venerdì 30 dicembre 2011

Domenico Adriano


FINE D’ANNO

«Ma di giorno, vedessi,
c’è un tratto della via
di alberi spogli carichi d’uccelli
che sembrano foglie...»

                                                    Così mi dice,
non sapendo nulla di sé
se non che un tempo invisibile
ci prende, ed è già trenta
volte che lei vede fiorire quella pianta.

E niente sa di me 
che a un vento invisibile
mi lego, che vorrei cavarmi gli occhi
che sognano che sognano
a età remote si spalancano,

guardano, gli alberi nudi
non più spogli, che volano che volano

e un tempo odoroso di canne
li prende, un battere di panni.


Da Bella e Bosco, Stamperia dell’Arancio, 2000

mercoledì 28 dicembre 2011

Gianfranco Palmery


MANIERA


I.

Se nomino i tuoi occhi, questi
perdutamente scaduti oggetti
di poesia, gemine gemme che gli austeri
poeti antichi incastonavano nei loro versi:
non è per accendere i miei di freddi
fuochi, farli rilucere col facile effetto
del colore evocato, l’azzurro, è il tuo
caso, però cangiante che trascolora
nel verde e nel grigio del più volubile
berillo; ma perché dei miei versi
il fuoco accerchi quei gelidi gemelli,
le loro luci elusive accalori,
e si rovesci il tempo: i bei cristalli
addormentati si riaprano fiori.


II.

Quante volte li ho pensati occhi
di Minerva, cerule luci
minerali che nessun fuoco altera
nella loro altèra chiaria: intenta
alla lettura o nella turrita
tua tristezza di reclusa, se gelidi
lampi raggiano quegli astrali
globi o si accendono dei fatui
fuochi danzatori dei sorrisi: Atena
senza attrezzi di guerra, persa
nei tuoi aerei pensieri – tu sei
il mio vivo palladio e fuoco e lume
dei miei versi è il raggio di questi
calunniati oggetti celesti.

da L’opera della vita, Edizioni della Cometa, 1986



lunedì 26 dicembre 2011

Giovanna Sicari


IL NATALE CADEVA A PERPENDICOLO

Scrutiamo nell’aldilà e nella vista
alibi all’inconcludenza dei fili
di Natale, qualcosa di energico e mortale
passione che non si comprende,
desiderio di ordine di legge e di euforia
ma non avevo nomi per il mio piano divino
per l’ordine che vacillava,
il Natale si faceva stretto come un tunnel di mare
che avidamente voleva risposte
ma non c’era più, qualcosa agiva.
Il Natale cadeva a perpendicolo
in una gola affranta e affamata:
in tutto questo amore ti volevo come si vuole
l’ostia benedetta,la fame, la sete
ti volevo in quello stato d’assedio
che sceglie la legge sacra.
Purezza non c’è più negli uomini, solo musica caffè, facce perbene,
perché fumavo ancora perché rischiavo
perché il destino non si rivelava.
Telefonare a questo – telefonare a quello – ma non siamo pronti!
Pigiare il pedale, comprare pigiami
e poi la cassetta automatica di Mozart
Mozart l’angoscia, il varco, l’essenza di rose
e valico sulla morale degli uomini –
Il male non è perfetto, il bene non è perfetto
angoscia e sudore: nude gambe, male, schiena
candore e frenesia, purificate!

Da Epoca immobile, Jaca Book, 2003

venerdì 23 dicembre 2011

Giuseppe Rosato


CIELE CHE SE ’NCUPISCE, TREZZECÀRESE

Ciele che se ’ncupisce, trezzecàrese
de vitre a la fenestre, la nenguente
che cale a la spruvviste, la campane
chiame quarchiàte all’ùtema nuvene,
nu selenzie: accuscì ’revé natale.
A lu pressèpie, dentr’a la capanne
stann’a ’spetta’ lu vove e l’asenelle,
Marìje e San Giuseppe vecchiarèlle.
La paje è pronte, la stella cumete
s’abbìj’a smòve’, nu file le tire
renda-rende a nu ciele de cartone.
Ddò sta lu Bambenèlle? Ggesucrìste
a st’ore avess’a èsse’ pronte a nasce’.
Ma ce pô mette’ mane a remenì’
sopr’a stu monne? E che ci-arevé ffà’
dope ca ci-à pruvàte tanta vòte
da ddumil’anne, e chi j-à date ascòte?
Sône la mezzanotte. “È nate, è nate!”
strille nu bbardascèlle: e lu Bambine
gna fa a nen sentìrele? E ccuscì,
nche nu suspire, pije e se va a stènne’
dentr’a la magnatore.


CIELO CHE S’INCUPISCE, SCUOTERSI

Cielo che s’incupisce, scuotersi
di vetri alla finestra, la neve
che scende all’improvviso, la campana
chiama, sorda, all’ultima novena,
un silenzio: così torna natale.
Al presepe, dentro la capanna
stanno ad aspettare il bove e l’asinello,
Maria e San Giuseppe vecchierello.
La paglia è pronta, la stella cometa
si avvia a muoversi, un filo la tira
rasente a un cielo di cartone.
Ma dove sta il Bambinello? A quest’ora
Gesù Cristo dovrebbe esser pronto a nascere.
Ma può metterci mano a ritornare
sopra questo mondo? E che ci torna a fare,
dopo che ci ha provato tante volte
da duemila anni, e chi gli ha dato ascolto?
Suona la mezzanotte. “È nato, è nato!”,
strilla un bambinetto: e il Bambino
come fa a non sentirlo? E così,
con un sospiro, piglia e va a stendersi
dentro la mangiatoia.


Da Lu scure che s’attonne, Raffaelli Editore, 2009

mercoledì 21 dicembre 2011

Francesco Villalba


MATTINI PURI, DI GHIACCIO


Mattini puri, di ghiaccio
Io ero forte e con mille interessi
Stendevo una mano e il mio amico
Suonava antiche romanze.

Così lusingate nascevano
Le promesse dei miei pomeriggi

Talora per lei la cui voce
Evocatrice è lontana, l’amica
Che del suo riso donava
Le ore più chiare, sfrenata e dolce...
Era sacra la solitudine
Anche se diveniva
Attesa sempre più disperante,
Se fugavo per l’Ospite la polvere
I vapori della stanza

La tristezza serviva ai miei filtri.

E tutto non era che menzogna
Non era che errore?
Quell’età che si è fatta cantabile
È degna di condanna?

La sunzione dei veleni quotidiani
I vizi e il tormento della purezza
E i molti amici e la stanchezza
E il compiaciuto decadimento;
Ma c’era la forza, e i giorni erano vivi
Erano tutti alba
Con qualche pomeriggio malinconico
Che appassiva come una rosa

Mi frastorna il ricordo
E perdo la realtà – quasi un’angoscia.

Il ricordo è solo un’astrazione mentale.
È risveglio di antichi sensi
È tempo sospeso in altra luce
È una vita passata e non risolta
Che torna in un riflusso di linfa malata.

In memoria di altri inverni, inverno 1964


Notizia
Francesco Villalba (Roma 1940-1969) è autore di poesie e prose che apparvero in varie riviste attive negli anni ’60, quali «La Fiera Letteraria», «Letteratura», «Arte e Poesia». Solitario ma non isolato, non è azzardato affermare che i suoi versi intensi e nuovi abbiano esercitato una segreta o non riconosciuta influenza su alcuni poeti suoi coetanei o di lui più giovani.
Altre notizie su Villalba si possono leggere in «Pagine», XVII, 53, ottobre-dicembre 2007. Il numero contiene una rievocazione di Gianfranco Palmery, che gli fu amico, e la poesia Epigramma romano.


La poesia qui pubblicata è uscita su «La Fiera Letteraria», XLI, 23, giugno 1966.



lunedì 19 dicembre 2011

Brad Leithauser


ESITAZIONE

            Tanto per cominciare c’è l’esitazione
messa in scena in un ventoso pomeriggio
     allo Zoo di Kyoto da uno
struzzo di fronte all’offerta
     di un pretzel: un accostarsi
color rosa su due dita allo steccato,
     per fissare sul bambino timoroso
           lo sguardo dilatato, inferocito
     del fustigatore nato,
mentre il tubo a spirale del collo
gli trema per tutto il tempo,
      perché anche l’uccello ha paura….

            L’esitazione ci mette
in rapporto col ratto sfregiato
     mentre annusa famelico
la finestra rotta della cantina;
     altrove, col ragno striato
e cauto mentre con
     imparziale, sinistra
            agilità avanza
     di fianco fatalmente
verso quel dondolio nella tela
che può voler dire preda, ma
     anche predatore.

            L’attrazione comune a tutte
le cose soggette a una forza
     contraria – come nell’incerto
debolissimo fischio di un
     bollitore che si scalda, o nel-
l’oscurato sepolto momento in cui
     un nubifragio è sicuro
            ma niente, neppure una goccia,
     si versa ancora, oppure l’avanzare
millimetrico sottilissimo della fessura
lungo il muro di granito del canale –
     unisce il nostro comico struzzo

            col collo a pretzel, così
lontano da casa, con la spinta
     dirompente, pericolosa di una pedina
dalla parte del re: l’avanzata
     di una semplice casella lungo il bordo
della scacchiera, una mossa
     comunque azzardata solo dopo
            lungo rimuginare dentro
     le viscere miniaturizzate
di un gran maestro computerizzato.
Perché pausa unisce pausa,
     o perlomeno lo farà per quelli

            desiderosi di sentire che anche
queste cose succedono con un minimo
     di riluttanza, che non cadono
come un carico, a peso morto
     giù, giù solo per collisioni
programmate, costrette per sempre
     nell’angusto percorso
            di una rigida causalità… ma ogni
     pressante secondo conoscono
secondi pensieri, e un dubbio
che diventa desiderio: se non siamo liberi
     vorremmo esserlo.


Traduzione di Aldo Rosselli e Nail Chiodo

da Between Leaps – Poems 1972-1985, Oxford University Press, 1987

venerdì 16 dicembre 2011

Claudio Damiani


SARCOFAGO


Un uomo forma un altro uomo, il primo
è in piedi e ha agli occhi due stelle, quell’altro
è seduto col viso non ancora
finito. In cielo due mani un anello

di luce portano, e obliqua nell’angolo
basso verso chi guarda, con un lungo
vestito una fanciulla, china, piange.
Davanti a tutto questo io ho avuto come

un mancamento e mi sono girato
verso l’amico che mi accompagnava:
«a parte l’uomo che conosco, dimmi,

chi è la fanciulla?», e lui a me in risposta:
«è l’anima che piange per avere
lasciato il corpo ed averlo incontrato».


da Poesia verso... (dieci letture), CCRS BNL - SEZ. CULTURALE ARTI E SCIENZE, a cura di L. Amendola e F. Dalessandro, 1982

mercoledì 14 dicembre 2011

Annalisa Comes


L’ESPLORATORE DEI MARI DEL SUD

D’estate l’uomo racconta di altre estati.
Di una lunghissima
e con il braccio fa un gesto ampio,
ma senza nostalgia.
Racconta di una foresta tropicale
e dell’oceano che canta
e dell’acqua che si colora e lui la segue
prendendo appunti sul block notes giallo.

Ho visto le fotografie dei suoi mulini.
Pezzi di eliche e l’intera classe che sorride.
Lui ha una gonna a fiori di malva.
Il suo volto appare e scompare
davanti e dietro l’obiettivo.
Viaggia notte e giorno
senza fermarsi e pensa
che qui è abbastanza lontano: ma non si ferma.

Poi un giorno è tornato a casa
una casa a sud con le grandi ombre
proiettate sulle siepi e sulla porta del garage.


Da Fuori dalla terraferma, Gazebo, 2011


lunedì 12 dicembre 2011

Enrico Fracassi


DUE POESIE


*

Giallo, livido sopra Monte Velino s’inalza
il disco che illumina l’aia.
Ma l’aia non suona di grida.
Non ci siamo stati che noi, bambini?
In una sera come questa,
ora sono dieci o dodici anni
t’ho strette le mani giocando,
fra il pagliaio ove siedi e la casa,
scotendomi la febbre le vene.
Certo, non ricordi. Che vuoi?
Da quella sera, la luna – tante volte s’è rinnovata,
e la tua bocca, come la luna – anch’essa s’è rinnovata.



Congedo

Sottoterra non vive spirito o senso:
le ceneri peregrinano, poi si confondono.
Atomi elevano le montagne, monumenti,
che illuminano lampade, senza ricordo accese.

Dolce per me sarebbe e per te profondare nella quiete,
sul tuo seno assaporo una più certa morte;
non più ascolteremmo, sparte membra nel suolo,
scendere di soppiatto, fra le viti, la sera.
Per noi, sulle montagne, ora s’accenderebbero
quelle immobili lampade sepolcrali.


Da Passione e oblio, Il Labirinto, 1998

venerdì 9 dicembre 2011

E. E. Cummings


QUANDO TU SARAI MORTA

Quando tu sarai morta, morta, e lontana dal peccato stupendo,
e l’anima disincarnata gemerà sul dirupo dell’abisso estremo
lasciando per sempre il suo cuore al freddo in un letto di terra,

quando, fuori dal corpo che il mio corpo ha amato, l’intima-
anima sarà, nuda dopo la spietata metamorfosi,
cosa dirà alla mia, quando morti, noi, morti saremo?

(Quando io sarò morto, morto, e tu sarai stata distesa,
col corpo dalle mie labbra sì amato dato ai vermi al loro bacio
con la fresca gola liscia, e la testa dalla chioma luminosa–).

Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Etcetera: The Unpublished Poems, Liveright, 1983


Ancora una variazione sul tema oraziano del carpe diem. Il 4 aprile avete letto Alla sua donna ritrosa di Andrew Marvell; il 6 aprile, la poesia di Yeats Quando tu sarai vecchia. Lunedì scorso avete letto la poesia di Lorenzo Stecchetti con lo stesso inizio. Mercoledì avete letto il sonetto di Ronsard al quale sia Yeats sia Stecchetti si sono ispirati. Ecco oggi una diversa variazione, per dopo la vecchiaia.





mercoledì 7 dicembre 2011

Pierre de Ronsard


QUANDO, VECCHIA, LA SERA

Quando, vecchia, la sera filerai seduta
accanto al fuoco a lume di candela,
ripetendo i miei versi dirai meravigliata:
mi ha cantata Ronsard, quand’ero bella.

Con te non avrai serva che sonnecchi
vinta dalla fatica che udendo le parole
e il nome di Ronsard non riapra gli occhi
e sveglia benedica il tuo per le mie lodi.

Io sarò già un fantasma che riposa
senz’ossa in terra sotto i mirti ombrosi
e tu vecchia e incurvata al focolare

rimpiangerai l’amore che sdegnasti ritrosa.
Vivi oggi, ascoltami, non aspettare
domani, cogli adesso le rose della vita.


Traduzione di Francesco Dalessandro

Da Oeuvres completes, Gallimard, 1993


A parte Alla sua donna ritrosa di Andrew Marvell, pubblicata il 4 aprile, la poesia di Yeats del 6 aprile e quella di Lorenzo Stecchetti pubblicata lunedì scorso, sono entrambe imitazioni di questo famoso sonetto di Pierre de Ronsard.
E dopo la vecchiaia? Si sa... Ecco, allora, E. E. Cummings che scrive When thou art dead. Lo leggerete venerdì.  

lunedì 5 dicembre 2011

Lorenzo Stecchetti (Olindo Guerrini)


QUANDO TU SARAI VECCHIA

Quando tu sarai vecchia e leggerai
Questi poveri versi accanto al fuoco
Rivedrai colla mente a poco a poco,
I giorni in che t’amai.

E ti cadrà sul petto il viso smorto,
Per la memoria del tuo tempo lieto:
A me ripenserai nel tuo secreto,
A me che sarò morto.

E ti parrà d’udir la voce mia
Nel vento che di fuor suscita il verno,
E ti parrà d’udir come uno scherno,
Una bieca ironia.

E la voce dirà: Te ne rammenti,
Te ne rammenti più? Com’eran belli
I tuoi capelli d’oro, i tuoi capelli
Sul bianco sen fluenti!

Oh come il tempo t’ha mutata! Oh come
T’ha impresso in viso i suoi deformi segni!
Dove son dunque i tuoi superbi sdegni
E le tue bionde chiome?

Sola al tuo focolar siedi piangendo
La giovanil tua morta leggiadria:
Io piango solo nella tomba mia:
Vieni dunque: t’attendo!

Vieni e se in vita mi fallì la speme
Di viver teco i giorni miei sereni,
Ci sposeremo nella tomba. Vieni:
Vi marciremo insieme.



Da Postuma, Zanichelli Editore, Bologna, 1961


Quante variazioni sul tema del carpe diem oraziano! Il 4 aprile avete letto Alla sua donna ritrosa di Andrew Marvell; il 6 aprile, la poesia di Yeats Quando tu sarai vecchia, e oggi leggete questa di Stecchetti. Sia Yeats, sia Stecchetti si sono ispirati ed hanno imitato un famoso sonetto di Pierre de Ronsard (Quand vous serez bien vieille) che potrete leggere, qui, dopodomani.

Dopo la vecchiaia, si sa... Ecco, allora, E. E. Cummings che scrive When thou art dead. Lo leggerete venerdì. (Ma insomma lo stesso Stecchetti, con Il canto dell'odio, che avete letto il 17 ottobre, aveva già fatto quest'ulteriore passo avanti). 


venerdì 2 dicembre 2011

Vittorio Bodini


STUDIO PER LA SANFELICE IN CARCERE

Al tempo dei Borboni
le donne erano matassine di seta,
non parliamo dei cuori di cicoria,
o dei densi gioielli dei colombi
che andavano e venivano
come schiaffi nell’aria intorno alle chiese.

Ma alle grate di ferro che danno
sui cortili umidi
i fanciulli annusavano verde e silenzio.
Che punto di partenza pei loro sogni!
Grattavano il verde cogli occhi,
il silenzio con le mani.

Limoni d’oro a volte erano stelle
a quei cieli reclusi da una porta
tarlata, oltre la quale
passava il venditore d’aghi e gridava,
gridava il venditore di semi di zucca,
la tromba del lattaio,
quella del venditore di petrolio
con il ciuco ammaestrato.
E questo era il tempo: vite umane
scandivano la misura d’altre vite,
ma pei fanciulli dagli occhi
persi nel prigioniero verde, che di rado
stormiva,
ognuno di quei gridi, ogni suono
erano distaccati dalla trama del giorno,
unici, irragionevoli.

Non per lei, no: non per la Sanfelice
in carcere;
lei di tutto faceva, d’ogni voce
d’ogni pensiero un filo
quieto ed attento al suo dolce ricamo.
Troverà nel silenzio una custodia
quel suo umano sognare?
La troverà nella calce bianca e azzurra,
e il legno della porta sarà più legno:
tutto sarà più se stesso
se lei continua quieta a ricamare.




Da Tutte le poesie, Besa, 2010


mercoledì 30 novembre 2011

Wallace Stevens


PARAFRASI LUNARE

La luna è madre di pietà e di pathos.

Quando alla fine esausta di novembre
La sua antica luce si muove lungo i rami,
Flebile, lenta, e si sostiene ad essi;
Quando il corpo di Cristo, umanamente
Vicino, pende appeso nel pallore e toccata
Dalla brina, la figura di Maria si ritira
In un riparo di foglie cadute e marcite;
Quando un’illusione dorata riconduce
Sulle case una lontana stagione di calma
E sogni confortanti a chi dorme nel buio –

La luna è madre di pietà e di pathos.

Traduzione di Francesco Dalessandro

da Collected Poetry & Prose, 89-90, Library of America, 1997


lunedì 28 novembre 2011

Gerard Manley Hopkins


L’ECO DI PIOMBO


Come serbare – c’è un modo, o proprio nessuno, in nessun posto noto, nodo o spilla, 
         nastro o stringa, laccio o gancio, chiave o chiavistello per serbare
la bellezza, preservarla bellezza, la bellezza, la bellezza… dal rapido svanire?
Oh, non c’è modo di lisciare le rughe, quelle profonde rughe in riga?
di scacciare con un gesto quei luttuosi messaggeri, silenziosi messaggeri, quei tristi 
         furtivi messaggeri di canizie? –
No, non c’è nessun modo, nessuno, no, non ce n’è uno,
né ancora per molto, come ora, potranno dirti bella,
per quanto tu faccia, per quanto, sì, per quanto potrai fare,
e è saggio ben presto disperare:
perciò inizia; perché no, non c’è niente da fare
per tenere a bada
l’età coi malanni dell’età, la canizie dei capelli,
pieghe e rughe, il mancare e il morire, della morte le cose peggiori, sudari tombe e vermi, 
          cedendo alla corruzione;
perciò inizia, su inizia a disperare.
Non c’è modo, non c’è, no, non ce n’è uno,
perciò inizia a disperarti, disperati, dispera
dispera dispera dispera.

(1882)


Traduzione di Francesco Dalessandro


da The Poems of Gerard Manley Hopkins, Oxford University Press, 1970






venerdì 25 novembre 2011

Gianfranco Palmery


IL NOME FERITO

Sarà questo forse l’inferno: mantenere
una mente mondana e fatti d’aria
e fuoco vagare per il mondo invisibili,
con il carico fiammeggiante dei desideri
traditi e irrealizzati e contemplando
la propria opera incompiuta, abbandonata
diabolicamente a metà rimpiangere
la mancata divinità del compimento;
e in un vento che affascina e sferza
consumarsi di inutile ardore
per ciò che al mondo si è amato senza
perfezione e annientamento: sospirare
le azioni, le irraggiungibili figlie
del cielo, o le parole che restarono
un sotterrato tesoro. E così bruciare
senza lacrime
per il nome ferito che si lascia,
e poiché nessun fiato di verità
e pena alla vita svilita sopravvive,
con cuore umano disperare in eterno.


ANTIFONA

Oh cuore umano: tu solo fai del tuo inferno
la tua consolazione. Sono aria
che rianima quei macchinosi, risibili
venti infernali, soffi, folate d’un respiro
che dirada i sospiri arieggia il covo
soffocante dove oppresso vivi dal peso
dei progetti mancati delle opere
lasciate a metà, da polvere e oblio mutati
ormai in parodia di se stessi;
e il fuoco futuro inganna il raggio
infuocato del rimorso in questo
lento languire che arde, l’occhio rivolto
al cielo basso dei sogni dei pensieri
dissipati, vani vapori, nuvole
pigre ondanti sotto un sole diafano, bianco,
un fantasma
di sole, questa luce dell’accidia:
poiché l’obliqua finzione illude e attesta
la verità di una pena che è eterna, ora
e qui, nel presente, e senza redenzione.


da L’opera della vita, Edizioni della Cometa, 1986


mercoledì 23 novembre 2011

Percy Bysshe Shelley

ESORTAZIONE


I camaleonti si cibano di luce
e d'aria; amore e fama sono il cibo
dei poeti: se i poeti potessero,
in questo vasto mondo di pena,
anche loro trovarlo senza tanta
fatica - muterebbero mai come fanno
i camaleonti mutevoli che accordano
il loro colore ad ogni raggio
di sole, almeno venti volte al giorno?

Sono i poeti sulla gelida terra
come sarebbero i camaleonti, nascosti
dalla nascita in una grotta marina;
dove è la luce cambiano colore
i camaleonti: così i poeti dove
non è l’amore. Poiché è amore
camuffato la fama – e se pochi
l'uno o l’altra raggiungono, non giudicate
strano questo anelare dei poeti.

Ma non osate macchiare con ricchezza
o potere la mente celestiale,
libera di un poeta: se i luminosi
camaleonti si nutrissero d’altro
che di raggi e di vento, diventerebbero
subito terreni, come i loro fratelli
ramarri. Figli di una più fulgida
stella, spiriti che venite da oltre
la luna, rifiutate quei favori!


Traduzione di Gianfranco Palmery

Da Alla Notte e altre poesie, Il Labirinto, 2002