrigo di strade che s’accendono al tramonto
spasimi cupi di lampioni
barlumi infedeli ai nottambuli ubriachi di noia
sputati dalle porte dei bar
e scuorati
nel perimetrale raccordo del Muro
che ristagna opaco nel sonno,
davanti ai loro passi strascicati si perde
l’ululato dell’ultimo autobus
(IO SONO QUI NUDO SENZA IDENTITÀ
dietro la maschera idiota di cittadino
una tosse mi percuote fino alle emorroidi)
e la peste si spande in piaghe maleodoranti infettando tutto
all’est l’aria è irrespirabile
gli urli------------frustano le case in piena notte
e nei ristagni di silenzio
la faccia gialla della luna si schiude
in un comatoso sorriso
mostrando tre file aguzze di denti
sui canali navigano canotti di gomma carichi di carogne
letame furibondo dove germogliano
intravisti nei volti sfigurati i vermigli e benedetti
fiori del vizio
la città è una casa d’appuntamenti
mentre l’alba schiamazza in riverberi marci
vizza come le mammelle
della vecchia baldracca che dorme sul sofà
si riapre la caccia
le parole------------borseggiano i cuori del prossimo
aprono vie inesplorate al paradiso del sangue
alza la voce e parla
VOGLIO MORIRE COME CITTÀ PER NASCERE COME UOMO
viii
tornando ad inverno inoltrato
(perché la campagna sorride ai miei passi?
tra i covoni di fieno ritorno
alle prime esperienze?)
niente volle sapere
si rotolò nel fango
sguazzando fra le pozzanghere
col moncherino della gamba amputata
aveva la testa stravolta
e ridendo per mostrarmi la cicatrice all’inguine
la svitò prendendola in mano
s’alzò la gonna
all’altezza del ginocchio
e disse
l’in-
contro
è uno
scontro
mezzodì
sul torrente frantuma
il ghiaccio notturno
e i lampi sbocciarono
fracassandogli lo scoppio repentino
la testa che
aveva in mano
mostrando
ix
IO SONO UN GENIO
m’hanno legato alla vita con catene di verbi
hanno aperto le mie viscere coi coltelli del formaggio
e m’hanno accarezzato coi bastoni del disprezzo
ho sognato di rendere l’odio con l’amore
e m’hanno impresso nell’anima il marchio del pazzo
ho imbracciato i fucili della vendetta
facendone stampelle per la mia disperazione
in questa cantina fuori mano
affilo i miei denti di serpente
traverso le piazze avvolto nel ridicolo mantello
cucito con le dicerie degli sciocchi
la vita corre sui miei nervi tesi
e io mi scaldo al sole
mi siedo a meditare sull’acqua sul pane
su dio sulle feci e sul vento
il vento non ha mai mantenuto le promesse
io vivo così ma posso morire
voglio anche morire
perché è più facile vivere che voler vivere
e non il contrario
infatti ci sono pozzi ovunque
che si spalancano davanti ai nostri passi
x
voglio aprire la luce
avete paura della luce
perché la luce vuol dire ripensare tutto
voglio distendermi su un freddo lettino d’ospedale
e fare l’inventario della mia vita
voglio cancellare in me stesso le tracce
di quanti ho amato, di quanto ho conosciuto
voglio scordare perché la luna ha le sue fasi
come una donna ha le sue cose una volta al mese
e che di questo sempre si stupisce
voglio morirmene solo come un cane
in un freddo e sporco lettino d’ospedale
e non affogare nel mare della tranquillità
e morendo auspicare il nuovo ordine sociale
chiamato------------anarchia
OM MANI PADME UM
AVETE SPEZZATO LE MIE SPERANZE
IMBAVAGLIATO IL MIO SPIRITO
TORTURATO LA MIA ANIMA
E ADESSO MI CHIEDETE DI VOTARE PER VOI
IO VOTO PER ME
epilogo
uscì,
sul portone Caravaggio
chiedeva l’elemosina ai passanti
avvolto in un vecchio cappotto sdrucito,
lo sferzava il nevischio incessante
– e non lo riconobbe
DITE AL SOLE E ALLA LUNA DI FARE UN CIELO NUOVO
(1967-1977)
(inedito)
NOTA
Fu Giovanna Sicari – non ricordo il periodo, ma parliamo di metà anni Ottanta – a darmi il dattiloscritto di questo poemetto. A Giovanna era stato proposto – non ricordo se dall’autore o da chi altri – per “Arsenale”, la rivista da noi e da altri poeti fondata e diretta da Gianfranco Palmery. Io, a mia volta, l’avevo passato in lettura ad Alessandro Ricci. Il testo, un po’ strano, ma interessante, benché vagamente avanguardista ci convinse a pubblicarlo – questo lo ricordo –, ma non subito, chissà perché. Poi “Arsenale” smise di esistere, perciò non fu più possibile. Da allora è rimasto sepolto con altri dattiloscritti in uno scatolone in casa di Alessandro Ricci. È tornato alla luce di recente, quando – in qualità di curatore testamentario delle carte di Alessandro – ho messo le mani in quello scatolone. L’ho riletto e, nonostante il mio interesse sia meno vivo d’allora, mi è sembrato giusto rimediare al torto di tanti anni fa pubblicandolo qui. Considerato il tempo trascorso, spero che non venga giudicato male.
Al dattiloscritto, e con esso passato di mano in mano, era allegato anche il ritaglio del settimanale “ABC” con la concisa autobiografia di Friedrich Schröder-Sonnenstern, che si legge nel post di lunedì scorso. È alle esperienze di vita dell’artista tedesco, al quale è dedicato, che mi pare s’ispiri il poemetto.
Non sapevo allora, né so ora, chi sia o sia stato Libero Tecci, l’autore del poemetto, e nemmeno ho più letto altro di lui, o avuto sue notizie. Se – per uno di quei casi fortunati che accadono ogni tanto e che stupiscono sempre – dovesse entrare in questo blog e leggere il suo testo, lo prego di farsi vivo; o lo faccia chiunque lo conosca o l’abbia conosciuto.