lunedì 30 giugno 2014

Antonio Tagliacarne

VOCE PERENNE

Riprendo i miei colloqui
da un tenero distante,
e, forse, nel tuo volto
ho l’universo.

Da Poiché tutto ho patito, Gastaldi Editore, 1954

venerdì 27 giugno 2014

Francisco de Quevedo

Si rappresenta la brevità del tempo che si vive
e come sembra nulla quello che s’è vissuto


Ehi, della vita! Nessuno risponde?
Voglio qui tutti gli anni che ho vissuto!
La Fortuna il mio tempo ha già compiuto,
la mia pazzia le Ore mi nasconde.

Ch’io non possa saper come né dove
la salute e l’età sono fuggite!
Manca la vita, c’è l’aver vissuto,
non v’è calamità che non mi provi.

Ieri sparì, domani non è giunto,
l’oggi se ne va via senza fermarsi;
sono un fu, un sarà, un è già smunto.

Nell’oggi, ieri e domani congiungo
pannolini e sudario; son rimasto
eredità presente d’un defunto.

Traduzione di Vittorio Bodini

Da Sonetti amorosi e morali, Passigli, 2001

mercoledì 25 giugno 2014

Libero Tecci



OSSESSIONE DEL SERPENTE


a Friedrich Schröder-Sonnenstern, libero


i


LA MIA VITA COME UNO STILLICIDIO
l’uomo essendo l’animale più intelligente
concedergli tutte le attenuanti
tu conosci il posto dove ci trovammo quella sera di freddo
avevo una conoscenza sopita delle cose e mi sbagliai
voi che mangiate carne in scatola 
siete uomini del vostro tempo
il principio del tornaconto essendo il cardine del benessere
si ha diritto al blasone d’attualità
tortuosità verbali possono arcobalenare ai nostri orizzonti


quale antifecondativo mi consiglia dottore
oh sì a dodici anni mi davo già ai fornitori

emblemi così sono anormali come i pederasti
poiché l’illusione è imprecisa come il tramonto

non so dove l’ora potrà farsi un nido
se la cassa dell’orologio si spacca
senza ripensamenti sempre è il tempo

noi siamo i certi confini che il tempo fissa
pilastri inconfondibili
alle soglie della storia
noi portiamo i feriti al ricovero
ignorando i nostri bisogni
la sirena dell’allarme ci inchioda
furiosa al cemento armato

ecco un salmo d’attualità
Brezhnev Franco Papoadopoulos per esempio

«E IO TIRESIA HO PRESOFFERTO TUTTO»


ii


IL DUBBIO ALBEGGIA AL MIO ORIZZONTE, DUNQUE È L’ORA

colonne d’autotreni e carrozze a cavalli in questo mercato
dei fiori dove lo sfasciacarrozze fa affari d’oro,
sculture di balestre con crini di cavallo e bulloni
arredano la camera da letto
sul comodino un pneumatico in bilico sull’asse di un volante
un gelato di pistacchio e panna per una cagna in calore
questo sono io
una vecchia lampada a petrolio
nascosta nel portabagagli d’una vecchia wolksvagen,
                                                                                    che si
                                                                                    consuma
                                                                                    a stento


iii


NON HO MAI MANGIATO CUORE DI DONNA

è l’ora del dolore che mi spalanca gli occhi
indicibili nudità baleneranno
nelle mie veglie precoci,
insaziabile fame d’una pazza adolescenza

le sue cosce mi davano calori da infarto
nelle fredde notti di febbraio
mentre fuori abbaiavano i cani

aspetto che uscirà dall’acqua per asciugarsi
miracolo d’apparenze la sua nudità
ha la chiarezza d’una frase a lungo meditata
e m’abbagliò come un sole artificiale

ai piedi della scala si ferma a pisciare

quando si spogliò
nuda come una mano nuda
intensa come un vino cotto
non so bene la biancheria che restò sul pavimento
né la fica

                                      venni
                                sul pavimento
                  quando spense la candela il cuore
                                    batteva
                            mitrrraagliatrrriice

in terra restano le mutandine bianche delicate
case cadenti della mia innocenza violentata

MA SI TRATTA DELLE MIE DEVOZIONI, DISSE ARTHUR


iv
(litania della fame che fu)


seduti davanti a una bianca tovaglia imbandita
Braque e Picasso discutevano della mela di Cézanne
Soutine vendeva quadri sui lungosenna
Chagall bisticciava coi colori
(il grigio fonde le nostre aspirazioni in croglioli di noia)
(il giallo melone dell’amore affina vanità)
(amo tratteggiare finestre con le note di un blues)
mio fratello Paul Klee lavorava eccitato alla Notte
Modigliani baciava il bel collo di Lady Bottiglia
Duchamp si chiudeva nel bagno El Greco in soffitta
e mentre lo sparviero del pianto planava su Guernica
Piero della Francesca entrava in uno dei migliori bordelli
al confine fra Spagna e Portogallo
in una delle camerette a pianterreno
c’era un ospite di riguardo con la migliore ragazza della casa,
le mani paffutelle della Gioconda
non so quante carezze hanno dipinto sulla barba di Leonardo
forse i suoi denti erano cariati o forse
aveva qualcosa in bocca quando lui le scattò la foto ricordo,
ho cercato illuminazioni al proposito


v


Caryl Chessman nella cella della morte aspettando Godot
parlava di Villon con una ballerina
che gli ballava sull’avanbraccio sinistro uno scosso rock’n’roll,
Godot il guardiano portò la colazione
                                                                                 uova sode
                                                                                 tartine al burro
                                                                                 prosciutto
e posando il vassoio davanti a Chessman
s’incantò a guardare la ballerina nuda

                                                                                 pagami da bere
gli disse a un certo punto e il guardiano
prese da un cassetto una bottiglia di whisky versandone per due
Caryl fermando l’avanbraccio la ballerina cessò il rock’n’roll

non è gentile dimenticarti del nostro amico
lo rimproverò indicandogli Caryl che mangiava con appetito
leggendo qualche riga d’un dramma di Beckett
il guardiano riempì un altro bicchiere e glielo porse
posandolo sul tavolo

                                        vuotarono i bicchieri
e dopo un altro paio la piccola Naked si strinse
alle sbarre della cella e strofinandosi contro Godot
sussurrò
                   apri & let’s lie down somewheres baby

Chessman dormendo a questo punto
poggiato il capo sull’ultimo libro di memorie,
un altro se stesso gli sussurra all’orecchio
è fatale che non sappia rinunciare alla carta stampata


vi


è la sera che messasi lo scialle
esce di scena introducendo la luna

cra cra cra cra cra
lo stagno è pistacchio stasera
una zanzara genitrice di non so quale famiglia
si sbizzarrisce in ditirambiche evoluzioni
davanti agli occhi di quella rana
finché trafitta
dall’ultima lama di sole
cade a piombo
tra le erbe ristagno
ma prima che sparisca
nell’acqua melmosa
la raccoglie la slinguacciata di
rospo vorace

armi e bagagli in braccio
si dirigeva spavaldo verso il fossato
della trincea cittadina
mentre i compagni lo sfottevano
ridendo del suo caparbio sogno di gloria

la mano naviga nell’ora
dell’amoroso ardore
e l’occhio si trascina
zoppicando nel fango,
così terrestre ancora
una pietosa copia di speranza
nell’impaccio del cuore

(peccato
che fosse sempre solo
quando pregava)

in un vaso ho seminato
le disilluse speranze dell’uomo –
spero ancora che mettano germogli!


vii


STRADA CHE ADDORMENTI IL CUORE
GUARDA L’ASSURDO VIAGGIATORE

ecco la città che s’avvicina
come uno scatarro m’appare –
la città è qui
un intrigo di strade che s’accendono al tramonto
spasimi cupi di lampioni
barlumi infedeli ai nottambuli ubriachi di noia
sputati dalle porte dei bar
e scuorati
nel perimetrale raccordo del Muro
che ristagna opaco nel sonno,
davanti ai loro passi strascicati si perde
l’ululato dell’ultimo autobus
(IO SONO QUI NUDO SENZA IDENTITÀ
dietro la maschera idiota di cittadino
una tosse mi percuote fino alle emorroidi)
e la peste si spande in piaghe maleodoranti infettando tutto
all’est l’aria è irrespirabile
gli urli------------frustano le case in piena notte
e nei ristagni di silenzio
la faccia gialla della luna si schiude
in un comatoso sorriso
mostrando tre file aguzze di denti
sui canali navigano canotti di gomma carichi di carogne
letame furibondo                     dove germogliano
intravisti nei volti sfigurati i vermigli e benedetti
fiori del vizio
la città           è una casa d’appuntamenti

mentre l’alba schiamazza in riverberi marci
vizza come le mammelle
della vecchia baldracca che dorme sul sofà
si riapre la caccia
le parole------------borseggiano i cuori del prossimo
aprono vie inesplorate al paradiso del sangue
alza la voce e parla

VOGLIO MORIRE COME CITTÀ PER NASCERE COME UOMO


viii


tornando ad inverno inoltrato
(perché la campagna sorride ai miei passi?
tra i covoni di fieno ritorno
                                         alle prime esperienze?)
niente volle sapere
si rotolò nel fango
sguazzando fra le pozzanghere
col moncherino della gamba amputata
aveva la testa stravolta
e ridendo per mostrarmi la cicatrice all’inguine
la svitò prendendola in mano
s’alzò la gonna
all’altezza del ginocchio
e disse
l’in-
contro
è uno
scontro

mezzodì
sul torrente frantuma
il ghiaccio notturno

e i lampi sbocciarono
fracassandogli lo scoppio repentino
la testa che
aveva in mano
mostrando


ix


IO SONO UN GENIO

m’hanno legato alla vita con catene di verbi
hanno aperto le mie viscere coi coltelli del formaggio
e m’hanno accarezzato coi bastoni del disprezzo

ho sognato di rendere l’odio con l’amore
e m’hanno impresso nell’anima il marchio del pazzo

ho imbracciato i fucili della vendetta
facendone stampelle per la mia disperazione

in questa cantina fuori mano
affilo i miei denti di serpente

traverso le piazze avvolto nel ridicolo mantello
cucito con le dicerie degli sciocchi

la vita corre sui miei nervi tesi
e io mi scaldo al sole
mi siedo a meditare sull’acqua sul pane
su dio sulle feci e sul vento

il vento non ha mai mantenuto le promesse

io vivo così ma posso morire
voglio anche morire

perché è più facile vivere che voler vivere
e non il contrario
infatti ci sono pozzi ovunque
che si spalancano davanti ai nostri passi


x


voglio aprire la luce

avete paura della luce
perché la luce vuol dire ripensare tutto

voglio distendermi su un freddo lettino d’ospedale
e fare l’inventario della mia vita

voglio cancellare in me stesso le tracce
di quanti ho amato, di quanto ho conosciuto

voglio scordare perché la luna ha le sue fasi
come una donna ha le sue cose una volta al mese
e che di questo sempre si stupisce

voglio morirmene solo come un cane
in un freddo e sporco lettino d’ospedale
e non affogare nel mare della tranquillità
e morendo auspicare il nuovo ordine sociale
chiamato------------anarchia

OM MANI PADME UM


AVETE SPEZZATO LE MIE SPERANZE
IMBAVAGLIATO IL MIO SPIRITO
TORTURATO LA MIA ANIMA
E ADESSO MI CHIEDETE DI VOTARE PER VOI
IO VOTO PER ME


epilogo


uscì,
sul portone Caravaggio
chiedeva l’elemosina ai passanti
avvolto in un vecchio cappotto sdrucito,
lo sferzava il nevischio incessante
– e non lo riconobbe


DITE AL SOLE E ALLA LUNA DI FARE UN CIELO NUOVO

(1967-1977)


(inedito)


NOTA

Fu Giovanna Sicari – non ricordo il periodo, ma parliamo di metà anni Ottanta – a darmi il dattiloscritto di questo poemetto. A Giovanna era stato proposto – non ricordo se dall’autore o da chi altri – per “Arsenale”, la rivista da noi e da altri poeti fondata e diretta da Gianfranco Palmery. Io, a mia volta, l’avevo passato in lettura ad Alessandro Ricci. Il testo, un po’ strano, ma interessante, benché vagamente avanguardista ci convinse a pubblicarlo – questo lo ricordo –, ma non subito, chissà perché. Poi “Arsenale” smise di esistere, perciò non fu più possibile. Da allora è rimasto sepolto con altri dattiloscritti in uno scatolone in casa di Alessandro Ricci. È tornato alla luce di recente, quando – in qualità di curatore testamentario delle carte di Alessandro – ho messo le mani in quello scatolone. L’ho riletto e, nonostante il mio interesse sia meno vivo d’allora, mi è sembrato giusto rimediare al torto di tanti anni fa pubblicandolo qui. Considerato il tempo trascorso, spero che non venga giudicato male.
Al dattiloscritto, e con esso passato di mano in mano, era allegato anche il ritaglio del settimanale “ABC” con la concisa autobiografia di Friedrich Schröder-Sonnenstern, che si legge nel post di lunedì scorso. È alle esperienze di vita dell’artista tedesco, al quale è dedicato, che mi pare s’ispiri il poemetto.
Non sapevo allora, né so ora, chi sia o sia stato Libero Tecci, l’autore del poemetto, e nemmeno ho più letto altro di lui, o avuto sue notizie. Se – per uno di quei casi fortunati che accadono ogni tanto e che stupiscono sempre – dovesse entrare in questo blog e leggere il suo testo, lo prego di farsi vivo; o lo faccia chiunque lo conosca o l’abbia conosciuto.


lunedì 23 giugno 2014

Friedrich Schröder-Sonnenstern

AUTOBIOGRAFIA 


1892: nato l’11 settembre in Lituania, figlio di un vetturino, cresco fra tredici fratelli come un fanatico fuoriclasse. Fin dall’infanzia mi sento isolato, nessuno vuol giocare con me. La domenica, quando le ragazze tornano dai boschi coi loro innamorati, mi arrampico sugli alberi, nella penombra, per fare pipì sui loro cappelli e i bei vestitini. Risultato: botte da tutte le parti. 1906: casa di correzione. 1910: evasione. Finiti i risparmi, trovo lavoro in una fattoria. Un giorno il fattore si fa troppo tenero con me a forza di cicchetti e io salto dalla finestra. Tre giorni dopo, il fattore sale nella mia camera con il padrone. Trovano il suo portamonete nascosto sotto il mio pagliericcio. Io reagisco violentemente. Quando arriva la polizia afferro il coltello del formaggio. Mi strangolano quasi con una corda da bucato, manicomio, camicia di forza. Cinque mesi dopo mi lasciano uscire come guarito.
1915: vengo fatto abile per il servizio militare e inviato al fronte. Divento il pagliaccio del reggimento. I medici borbottano: “Tara ereditaria, idiozia, debolezza mentale”. 1917: divento contrabbandiere. Vengo arrestato e ricondotto ancora una volta in manicomio. 1920: Berlino, faccio il guaritore e l’astrologo. Monaco: fondo un circolo spiritistico; è allora che incontro e comincio ad amare una giovane baronessa dotata di conoscenze speciali e internazionali. 1930: di nuovo in una casa di cura per alienati, vi incontro un disegnatore malato che guardo lavorare. Dietro suo consiglio, mi procuro del materiale e comincio a disegnare. 1937: Berlino, pubblica beneficenza. 1944: mi installo nella cantina di una casa diroccata. 1949: le mie gambe si gonfiano di acqua, non posso più infilarmi le scarpe e rimango in casa. È allora che mi ricordo del disegnatore malato che mi ha incoraggiato. Mi butto in questo lavoro con una foga che fino ad allora non mi conoscevo. Ho già fatto un centinaio di fogli quando incontro il professor Kubisczeh che si interessa ai miei lavori. La Galleria Springer acquista i miei venti disegni più belli. La maggior parte dei professori dell’Accademia di Belle Arti di Berlino Ovest mi ha trattato con disprezzo.
1959. Conclusione. Avete spezzato le mie speranze, imbavagliato il mio spirito, torturato la mia anima e adesso, adesso mi chiedete di votare per voi: io voto per me.

Traduttore dal tedesco sconosciuto

Quest’autobiografia, concisa e parziale (l’artista è morto nel 1982), di Friedrich Schröder-Sonnenstern, fu pubblicata su un settimanale, “ABC”, forse in occasione di alcune mostre che l’artista tenne in Italia nel lontano 1966.
Friedrich Schröder-Sonnenstern fu pittore e disegnatore geniale e controverso, rappresentante dell’“Art Brut”; “artista grottesco e lubrico”, lo definì Gillo Dorfles in un articolo del 12 giugno 2013 sul “Corriere della Sera”, in occasione della 55a Edizione della Biennale di Venezia, per la quale erano state scelte anche alcune sue opere. 


Per vedere alcune opere di Friedrich Schröder-Sonnenstern: www.youtube.com/watch?v=kKBF7xWGZPI‎





venerdì 20 giugno 2014

Camillo Fonte

UNA PASSEGGIATA SERALE

Le sei, tristi! Al fervore
delle strade alla nube
rosa e trepida al vento che la muove
a te così vicina
cantano le ore morte…
                                           «In altra espio
notte senza concordia il respirarti».

Brulica in ampio spazio
ardua luce. Mi vivo 
– per averti –  fra ruderi sommersi
di memorie, deriva alle diurne
possibili apparenze. Ai molti inganni
tuoi consento. Altra voce
profferisce parole ora d’amore
e ora di minaccia. A che ti pieghi
in solitaria notte?

Transito a migrazioni il promontorio
a sua stagione inclina
e si concede. Eludi,
tu, consuete attenzioni. Mi sgomenta
come canto di passeri indolenti
il superstite amore
che ancora a sé ti lega.


dal poema inedito L'isola

mercoledì 18 giugno 2014

Paolo Silenziario

NON LOTTO PIÙ

Non lotto più: è spenta la vampa feroce, incandescente:
Venere mi avvolge di freddo, io muoio.
Strisciava per le carni, e ora per le ossa, il cervello
quest’amore triste, ansante, dovoratore.
Così nei sacrifici la fiamma consuma le vittime,
le manca l’alimento, si raggela.

Traduzione di Umberto Albini

da Bisanzio nella sua letteratura. A cura di Umberto Albini e Enrico V. Maltese, Garzanti 1984

lunedì 16 giugno 2014

Luigi Di Ruscio

QUANDO NEL PAESAGGIO ANCORA INVERNALE

quando nel paesaggio ancora invernale morso dal gelo
improvvisamente esplode la fioritura del mandorlo
la precocità e l’estrema debolezza del tuo splendore
la minaccia è sopra di te i primi sono in pericolo estremo
la fioritura del mandorlo brilla nostro debolissimo vessillo
tu vessillo di morte precoce e di tutti gli inizi
poca materia viva circondata di morte
i nostri debolissimi segni della speranza pronti a finire
i primi di un nuovo mondo splendidamente vivi
con la gola serrata dalla morte

da Enunciati, Stamperia dell’Arancio, 1993

venerdì 13 giugno 2014

Nicola Bultrini

IL QUINDICESIMO RECINTO

Il quindicesimo recinto
è il più trascurato al cimitero lagunare.
Iscrizioni illeggibili
marmi piegati tra zolle
alcune pietre in pezzi, urne sfondate.

Ti aspetteresti di vedere
le ossa sparse, invece
nell’incuria
ogni cosa mantiene
un ordine elementare.

Un cespuglio floreale copre
la lapide bianca di Brodsky
su cui poggia
un panama sgualcito.
Una rosa appassisce
davanti al nome Pound.

Il resto del cimitero monumentale
è ben curato. I pini
seguono i viali con le loro ombre
le tombe stanno in ordinata disciplina.

Il tempo è se le cose si consumano
la poesia è un resistere audace.

Da La specie dominante, Nino Aragno Editore, 2014

mercoledì 11 giugno 2014

Agazia Scolastico

LA PENA DI NOI DONNE

La pena di noi donne e fragili
non la conoscono i maschi. Hanno
gli amici, si sfogano liberamente,
raccontano le proprie angosce, e poi
per consolarsi c’è il gioco, le strade
su cui vagabondare, i colori da vedere.
A noi è vietato uscire all’aperto: restiamo
a logorarci, in stanze buie, con i nostri pensieri.


Traduzione di Umberto Albini

da Bisanzio nella sua letteratura. A cura di Umberto Albini e Enrico V. Maltese, Garzanti 1984

lunedì 9 giugno 2014

Elio Filippo Accrocca

HO DORMITO L’ULTIMA NOTTE

Ho dormito l’ultima notte
nella casa di mio padre
al quartiere proletario.

La guerra, aborto d’uomini
dementi, è passata sulla
mia casa di San Lorenzo.

Il cuore ha le sue distruzioni
come le macerie di spettri,
eppure il cuore ancora grida,

geme, dispera, ma vive
come la madonna di Raffaello
salvata tra i sassi della mia casa

e un paio di calzoni grigioverdi.

3 aprile 1945

da Portonaccio, Scheiwiller, 1949

venerdì 6 giugno 2014

Jaime Gil de Biedma

PANDEMICA E CELESTE

        quam magnus numerus Libyssae arenae
        ...
        aut quam sidera multa, cum tacet nox,
        furiuos hominum uident amores.
                      Catullo, VII


Immaginati adesso che tu ed io
a notte già inoltrata
parliamo da uomo ad uomo, finalmente.
Immàginatelo,
una di quelle notti memorabili,
di rara comunione, la bottiglia
mezza vuota, i portacenere sporchi,
dopo aver esaurito il tema della vita.
E che io ti mostri un cuore,
ed un cuore infedele,
dalla vita in giù nudo,
ipocrita lettore – mon semblable, – mon frère!

Ma non è l’impazienza di chi cerca l’orgasmo
che mi spinge col corpo ad altri corpi 
giovani, se possibile:
io inseguo anche l’amore
dolce, il tenero amore per dormire al suo fianco
e che al risveglio mi rallegri il letto,
vicino come un passero.
Eppure io non posso più spogliarmi
se non ho mai potuto, tra le braccia
di qualcuno, sentire – anche solo un momento – 
lo stesso abbaglio provato a vent’anni!
Conoscere l’amore ed impararlo:
è necessario essere stato solo.
E è necessario in quattrocento notti
– con quattrocento corpi differenti –
aver fatto l’amore. I suoi misteri,
come disse il poeta, appartengono all’anima,
però è un corpo il libro dove leggerli.

Perciò sono felice d’essermi rotolato
sulla rena, noi due mezzo vestiti,
mentre cercavo il tendine della sua spalla.
Mi commuove il ricordo delle tante occasioni…
Quella strada in montagna
e gli abbracci furtivi ma ben spesi
e l’attimo indifeso, in piedi, alla frenata,
appiccicati al muro, accecati dai fari.
O il tramonto sul fiume
sorridendoci, nudi, incoronati d’edera.
O quel portone a Roma – al Babuino.
E i ricordi di facce e di città
appena conosciute, e di corpi intravisti,
di scale senza luce e di cabine,
di bar e di postriboli, di vicoli deserti,
d’infiniti casotti balneari
e di fossati di un castello.
Ma, soprattutto, i ricordi di voi,
o notti negli alberghi di una notte,
nottate decisive in sordide pensioni,
in camere già fredde,
notti che ai vostri ospiti rendete
il sapore di sé dimenticato.
La storia in corpo ed anima, un’immagine a pezzi
de la langueur goutée à ce mal d’être deux.
E senza disprezzare – allegri come 
in un giorno festivo a metà settimana – 
esperienze promiscue.

Benché sappia che a nulla mi varrebbero
le fatiche dell’amore disperso
se poi non esistesse il vero amore.
L’amore mio,
                         l’immagine intatta della vita 
mia, sole delle notti che le rubo.

La giovinezza sua, la mia,  
– musica del mio fondo – 
sorride ancora nella grazia imprecisa
d’ogni giovane corpo,
in ogni incontro anonimo
dandogli luce, e un’anima.
E non ci sono cosce belle che le sue cosce
belle non mi ricordino
quando ci conoscemmo, prima di andare a letto.

Né la passione d’una notte di sonno
che possa confrontarsi
con la passione che ci dà il conoscerci
e gli anni d’esperienza
del nostro amore.
                                 Perché anche nell’amore
ha un’importanza il tempo,
e, in qualche modo, è dolce
con mano malinconica provarne
il passaggio avvertibile su un corpo  
– e intanto basta un gesto familiare
sulle labbra 
o il fremito leggero di un suo membro 
per suscitare in me la meraviglia 
di quell’antica grazia, 
un riflesso fugace.

La sua pelle sciupata voglio premere
– già passati altri anni e avviati noi alla fine – 
con le labbra invocando l’immagine 
del suo corpo, e di tutti gli altri corpi, 
già disfatti dal tempo, che una volta
ho amato, anche soltanto per un attimo.
Domandando la forza per continuare a vivere
senza bellezza, senza forza e senza 
desiderio, ma ancora insieme, uniti
fino a morire in pace, noi due, come si dice
muoiano quelli che hanno molto amato. 

Traduzione di Francesco Dalessandro


da Antología poetíca, Alianza Editorial, 1981





mercoledì 4 giugno 2014

PICCOLA ANTOLOGIA POETICA DI PRIMA MEDIA

Barbara

Er core è rosso,
ma l’anima
nu lo so.


Silvana

Er cielo brilla
er mare è in
tempesta, se tu
me lasci io te
spacco la testa.


Silvia

Sento che quarcuno me cerca
sento che quarcuno me vole
ma ormai sto priggioniera
e non pozzo scappà 
da ’sta maledetta galera.


Marcella

De tanto sole
nemmanco ’n raggio,
co tante rondini
nemmanco ’n volo.


Vittorio

Dio aiutame,
cor mare tanto grosso,
e la barca così
piccola.


Magda

Faccio anni 
dodici,
passati come
ar vento. 

*
Se impazziscono
d’amore.
S’amano senza
sentì i genitori.

*
Sogno d’esse
’n quaderno
pe esse 
presa dalle
mani tue.

*

Vorrei esse
l’ossigeno
pe esse
fregata da
tutti.

*

Un giorno
vado,
un giorno
vengo.
E la gente
me chiede:
«Da do’
vieni? ’n do’
vai?». E
j’arispondo:
«Saranno pure
cavoli mia».

*

Er buio appare
senza sapé
se ho sonno.



Questi testi sono stati scelti fra i molti scritti dagli alunni di una scuola media, per impulso del loro insegnante, il poeta Alessandro Ricci, negli anni Settanta del Novecento.

Da Romanesca. Voci e visioni di Roma, Il Labirinto, 2011

lunedì 2 giugno 2014

Hafiz

LA MORTE MIGLIORE

Io sono solo un povero lumino ad olio,
che si vede appena tremolare nella notte. 

Tu sei la luce sensuale del mattino che si leva 
meravigliosa e splendente all’orizzonte.

Per colpa tua si spegne il mio lumicino. 
Ma non piango, perché anch’io devo morire.

Tu sei la Bellezza inesplicabile. Io dove 
potrei morire meglio che fra le tue braccia? 


Traduzione di F. D. 

da Poesías Orientales traducidas por Emilio Prados, Antigua Imprenta Sur de Málaga, 2005