EPISTOLA AD AUGUSTA
I
Sorella, dolce sorella mia, ci fosse un nome
il più caro, il più puro dovrebbe essere il tuo!
Monti e mari ci separano, e non lacrime
chiedo, ma tenerezza che incontri la mia.
Ovunque io vada, tu sei per me la stessa,
amato rimpianto al quale non rinuncio.
Nel mio destino ho ancora queste cose:
viaggiare un mondo e insieme a te una casa.
II
Se l’uno fosse un niente e avessi l’altra,
essa sarebbe il porto della felicità;
ma altri obblighi hai tu, altri legami,
non è mio desiderio che tu vi venga meno.
Infelice destino del figlio di tuo padre,
senza rimedio, perciò irrevocabile;
opposto a quello del nostro grande avo
che mai pace ebbe in mare; ed io a terra.
III
Se il mio retaggio di tempeste in altri
elementi è riposto, e su rocce insidiose,
ignorate o imprevedibili, la mia parte
di accidenti terreni ho sopportato,
mio fu lo sbaglio e non voglio coprire
con difese insensate i miei errori;
fui causa io stesso della mia rovina,
l’accorto pilota della mia disgrazia.
IV
Mia fu la colpa, e mia la ricompensa.
Fu una lotta ogni ora di vita, dal giorno
che mi fu data, insieme a ciò che il dono
avrebbe sciupato, carattere o destino
fuorvianti. A volte la lotta fu dura,
e pensai di strapparmi ai vincoli terreni.
Ma adesso ancora un po’ io vorrei vivere,
almeno per vedere che cosa può accadermi.
V
Di regni e imperi nei miei pochi giorni
ho vissuto più a lungo, benché vecchio non sia.
Quando questo considero, la spuma
leggera degli anni di pena, rotolati via
come i flutti tempestosi della baia,
si scioglie. Qualcosa che non so sostiene
ancora uno spirito di lieve tolleranza;
benché fine a se stessa, non è inutile la pena.
VI
In me opera forse e s’agita il disprezzo,
o una fredda disperazione provocata
da mali ricorrenti; forse un clima più mite,
una più pura aria (ché anche in questo
può l’anima cambiare e un’armatura
più leggera impariamo a sopportare),
m’insegnarono una loro strana quiete
che non era compagna di più serena sorte.
VII
A volte mi emoziono come al tempo
dell’infanzia felice: alberi, rivi, fiori
mi ricordano i luoghi dove vissi
prima d’offrire in sacrificio ai libri
la mia giovane mente; come un tempo
il cuore si commuove, a riconoscerli;
e a volte penso che potrei amare
una creatura viva – ma come te nessuna.
VIII
Qui sulle Alpi i paesaggi offrono spunti
di riflessione – si prova per poco
l’ammirazione – però queste scene
ispirano cose più alte: essere soli
non dà tristezza, qui, perché molto altro
di desiderabile ho visto e soprattutto
posso ammirare un lago anche più bello –
ma non più caro – del nostro di un tempo.
IX
Oh, se tu fossi qui con me! Ma ecco
mi faccio giullare dei miei desideri,
dimentico che la solitudine ora vantata
ha già perso ogni pregio per quel solo
rimpianto. Altri forse ne riesco a celare.
Non sono un malinconico, ma sento
ogni mia convinzione venir meno
e sale una marea nel mio occhio alterato.
X
Il caro lago, presso il vecchio Castello
che non sarà più mio, ti ho ricordato.
Lemano è bello, ma non credere mai
ch’io rinunci al ricordo della sponda più cara.
Della memoria il Tempo farà scempio
prima che voi
svaniate dai miei occhi,
anche se, come tutto ciò che ho amato,
da me siete lontani o divisi per sempre.
XI
Tutto il mondo ho davanti; e alla Natura
chiedo soltanto quello che può darmi:
di riscaldarmi al sole dell’estate,
di mischiarmi alla quiete dei suoi cieli,
di vederne il volto gentile senza veli
e mai guardarla con indifferenza.
Essa per prima mi fu amica ed ora –
finché non ti rivedrò – sarà sorella.
XII
Qualsiasi sentimento io potrei soffocare,
tranne questo; e non voglio, ché qui viste
vedo simili a quelle ove iniziai la vita:
le prime, per me gli unici sentieri.
Se a evitare la folla subito avessi appreso
sarei certo migliore di quanto non sono;
le passioni che straziano avrebbero dormito,
io non
avrei sofferto, tu non avresti
pianto.
XIII
Cosa avevo a che fare con la falsa ambizione?
Ben poco con l’amore, con la fama di meno.
Non cercati essi vennero e crescemmo
insieme; mi diedero quello che potevano:
un nome. Ma non era il fine perseguito,
sebbene un tempo ad un nobile scopo
mirassi. Ora mi aggiungo – ché tutto è finito –
ai molti vinti prima di me scomparsi.
XIV
Quanto al futuro, il futuro del mondo
richiede molto poco del mio impegno.
Molti giorni a me stesso sono sopravvissuto,
di molte cose più a lungo ho vissuto;
i miei anni non hanno avuto il sonno
ma una preda di vigilie senza fine:
la mia vita vissuta colmerebbe un secolo,
prima che un quarto ne sia già trascorso.
XV
Per tutto ciò che ancora può accadere
sono pronto; e verso il passato non provo
ingratitudine, perché fra tante lotte
a volte s’è introdotta anche la felicità.
Al presente non vorrei che i sentimenti
s’intorpidissero. E non nasconderò
che guardandomi intorno con profondo
sentire posso ancora adorare la natura.
XVI
Quanto a te, dolce sorella, nel tuo cuore
io mi sento al sicuro, e tu nel mio;
noi siamo stati e siamo – io come te –
creature che non potranno rinunciare
mai l’uno all’altra; insieme o separati,
dal principio al suo lento declino,
per la vita siamo avvinti e, rapida o lenta
la morte, quel primo legame sarà l’ultimo.
Traduzione di Francesco Dalessandro
Da Il sogno e altri pezzi domestici, Il Labirinto, 2008