mercoledì 31 dicembre 2014

Franco Fortini

LA PARTENZA

Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.

Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.

Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.

Da Poesie scelte, Oscar Mondadori, 1974


lunedì 29 dicembre 2014

William Shakespeare

SONETTO CXXIX

Dispersione di spirito in turpitudine e vergogna    
è l’atto di lussuria e la lussuria, in atto,
è spergiura, assassina, infame, sanguinaria, 
selvaggia, estrema, bruta, crudele, non leale;
non appena appagata, subito disprezzata;
senza senno inseguita e appena avuta
odiata senza senno, esca inghiottita, tesa
per portare chi abbocca alla follia;
folle nel perseguire e così nel possesso;
dopo l’atto, durante, e nel volerlo, estrema;
un’estasi alla prova e provata una pena;
prima offerta di gioia, dopo un sogno.
Questo sa bene il mondo, ma nessuno sa bene
sottrarsi al paradiso che spinge in tale inferno.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da Ladro gentile, Edizioni Il Labirinto, 2014

venerdì 26 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

ELEGIE SENTIMENTALI


V                                                                  


Dono splendido, il vino
placa i tumulti cura
le ferite dell’anima. Stordisce
come l’amore ma non giura non
tradisce. A questo giorno
finalmente sereno che finisce
brindiamo, amici. Il vino
dà sollievo al dolore e non inganna
non rende molle il cuore.
Da chi giura e spergiura
guardatevi. Begli occhi
belle bugie. Dolci parole
e giuramenti non valgono niente.
Io lo so. Ma è difficile
fingere che è finita che è finito
anche l’amore. Il vino
in questo non aiuta.
Anche se non mi pensi
più, sii contenta, 
sii felice. Per me
domando solo questo:
tenerti tra le braccia
ogni notte e ogni giorno
viverti accanto vivere
con te perfida ma 
– benché perfida – 
cara.


VI                                                                         


Amici, vi trattiene l’onda fresca
delle fonti toscane in questa calda
primavera che mi annuncia la fine.
Benché la brina sulle tempie ancora
non sia scesa a schiarirmi i capelli
né col suo passo greve la vecchiaia                        
sia venuta a piegarmi, sto morendo.
«Quando sarà compiuto il giusto tempo
della vita e già vecchio ai ragazzi
non narrerò che vecchie storie allora
serenamente morirò»: così
m’auguravo. Perché staccare l’uva
ancora acerba dalla vite, o i frutti
dalla pianta raccogliere immaturi?
Ma ormai da settimane,
mentre voi nelle fonti con la mano
pigra smuovete l’acqua
io sento di morire. E giunto al limite
della vita, non posso rivedervi,
lontani a festeggiare questa molle
struggente primavera. Ma dovunque
io sia, qui vivo o dove 
la sorte mi vorrà, voi, amici, siate 
felici e ricordatemi.


(Imitazioni da Ligdamo, Corpus tibullianum, III, 5-6)

mercoledì 24 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

ELEGIE SENTIMENTALI


III                                                      


Alba radiosa a me ti renda giorno
felice! Cosa serve aver sofferto
tanto se non ritorni?
Niente senza di te, niente e nessuno 
conta più.
Non contano ricchezze né palazzi
belli con bei giardini
e soffitti dorati o quanto basti
a stupire la gente: falsi beni.
Conta solo una vita
nostra benché modesta, stare insieme 
e insieme condividere le poche
gioie le molte pene per il breve 
tempo che ci è concesso prima 
che una lenta 
acqua ci porti sopra nera barca
per fiumi desolati.                     


IV                                                                    


Già sbiancava la notte
sul fiume azzurro che circonda
il mondo quando con l’ultimo sogno
venne un dio: «Chi t’è cara
quella che tanto affanno
ti costa cui dedichi versi
ama un altro. Ma le donne
hanno animo mutevole. Potrai
riaverla se l’aspetti
fiducioso. Non c’è
amore senza affanno
e pena ma anche un cuore
duro si vince. Pregala così:
“Torna e saremo ancora
felici”.
Mandale sempre versi
commoventi».


(Imitazioni da Ligdamo, Corpus tibullianum, III, 3-4)

lunedì 22 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

ELEGIE SENTIMENTALI


I                                                                       


È festa nelle strade. In ogni casa
si scambiano i regali. 
Io a colei che è mia 
e (se anche mi sbagliassi) molto cara
che donerò? Le belle
da belle parole si lasciano sedurre
e le avide dall’oro. Dei miei versi,
lei, che sola ne è degna, sarà lieta.
Un niveo libretto è il regalo
che le mando, pregiato dedicato.
Portateglielo voi, ragazze. Andate
a casa sua e porgetele a mio nome
l’elegante libretto. Lei in risposta 
vi dica se un amore uguale al mio
per me prova, o minore, o addirittura
se le fossi caduto dal cuore.
Fatele prima molti auguri poi
ditele sottovoce: «Questo dono
te lo manda colui che ti fu sposo
e adesso amico. Accèttalo,
perché tu gli sei cara più dell’anima
sia che resti sua sposa o solo amica. 
Sposa è meglio: nemmeno
la morte può impedirgli 
di chiamarti con questo nome».


II                                                                   


Cuor duro ha chi l’amata
strappò all’amante. Ma chi tanto strazio
potesse sopportare avrebbe cuore
di pietra. Anche un animo forte
riesce a piegare un forte 
dolore. Non so rassegnarmi
a perderti…


… di questa vita che mi ha dato
soltanto sofferenza, ne ho abbastanza!
Presto un’ombra impalpabile
sarò. Lei al mio rogo 
corra allora piangendo scarmigliata.
Dalla cenere nera tolga le ossa
e depostele versi preziosi
profumi d’oriente e miste a quelli
le sue lacrime. – Morto
è così che vorrei la sepoltura.
Però il motivo vero
della mia morte prematura svelino
questi versi: 
   
              QUI UN POETA RIPOSA                    
 IL DOLORE E LA PENA PER LA SPOSA
INFEDELE NE CAUSARONO LA MORTE


(Imitazioni da Ligdamo, Corpus tibullianum, III, 1-2)



venerdì 19 dicembre 2014

Gerard Manley Hopkins

LA FRONTE DEL PASTORE

La fronte del pastore, affrontando la folgore forcuta
ne riconosce l’orrore, la rovina e la gloria.
Crollano angeli, sono torri, dal cielo – una storia
di maestosi e giusti gemiti giganti.
Ma l’uomo – impalcatura di poche fragili ossa,
noi, che respiriamo dall’infanzia strisciante alla vecchiaia
ansimante, e il respiro è il nostro memento mori
quale basso è la nostra viola per i toni tragici?
Vive mano alla bocca, si svuota con vergogna,
lui! E sotto il lustro del nome per quanto potente, 
è solo un poveruomo, la compagna una donnetta.
Io che muoio queste morti, che nutro questa fiamma,
che… scruto in lisci cucchiai riflesso il teatro della vita, 
qui placo le tempeste, il mio fuoco e la febbre ansiosa.


Traduzione di Francesco Dalessandro

da I sonetti terribili, Edizioni Il Labirinto, 2003

mercoledì 17 dicembre 2014

Giancarlo Pontiggia

PONGO UNA CANDELA

Pongo una candela
tra i miei occhi e il muro: s’infiamma
lo scuro; s’inombrano
le porte delle stanze. M’incammino
oltre la scia di luce: raggia
l’ombra alle mie spalle, si svuota
l’incendio del muro. Così,
bastano pochi passi, e già t’inoltri
dov’è il confine dei tuoi occhi.

Da Lux nox, Alla chiara fonte, 2008

lunedì 15 dicembre 2014

Elio Filippo Accrocca

PONTE MILVIO

Non avevo mai visto i gabbiani
che s’aggirano a sud di Ponte Milvio
il più antico di Roma, il più meritevole
di questo elogia, alata compagnia
che gli altri ponti ignorano.

Nei cerchi e scie di voli s’agita un linguaggio
che pochi decifriamo, fatto d’aria,
appena il fiume e tu e forse i platani:
parole segni voci gesti, un rito ripetuto
nel tempo che qui sosta.

Ignaro il fiume sgretola parole,
eventi, nomi, storie di millenni,
per ornarsi del volo dei gabbiani...

19 gennaio 1968

da Roma così... per il Duemila, Istituto Nazionale di Studi Romani, 2000

venerdì 12 dicembre 2014

John Keats

ODE A UN USIGNOLO


I
Il cuore mi duole, e un pesante torpore 
opprime i miei sensi, quasi avessi bevuto 
cicuta o per effetto di un potente 
narcotico fossi sprofondato nel Lete,
ma non per invidia della tua sorte 
fortunata, anzi troppo felice per la felicità 
con cui, Driade degli alberi, tu, d’ali 
leggere, in qualche verde
melodioso boschetto di faggi ricco 
d’ombra canti l’estate a squarciagola.

II
Oh, un sorso di vino mantenuto a lungo
al fresco in un antro scavato nella terra,
che sappia di Flora e di verde campagna,
di balli, canzoni di Provenza, solare 
allegria! Oh, una coppa colma del calore 
del Sud, e del vero, rosato Ippocrene:
bollicine brillanti ne imperlano l’orlo,
la bocca si tinge di rosso!
Oh, bere e non visto lasciare questo mondo,
sparire con te dove si oscura la foresta!

III
Svanire, dileguarsi, e così dimenticare 
ciò che da sempre ignori, tra le foglie:
noia, febbre e inquietudine qui, dove 
gli uomini siedono ascoltando i reciproci lamenti
e un colpo ne scuote i radi ultimi grigi capelli; 
dove gioventù impallidisce deperendo e muore
e già il pensiero è dolore che opprime, 
cupo e greve sconforto, 
e bellezza vedrà spenti i suoi occhi luminosi
o il nuovo amore li piangerà solo un giorno.

IV
Andarmene! andar via! per volare da te:
non sul carro di Bacco coi leopardi,
ma sulle invisibili ali della Poesia,
benché la mente ottusa indugi perplessa.
Con te, eccomi! Tenera è la notte
e la luna-regina siede in trono: intorno 
ha le sue fate stelle; non c’è luce, 
qui: solo quella 
che dal cielo soffia il vento tra verdi 
ombre e avvolgenti viottole di muschio.


V
Non distinguo né i fiori ai miei piedi  
né fra i rami l’incenso soave, ma nel buio 
odoroso riconosco ogni fragranza
che il mese offre all’erba e alle siepi, 
ai selvatici alberi da frutto e alla rosa
muschiata, al biancospino e alle viole
che presto avvizziscono sotto le foglie, 
alla primogenita di maggio, 
la rosa in boccio già ebbra di rugiada, 
ronzante rifugio d’insetti nelle sere d’estate.

VI
Mentre scende la tenebra, t’ascolto; 
spesso con la morte che reca sollievo 
feci quasi l’amore, le diedi nei versi 
teneri nomi perché all’aria mischiasse
il mio quieto respiro; mai m’è parso 
più prezioso morire: in piena notte 
spegnersi senza pena, mentre l’anima 
intorno tu – in estasi – effondi.
Continueresti il canto; ma nella terra io
per il tuo requiem non avrei più orecchi.

VII
Non sei nato per la morte, immortale 
uccellino! Né generazioni affamate
ti calpestano: ascolto nella notte fuggente 
la voce che un tempo udirono buffoni
e re; forse il canto che nel cuore triste 
di Ruth trovò una via quando fra il grano
straniero piangeva per la nostalgia; 
lo stesso che incantò 
fatate finestre aperte sulla schiuma 
di mari perigliosi, in terre in abbandono. 

VIII
Abbandono! La parola è un rintocco 
di campana che mi respinge verso il mio 
io solitario. Addio! La fantasia, ingannevole
elfo, non può illuderci più come sa fare.
Addio! addio! Il tuo inno dolente svanisce
oltre i prati vicini, oltre il quieto ruscello,
sul fianco del colle, e ora giace in fondo
alle radure della valle accanto.
Fu visione o solo sogno a occhi aperti?
La musica è svanita: io veglio o dormo?


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Sull’indolenza e altre odi, Il Labirinto, 2010

mercoledì 10 dicembre 2014

Robert Lowell

L’ADDIO DI SANTAYANA ALLE SUORE

Lo spirito dà vita; ucciderà la lettera 
il pacifico eccentrico, se – volontà del cielo –  
trovò la Chiesa troppo buona per crederle? 
«Morrai come hai vissuto», risposero le suore. 
Mi chiedo come vagliano il mio scritto. 
O se non sono troppo attente per nutrire
a lungo l’illusione. Quando pensai che Paolo, 
l’uomo il più miserabile, pur predicando il vero 
avesse perso il segno a portata di mano, 
diedi al Vangelo senza fondo un’anima. 
Dal mio discorso prospettiva e cuore ebbe l’essenza. 
Morendo, immaginai che le mie suore 
azzurre oche bambine mi premessero addosso 
sibilando: «Offra Roma il suo migliore». 
   Fino a che Curzio in armi di sé riempì la buca.

Traduzione di F.D.

lunedì 8 dicembre 2014

Umberto Piersanti

UN FUOCO DI NOVEMBRE

un solo fuoco di novembre
acceso, un solo fumo
s’alza tra la bruma
lieve che scende
e si congiunge al mare,
questa è una terra
che conosci da poco,
estranea ancora,
ma oggi la più tua,
più d’ogni altra contrada
accompagna lo sguardo
ed il cammino,
e tu ricerchi i varchi,
li oltrepassi,
ma poi dentro ritorni
ch’altro non puoi
da questa pace grigia
ti distoglie un pianto
senza senso e senza requie,
il grido sconsolato
di quel figlio
che sempre in queste nuove
stanze t’accompagna
altri fuochi ricordi,
in altre ere persi,
in altri spazi,
fitti per tutti i campi
sopra ogni greppo,
e tu ci passi in mezzo
stretto alla mano
della giovane madre
che ti conduce

giorni di Feste Meste
dice la madre,
ma attorno a quei fuochi
vedi figure come sospese
e liete
e trasognate
e nella cena scura
sulla madia
l’acetilene luce
tra i formaggi
e il vino salta fuori
dalla botte,
come fa l’acqua al fosso
sopra i sassi
quanta gioia ostinata
dentro ogni bruma,
infanzia tu sei
eterna epifania,
se spesso poi ti punge
con lunga spina
quei fuochi ancora illuminano
la strada

Novembre 2013


venerdì 5 dicembre 2014

Salvatore Ritrovato

LE MANI SPORCHE

Le mani, oggi, girano inguantate,
ad altri passano la pena di questo paradiso.
Sotto il motore è il giovane assistente.
Il capo ha un camice stirato, inforca
occhiali: legge le operazioni, quali
pagherò a ore, ricambi a parte,
che cosa sconta l'assicurazione
e di routine si omette.
Io e lui, si vede, la stessa scuola.
Non sporca niente, il lavoro è buono
dice: gli utensili in vetrina, il bancomat
sul tavolo. Resiste solo
una macchia di grasso sul bancone,
racconta un’altra arte.

Io pure levo croste alle parole, ci provo.
Con le mani sporche tiro via l’ultima patina
che insidia, prima che sia tardi e inutile,
parlare di poesia, sceglierla per la vita.
Parole vengono alle dita da una corteccia
del mio cervello e non so cosa
le tiene sveglie, un cursore le getta
qua e là, davanti, le sposta.
Quindi le posa su uno schermo, la mattina.
E se in fondo resta un’impronta (sugo,
uova, briciole, caffè: gli avanzi
dispersi di altre generazioni),
cancellarla è facile, non rimuoverla.
Ci vogliono anni di silenzio.
Un’altra lingua si nutre di gorghi e varchi.
È come quella, mi mostra il capo
dietro l’officina, snob e sonnolenta,
la jaguar d’epoca. A chi non piacerebbe
averla. Consuma tanto, è lenta.
Da allora corre solo strade rotte.

Da L’angolo ospitale, La vita felice, 2013

mercoledì 3 dicembre 2014

Francesco Dalessandro

LA GIOVINEZZA                                                             


La giovinezza passa presto
e quando si vorrebbe che tornasse – 
e con essa l’amore – è troppo tardi:   
scopri i primi capelli
bianchi e sai che non serve
tingerli né strapparli
uno ad uno, o rifarsi
il viso per nascondere le rughe.
Perciò finché fiorisce
approfittane! Goditela la tua
giovinezza, non perderla. 
Non farti lusingare 
da qualche gioiello
che un vecchio spasimante
ricco t’infila al dito 
o lega al braccio e al collo. 
I frutti dolci
godine dell’amore. Chi da sola
dorme fredda e nessun
uomo la vuole di pietre preziose 
e gemme non 
sa che farsene. Tu 
hai chi ti ama 
e amaramente piange 
la tua incostanza: non 
vantartene. 
                         
“Prometti di venire 
ma poi non tieni fede
alla promessa e io passo la notte 
nell’angoscia tra mille tormenti
odiandoti ed amandoti 
allo stesso momento. 
Però basta qualcosa che si muove 
che il vento tocchi una foglia 
morta giù nel cortile 
per crederlo, quel piccolo rumore,
il suono dei tuoi passi
per farmi tremare”.
                                   Così
piange e ti prega. Non l’ascolti.
“Chi con uguale amore 
non ricambia il tuo amore” 
gli dico “più infelice 
e crudele amore dovrà piangere 
un giorno”. 
                      Cerco 
di fargli forza ma non serve. 
Potresti
mostrarti brutta senza trucco 
coi capelli arruffati dal sonno 
e trascurata ugualmente
lui t’amerebbe. Nessun
incanto l’ha stregato. La bellezza 
non ha bisogno di magie. L’aver
toccato il tuo corpo l’averti
baciata tanto e aver unito fianco 
su fianco gamba a gamba
intrecciando: ecco quale
male l’ha vinto! 
                             Per questo non farlo 
soffrire troppo e non chiedergli doni 
oltre tutto se stesso che ti dona
già pienamente. Fra 
le tue candide braccia 
stringilo contro il seno
che ti stringe tremando
timidamente e lingua contro lingua 
guizzando umidi baci dagli e coi
denti segnagli il collo…
Solo così è felice.

(Imitazione da Tibullo, Corpus tibullianum, I, 8)




lunedì 1 dicembre 2014

Valerio Magrelli

RACCOGLIMENTO

              Uno diceva: io sono prevenuto contro me stesso fin dalla nascita.
                                                                                   Friedrich Nietzsche

Mia debolezza, debolezza mia,
ma che devo fare con te?
Ho cinquant’anni e tremo quando tuona,
e sbaglio ancora posto
come quando sbagliai banco all’asilo.
Ho un corpo trapunto da graffe,
il sonno come un campo di macerie,
la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi,
e in questo Grande Sfascio, l’unica cosa intatta resti tu,
mia ferita, mio Graal, codice a barre
di un estraneo che è leso, che è fallato,
costretto a essere me.
Mia debolezza, talpa del nemico,
creaturina indifesa che mi rendi indifeso,
il solo, vero premio della morte
sarà saperti morta insieme a me,
mio motore,
mio orrore,
mia consustanziale sconfitta.

Da Il sangue amaro, Einaudi, 2014