venerdì 30 maggio 2014

Francesco Dalessandro

TRIUMPHUS CUPIDINIS

a Dora, domani, per i 41 anni di vita in comune

Più sussurro che voce erano i versi  
il trionfo di un eros che non conobbe
mai resa appagandosi solo se gli occhi
voraci si saziavano – complice la luce
matura del primo pomeriggio penetrante
dalle tende semichiuse nella camera guscio
vuoto in cui l’amore si accuccia nei giorni
estivi – del tuo corpo bruno di sole acre
di sudore e di sale quando stremata «lasciami
riposare» pregavi ma convinta e vinta
dalle carezze che la lingua ai tuoi golfi
umidi e colli prodigava ti piegavi
e ti aprivi per accogliermi ardente
brace languente cera…

da Ore dorate, Il Labirinto, 2008

mercoledì 28 maggio 2014

Ciro di Pers

AL SONNO

O sonno tu ben sei fra i doni eletti
dal ciel concesso ai miseri mortali,
tu l’agitato sen placido assali
e tregua apporti ai combattuti affetti,
tu, d’un soave oblio spargendo i petti,
raddolcisci i martir, sospendi i mali,
tu dai posa e ristoro ai sensi frali,
tu le tenebre accorci e l’alba affretti,
tu della bella Pasitea consorte,
tu, figliuolo d’Astrea, per te di paro
van fortuna servile e regia sorte,
ma ciò che mi ti rende assai più caro
è ch’a l’orror de l’aborrita morte
io col tuo mezzo ad avvezzarmi imparo.

Da Poesie, a cura di Michele Rak, Einaudi, 1978



lunedì 26 maggio 2014

Roberto Friol

POLVERE CHE AMÒ LA FEBBRE

Polvere che amò la febbre
dello star qui e dell’essere,
                                                  del risonante
al di là del presente e del passato,
                                  i passi del respiro,
la memoria della ritrosa gioia,
l’arco teso del dolore, il domani
che si sta insieme nella casa di tutti.
                                                      Polvere
del duro scontro con la vita,
dell’ansito d’empire la speranza.

Traduzione di Francesco Tentori Montalto

da Poesie, Alfabetica, 1991

venerdì 23 maggio 2014

Giacomo Leopardi

CORO DI MORTI NELLO STUDIO DI FEDERICO RUYSCH

Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa, 
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall’antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l’arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell’alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n’avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de’ vivi al pensiero
L’ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però ch’esser beato
Nega ai mortali e nega a’ morti il fato.

Da Operette morali. Dialogo di Federico Ruisch e delle sue mummie. Mondadori, B.M.M., 1961


mercoledì 21 maggio 2014

Philip Larkin

FINESTRE ALTE

Quando vedo una coppia di ragazzi
e penso che lui se la scopa e che lei
prende la pillola o si mette il diaframma,
so che questo è il paradiso

che ogni vecchio ha sognato per tutta la vita – 
legami e gesti messi da parte
come una mietitrebbia arrugginita,
e ogni giovane che va giù per lo scivolo

di una felicità senza fine. Chissà
se qualcuno osservandomi, quarant’anni fa,
ha pensato: Quella sarà la vita;
non più Dio, non più sudore e paura la notte

per l’inferno e per tutto il resto, non più
il dovere di nascondere quello che pensi del prete.
Lui e quelli come lui tutti giù per lo scivolo
come maledetti uccelli liberi. E all’improvviso

non una parola viene, ma il pensiero di finestre alte:
il vetro che assorbe il sole,
e, al di là, l’aria azzurra e profonda, che non mostra
nulla, che non è da nessuna parte, che non ha fine.

Traduzione di Enrico Testa


da Finestre alte, Einaudi, 2002


lunedì 19 maggio 2014

Eloy Sánchez Rosillo


Il verso che abbiamo seguito durante la scorsa settimana, l’ultimo del celebre sonetto di Luis de Góngora (1561-1627): Mientras por competir con tu cabello, trova, in questa bella poesia di Eloy Sánchez Rosillo (a distanza di qualche secolo, torniamo in ambito spagnolo), una declinazione del tutto nuova, elegiaca. Non c’è più la violenza barocca del “cadavere” di Suor Juana; manca l’allusività gongorina della “terra”, il “fumo” è diventato una “nebbia”, e la “polvere” si è trasformata in “parole”. All’“ombra” s’è aggiunto il “sogno” – richiamo all’altro grande spagnolo del tempo: Calderón de la Barca. Il “niente” resta, anche qui a sigillo del verso e della poesia. 
L’alessandrino di Eloy Sánchez Rosillo – che risponde al perfetto endecasillabo di Góngora – ha un’andatura diversa, ma, nella diversa bellezza, è altrettanto denso e intenso.  


Eloy Sánchez Rosillo

LA SPIAGGIA

Nessuno potrà togliermi – mi dico – l’illusione
di sognare che questa mattina sia esistita.
Il tempo s’è fermato: sento le tue risate,
le tue parole di bambino. Non sono mai stato
soddisfatto di tutto come ora, così certo 
della felicità. Giochi vicino
all’acqua ed io t’aiuto coi castelli di sabbia, 
a cercare conchiglie. Tu da un posto
all’altro corri, sguazzi, gridi, cadi, 
corri di nuovo, poi ti fermi accanto 
a me, mi abbracci, io bacio i tuoi capelli,
gli occhi, le guance, e l’esultante infanzia. 
Il mare è azzurro e calmo. In lontananza 
vele bianche. Ed il sole che ci lascia 
il suo oro violento sulla pelle.
                                                      Mi dico 
che il miracolo è vero, e che è vero il fluire 
immoto della quieta mattinata
e così l’illusione di sognare il ristagno
dolcissimo nel quale noi diventiamo esseri 
felici d’esser vivi, lieti di stare insieme
e abitare la luce.

                                Ma all’improvviso ascolto
il rumore terribile e cupo che fa il tempo
quando trascorre rapido e allora la certezza
del mio sogno si spezza; si frantuma
– come fragile vetro – l’illusione
di stare qui, con te, vicino all’acqua.
Diventa scuro il cielo, il mare s’agita.
E io sento nel sangue la paurosa vertigine
dell’età: in quell’istante sono passati gli anni.
T’ho visto allontanarti, ormai cresciuto.
E non sei più il bambino che giocava col padre, 
sulla spiaggia. Sei un uomo, ora, e anche tu 
lo capisci che non è mai esistito, 
che non esiste e mai esisterà quel giorno, 
la gioia favolosa degli occhi che ti guardano, 
la leggenda impossibile della tua infanzia.
Sei da solo e mi cerchi. Io sono morto, forse.
Siamo le ombre di un sogno, nebbia, parole, niente.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Las cosas como fueron. Poesía completa, 1974-2003, Tusquets, 2004 

venerdì 16 maggio 2014

SEGUENDO UN VERSO

Il verso che stiamo seguendo è l’ultimo del perfetto e celebre sonetto del poeta barocco Luis de Góngora (1561-1627): Mientras por competir con tu cabello: un verso che porta all’estremo il vecchio tema del Carpe diem. Il sonetto l’abbiamo letto lunedì in originale, nella traduzione di Leone Traverso e in quella più celebre di Giuseppe Ungaretti. Mercoledì abbiamo letto le versioni di due traduttori più recenti, Loris Pellegrini e Giulia Poggi. Oggi leggeremo un’imitazione e una riscrittura. La prima è del nostro Ciro di Pers (1599-1663), successiva all’originale di alcuni decenni appena. Il verso viene posto a chiusura di uno dei sonetti che costituiscono la sequenza per Lidia, nel quale torna il tema oraziano. La seconda, della messicana Suor Juana Inés De La Cruz (1651-1695), è di un secolo dopo. Guardando un proprio ritratto per osservarvi l’ombra della morte, Suor Juana pronuncia una sentenza. «Il modello torna ad essere Góngora – commenta il poeta catalano Pere Gimferrer –, ma gli allusivi “terra” e  “fumo” sono soppiantati dalla visione diretta del “cadavere”. Maturando, il Barocco diventa più violento, visionario». 
Lunedì prossimo, infine, leggeremo una poesia del poeta spagnolo Eloy Sánchez Rosillo nella quale il verso che stiamo seguendo, a distanza di secoli, subisce una trasformazione. 


CIRO DI PERS IMITA LUIS DE GÓNGORA

Io serbo, Lidia, ancor l’antico stile
poiché in te gli occhi sospirando giro,
ma d’aver sospirato io sol sospiro
per beltà già sì rara et or sì vile.

Nel volto, che dagli anni è fatto un Sile,
i fasti tuoi, le mie sciocchezze ammiro
e rido dentro il cor mentre ti miro
la morte accarezzar col vezzo anile.

Varcato il mezo hai de l’etade, o stolta,
più d’appresso il feretro è che la culla,
ceda l’orgoglio omai, ceda una volta.

Oggi sei vecchia e fosti ier fanciulla,
diman Lachesi ria t’avrà disciolta
in terra in polve in fumo in ombra in nulla.



SUOR JUANA INÉS DE LA CRUZ RISCRIVE LUIS DE GÓNGORA

Este que ves, engaño colorido,
que del arte ostentando los primores,
con falsos silogismos de colores
es cauteloso engaño del sentido;

éste, en quien la lisonja ha pretendido
excusar de lo años los horrores,
y venciendo del tiempo los rigores
triunfar de la vejez y del olvido,

es un vano artificio del cuidado,
es una flor al viento delicada,
es un resguardo inútil para el hado:

es una necia diligencia errada,
es un afán caduco y, bien mirado,
es cadáver, es polvo, es sombra, es nada.


Questo, che vedi, colorato inganno
che dell’arte ostentando le bellezze
con falsi sillogismi di colori
è un inganno dei sensi malizioso;

questo, nel quale la lusinga ha osato
della vecchiaia eludere gli orrori
e sconfiggendo del tempo i rigori
trionfare sugli anni e sull’oblio,

è un artificio vano della cura,
è un fiore molto gracile nel vento,
è un inutile scudo contro il fato:

è una sciocca pazienza delirante,
è un affanno fugace e, a ben guardare,
è cadavere, è polvere, è ombra, è niente.

Traduzione di Roberto Paoli 


mercoledì 14 maggio 2014

SEGUENDO UN VERSO

Il verso che stiamo seguendo è l’ultimo del perfetto e celebre sonetto del poeta barocco Luis de Góngora (1561-1627): Mientras por competir con tu cabello: un verso che porta all’estremo il vecchio tema del Carpe diem. Il sonetto l’abbiamo letto lunedì in originale, nella traduzione di Leone Traverso e in quella più celebre di Giuseppe Ungaretti. Oggi leggiamo le versioni di due traduttori più recenti, Loris Pellegrini e Giulia Poggi. Venerdì leggeremo un’imitazione e una riscrittura. La prima è del nostro Ciro di Pers (1599-1663), successiva all’originale di alcuni decenni appena. La seconda, della messicana Suor Juana Inés De La Cruz (1651-1695), è di un secolo dopo. 


Luis de Góngora 

Mentre per gareggiar coi tuoi capelli
L’oro brunito al sol riluce invano;
mentre con sprezzo la tua bianca fronte
si volge al giglio bello in mezzo al piano;

mentre gli sguardi colgono il tuo labbro
quasi fosse garofano novello;
mentre trionfa con disdegno vivo
sul cristallo lucente il collo bello;

godi capelli e fronte, e labbra e collo
prima che quel che fu in tua età dorata
oro e giglio, garofano e cristallo,

muti in argento od in viola estirpata;
non solo, ma ad esso unitamente
in terra, in fumo, in polvere, in ombra, in niente.

Traduzione di Loris Pellegrini


Finché per vincere sui tuoi capelli
l’oro brunito splende al sole invano,
finché sprezzante guarda in mezzo al piano
la tua candida fronte il giglio bello,

finché le labbra inseguono, per coglierle,
più occhi che il garofano precoce,
finché trionfa con sdegnosa luce
sul lucido cristallo il tuo bel collo,

godi collo, capelli, labbra e fronte
prima che quanto fu in giorni dorati
oro, giglio, garofano, cristallo,

non solo argento o viola reclinata
divenga, ma tu insieme a tutto questo
terra, polvere, fumo, ombra, più nulla.

Traduzione di Giulia Poggi

lunedì 12 maggio 2014

SEGUENDO UN VERSO

Il verso che seguiremo è l’ultimo di questo perfetto e celebre sonetto del poeta barocco Luis de Góngora (1561-1627): un verso che porta all’estremo il vecchio tema del Carpe diem; lo seguiremo attraverso alcune traduzioni italiane: oggi quella di Leone Traverso e la più celebre di Giuseppe Ungaretti, e domani quelle di due traduttori più recenti. Venerdì leggeremo una imitazione e una riscrittura. La prima è del nostro Ciro di Pers (1599-1663), successiva all’originale di alcuni decenni appena. La seconda, della messicana Suor Juana Inés De La Cruz (1651-1695), è di un secolo dopo. 


Luis de Góngora


Mientras, por competir con tu cabello,
oro bruñido al Sol relumbra en vano;
mientras con menosprecio en medio el llano
mira tu blanca frente el lilio bello;

mientras a cada labio, por cogello,                  
siguen más ojos que al clavel temprano,
y mientras triunfa con desdén lozano
del luciente cristal tu gentil cuello;

goza cuello, cabello, labio y frente,
antes que lo que fue en tu edad dorada                  
oro, lilio, clavel, cristal luciente,

no sólo en plata o vïola troncada
se vuelva, mas tú y ello juntamente
en tierra, en humo, en polvo, en sombra, en nada.

(1582)


LEONE TRAVERSO TRADUCE LUIS DE GÓNGORA

Fin che per emulare i tuoi capelli
oro brunito al sole splende invano,
e sdegnosa riguarda in mezzo al piano
la tua candida fronte i gigli belli,

e le tue labbra avide più pupille
bramano che il garofano d’aprile;
fin che altera la tua gola gentile
vince il cristallo acceso di scintille,

goditi labbra e gola e fronte e chioma
prima che il vanto dell’età fanciulla,
e garofano e giglio e oro e giada,

in viola recisa e argento cada,
non solo, ma tu insieme in muta soma
di terra, in fumo, polvere, ombra, nulla.


GIUSEPPE UNGARETTI TRADUCE LUIS DE GÓNGORA

Finché dei tuoi capelli emulo vano, 
Vada splendendo oro brunito al Sole, 
Finché negletto la tua fronte bianca 
In mezzo al piano ammiri il giglio bello, 

Finché per coglierlo gli sguardi inseguano 
Più il labbro tuo che il primulo garofano, 
Finché più dell’avorio, in allegria 
Sdegnosa luca il tuo gentile collo, 

La bocca, e chioma e collo e fronte godi, 
Prima che quanto fu in età dorata, 
Oro, garofano, cristallo e giglio 

Non in troncata viola solo o argento, 
Ma si volga, con essi tu confusa, 
In terra, fumo, polvere, ombra, niente.




venerdì 9 maggio 2014

Adrian Henri

HAIKU

mattina:
il tuo impermeabile di nylon rosso
nel vento come un papavero attraversa Hardman Street


Traduzione di Renato Oliva

da Giovani poeti inglesi, Einaudi, 1976

mercoledì 7 maggio 2014

Ezra Pound

IN UNA STAZIONE DEL METRO

Questi volti apparsi tra la folla:
petali su un ramo umido e nero.


Traduzione di Vittorio Sereni

da Opere scelte, I Meridiani Mondadori, 1970

lunedì 5 maggio 2014

venerdì 2 maggio 2014

Ducas

LAMENTO SULLA CITTÀ CADUTA

L’antica traduzione veneta di un lamento sulla fine di Costantinopoli, colmo di pathos e di contrizione.

O cità, caput de tutte le citade, centro de le quatro parte del mundo! O cità, cità, gloria de tutti i Christiani et destructione de barbari! O cità, cità, altro paradiso piantato verso l’occidente, havente dentro varie piante con abbundantia de fructi spirituali! Dove è il tuo decoro? Dove è la valitudine tua benigna? Dove sono le tue gratie gratis date? 
[...] 
Dove sono le reliquie delli confessori? Dove delli martiri? Dove sono le reliquie del magno Costantino? Dove li cadaveri deli altri imperadori? Dove sono le strade, li cortili, li trivii, li campi, le macerie delle vigne, che tutte erano piene de reliquie di sancti? Dove sono li sepulcri honorati delli generosi? 
[...]
O citadinità, o populo, o exercito dinanzi innumerabile, adesso destructo, come la nave in la sua navigation submersa! O case, o palazi diversi, o sacri muri! Oggi convoco tutti voi, et come cose animate con voi piango habiando per mio doctore Hieremia, principe della misera tragedia. Quomodo sedet sola civitas, la quale abbundava tanto populo? È facta come vedua la madonna della gente, la imperatrice delle provintie è posta sotto tributo. Plorante plora la nocte, et le lacrime irrigano per le maxille. De tutti li soi cari non è alcun che li daga consolatione. Tutti li soi amici la hanno disprezata; et sono facti a lei inimici. Iudas s’è partito per la afflictione et multa servitù. In le angustie li soi persequitori la hanno presa. Le vie de la nova Sion piangono, perché non sono chi venga alle sollemnitade. Tutte le porte dela cità sono destructe. Li soi sacerdoti plorano, le sue vergine sono piene de squallore. Et ipsa è oppressa dalla amaritudine. Li soi adversarii sono facti ricchi et deventati soi inimici capitali, perché ’l Signor ha parlato contra essa per la multitudine delle sue iniquitade. Li soi putti pizoli sono menati in captivitade al conspecto de quello che la ha tribulata. Et omne decoro s’è partito dalla figliola Sion. Li soi principi sono facti come montoni che non trovano pasculi, et sonose partiti senza la forteza avanti la facia del persecutore. Ierusalem s’è ricordata delli zorni della sua afflictione et prevaricatione de tutti li soi desiderii. Li inimici veddero essa, et deriseno le sue feste. Ierusalem ha peccato et per zò è facta instabile. Tutti quelli che la glorificava, la hanno desprezata, perché hanno visto la sua ignominia. Lo inimico ha desceso le mane a tutti li soi desiderii, et ha visto intrare gente nel sanctoario suo, le quale havevi comandato che non intrasse nella chiesia tua. Tutto ’l populo suo piangendo cercava el pane; et hanno dato tutte le tue cose pretiose per el cibo per refocillar l’anima sua. Vedi, Signor, et considera come sono facta vile. O tutti voi che passate per la via, attendate et vedate se è dolor come è il dolor mio, perché ’l Signor me ha vindemiata, secondo che disse nel dì del suo furor. Da alto mandò el foco nelle ossa mei. Ha desteso le reti alli mei pedi et hame facto tornar indetro. 
[...]
Li putti che tetavano sono uccisi. Hanno amazato nel sanctuario del Signore el sacerdote e ’l propheta. Le vergene et li zoveni mei tutti sono menati in preda. Ha compito el Signor la sua ira, et ha messo foco in la cità, et ha consumato li fondamenti soi. La nostra successione è devoluta in altri: le case nostre tràdite sono alli forestieri. Semo deventati orfani senza patre, le matre nostre vedove. Semo cacciati, havemo fatigato, senza mai haver riposo. Li nostri patri hanno peccato et non vivono: noi veramente sostenemo le sue prevaricatione. Li servi signoreza noi, et non è deliberator che ne delibere delle sue mane. La nostra pelle è deventata vecchia et seccha, come vite avulsa della radice dal viso delli venti. Li electi hanno cessato dalla voce delli psalmi. Ogni alegreza dal nostro core è mancata, lo nostro choro s’è convertito in pianto, la corona del nostro capo è cazuta. Heu! perché havemo peccato. El nostro core è deventato dolente, per el peccato, li nostri occhi oscuriscono, per el peccato la nova Sion è destructa. Le volpe passaranno per essa. Tu vero, Signor, habite in eterno, la tua sedia da generatione in generatione. Perché ne hai sdementicato? Tu ne hai abbandonato in la longhezza delli zorni. 
[...] 
Qual lingua mai potria compitamente la multitudine, le generatione et grandezza delli mali, oltra la preda inevacuabile, la desabitazione amara, che ha sostenuta la inconsolabile cità. 
[...]  
O sole, obscura della tua faccia la eterna luce, et tu, terra, sospira e piangi per la horribile sententia, che Dio iusto ha mandato sopra la generation nostra per li nostri peccati. Non semo degni alzar li occhi al cielo, ma col volto et li occhi bassi guardar sempre la terra, chiamando sempre: «Iusto, iusto sei tu, Signore, et iusto è il tuo iuditio. Havemo peccato, havemo prevaricato, havemo facto iniustitia più che tutte le zente. Et tutte le cose che hai facto a noi, tu le hai facte con iustitia et con raxone. Nientedimeno, habbi de noi, Signor, misericordia».

Traduzione di Anonimo veneto del xv secolo

da Bisanzio nella sua letteratura, a cura di Umberto Albini e Enrico V. Maltese, Garzanti, 1984